Quando l’orologio della torre suona la mezzanotte, i tetri corridoi e le lugubri sale del Palazzo dei Veleni sono vuote e silenziose e nessun umano, o presunto tale, inquina con la sua fetida presenza la purezza della luna che illumina il salone delle armature. Le grandi finestre sono ermeticamente chiuse, il vecchio custode le controlla con cura prima di asserragliarsi nel suo alloggio con la consueta provvista di vodka e badanti ucraine, ma stasera i fogli di carta sulle scrivanie sono scossi da improvvisi mulinelli di vento. È giovedì e quattro fantasmi si ritrovano per la partita a carte. Uno è Desdemolo, l’unico spettro che riesce ancora a resistere nel Palazzaccio nonostante il fetore delle anime marce che ci lavorano, due sono ex mercenari del Sanguinoso Mucchio, le cui spoglie mortali sono state seppellite sotto la piazza grande, dopo la ribellione dei fieri cittadini che non volevano assoggettarsi al papato, e l’ultimo è un nuovo arrivato, un signore di mezza età che si è impiccato a un lampione della piazza dopo essere stato “esodato” senza stipendio e senza pensione.
Desdemolo e i due amici lo hanno trovato mentre vagava per gli uffici dove aveva lavorato tanti anni e dai quali era stato estromesso con la promessa di uno “scivolo” che non era mai arrivato. I primi tempi era stato felicissimo di riconquistare la libertà e la vita che aveva dovuto seppellire in quella fogna dopo il diploma, però una volta esauriti i risparmi e i soldi della liquidazione, alla prospettiva di mendicare aveva preferito una fine dignitosa. Desdemolo e i suoi amici lo avevano accolto volentieri nel gruppo, soprattutto quando ne avevano scoperto il talento per le carte, così tutti i giovedì notte si chiudono nell’ufficio di qualche megadirettore galattico e giocano fino all’alba, facendogli fuori le scorte di whisky pregiato, che non manca mai a quei figli di troia. Come? I fantasmi non mangiano? E chi ha parlato di mangiare? I fantasmi bevono, e sono fortemente attratti da ogni liquido ad alta gradazione alcolica, specie se di puro malto.
Dopo qualche mano in cui il neofantasma cerca di far vincere un po’ anche gli altri per non umiliarli, uno dei condottieri del Sanguinoso Mucchio porta la conversazione su un argomento che lo interessa molto: il marciume delle fetenti creature che lavorano in quel palazzo, la cui anima puzza a tal punto da aver fatto fuggire i fantasmi che lo popolavano da secoli. Il vecchio soldato fa fatica a comprendere questo fenomeno, ha combattuto contro tanti eserciti ma la banda di cui faceva parte era unita per la vita e per la morte, lui stesso era stato ucciso mentre cercava di difendere la recluta più giovane e inesperta, e vuol sapere cosa succede in quel palazzo dove le persone si fanno tanto male a vicenda. I fantasmi erano rimasti molto colpiti anche dal recente suicidio di un’impiegata anziana, una signora miope e timida che amava i gatti e non dava fastidio a nessuno, ma che era stata presa talmente di mira, per anni, dalla cattiveria dei capi e dei colleghi da commettere il gesto estremo. Una sera si era chiusa in un bagno, si era tagliata le vene e al mattino era stata ritrovata cadavere, in un lago di sangue. Il neofantasma la conosceva poco, ricordava la sua figura ingobbita e le mani deformate dall’artrite ma da vivo era troppo preso dai suoi incubi per badare a quelli degli altri; stanotte però ha intenzione di soddisfare la curiosità dei suoi amici con la storia di alcuni degli schifosi abitanti di quel luogo di pianto e stridor di denti. La compagnia mette da parte il tressette, riempie i bicchieri, si sistema sulle poltrone di pelle pregiata e si accinge ad ascoltarlo con interesse.
Il primo personaggio è “la donna verde dall’invidia”, un miserabile sgorbio zoppo che tentava di far pagare agli altri lo squallore della sua esistenza. Aveva iniziato il liceo ma non ce l’aveva fatta e con grande rammarico le era toccato ripiegare su un istituto professionale, era rimasta incinta tre volte per sbaglio – si vede che era troppo stupida anche per capire come funzionavano i contraccettivi – non aveva fatto la carriera che secondo lei meritava, e quando venne a lavorare lì una bella ragazza, diplomata a pieni voti nel liceo dal quale lei si era dovuta ritirare con ignominia, laureata e con una qualifica più alta della sua, che in più conviveva felicemente e non rimaneva neppure incinta, decise che quello era il suo capro espiatorio. Si finse amica, raccolse confidenze intime e delicate e le spiattellò in giro per tutto il palazzo. Scoprì che la collega nel tempo libero dava ripetizioni e le mandò le figlie a lezione per anni, senza darle un soldo e minacciando di denunciarla alla Guardia di Finanza, finché la poveretta, per disperazione, smise di insegnare. Nella sua opera meritoria era coadiuvata dal dirigente e dal suo scagnozzo, un rospo orrendo col fisico di Brunetta e un alito da derattizzazione, che odiavano la giovane collega per due semplici motivi: era più istruita di loro e sul lavoro non la dava a nessuno. Insieme decisero di lasciarla per due anni senza niente da fare, davanti a una finestra con le sbarre, sotto gli occhi malevoli dello sgorbio che passava intere giornate a spiarla e a riportare ai superiori una quotidiana e dettagliata cronaca di ogni pagina di giornale sfogliata e ogni sito internet sbirciato, per farla licenziare.
Il simpatico trio riuscì anche a trascinare la poveretta in un processo del quale sapeva meno di niente, e da cui uscì per manifesta insussistenza dei fatti, ma che la costrinse ad anni di angoscia in giro per i tribunali. Alla fine la collega tentò il suicidio ma non ci riuscì, e quando tornò nel Palazzaccio fu trasferita in un reparto modello, soprannominato “L’Acquario delle Orche Assassine” e capeggiato da una megera di centotrenta chili il cui approccio comunicativo spaziava da “Mi hai rotto il cazzo” a “Sei menomato nei maroni”. Le colleghe si facevano un punto d’onore di non scendere sotto al quintale per non far sentire grassa l’orrida megera, si sdilinquivano in complimenti sperticati, le mandavano a casa i mariti a zappare l’orto, le portavano in macchina le borse della spesa e trattavano talmente male la giovane collega, che la sua salute mentale non si riprese più.
Poi c’era una nanerottola ex contestatrice sessantottina, una “compagna” dura e pura alla quale però non fece schifo ereditare i miliardi del padre, che aveva dato fuoco alla fabbrica per incassare i soldi dell’assicurazione. La miliardaria di solidi principi continuò a lavorare ugualmente, per il gusto di avere qualcuno da perseguitare e di averla vinta in ogni resa dei conti, perché si poteva permettere dei buoni avvocati. La banda dei quattro, il dirigente, lo sgorbio verde d’invidia, la nana miliardaria e il Brunettino dal fiato pestilenziale, andarono in pensione quasi contemporaneamente, ma purtroppo non lasciarono un mondo migliore: il Palazzaccio era ancora irto di velenosi personaggi. C’era un altro ex “compagno” (compagno di chi? … viene da chiedersi) che da giovane aveva giocato alla rivoluzione finché l’influente padre non lo aveva “sistemato” in un bel posticino, e che non si decise di smettere di martirizzare i suoi sottoposti finché non gli fu chiaro che ritardando ancora la pensione ci avrebbe rimesso uno o due euro. Facendo parte della categoria “non per i soldi ma per il principio” dopo una mano di conti rimase a casa, ma fino all’ultimo passò i suoi giorni a frugare nei cassetti e nei computer dei colleghi e a svolgere una zelante opera di delazione con lettere “anonime” e “colloqui riservati”. Un ragazzo che non lo omaggiava adeguatamente chiese il trasferimento a sessanta chilometri di distanza, pur di non avere più a che fare con quell’avvoltoio.
Dicono che al peggio non c’è mai fine. Dopo questa serie di pensionamenti arrivò un fanatico religioso, un ciellino che tutte le mattine faceva il tragitto casa-lavoro col libro di preghiere in mano e il rosario in tasca, ma all’ombra del monumentale crocefisso appeso alla parete spiava i colleghi e preparava alle loro spalle veri e propri agguati mafiosi. Con l’appoggio di una radicale alla Capezzone, di quelli che non possono fare a meno di correre dietro al potere, tenne sotto controllo il computer di una collega “non allineata” e la trascinò in un procedimento disciplinare che avrebbe potuto farle perdere il posto, se non fosse riuscita a dimostrare che lei era nella ragione e i due spioni nel torto. A quel punto la direzione, per non finire in tribunale, fu costretta a insabbiare tutto. E infine, last but not least, il fantasma fresco di giornata raccontò di un ingegnerino di provata capacità delatoria, la cui abilità nel fare il muro di gomma, rimbalzando ogni tipo di lavoro e responsabilità sugli altri, lo stava spingendo a una carriera col turbo. La sua vittima più recente era proprio la signora che si era tagliata le vene nel bagno, il cui fantasma aveva giurato di non passare davanti a quella grigia e tetra facciata per almeno un paio di secoli.
Sta arrivando l’alba e il gruppo di amici ha finito il whisky. Si fa l’ora di tornare nei sotterranei, i trapassati non amano la luce e soprattutto non hanno alcuna intenzione di incontrare, nemmeno di sfuggita, le merde umane che tra un’ora popoleranno di nuovo quelle stanze tristi. Il veterano Desdemolo si ritira tenendo in mano la testa, a suo tempo mozzata da un colpo di sciabola, e riflette su questi tempi cupi, in cui il lavoro è quella cosa che se non ce l’hai ti uccidi, ma se ce l’hai ti uccide.
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