“Giornate senza senso, come un mare senza vento, come perle di collane di tristezza…”. Tutte le mattine che l’inferno manda in terra, i versi di Francesco Guccini accompagnano come una marcia funebre i miei passi verso il Palazzo dei Veleni, il luogo di pianto e stridor di denti in cui mi guadagno da vivere. Ancora per poco, mi dicono. Le persone come me sono classificate come troppo giovani per la pensione, ma troppo vecchie per essere produttive, così ci hanno destinato ad affogare nel guado. Nel guano, direi. Anni di merda come questi non li avevo ancora visti, e speravo di non doverli vedere mai. Se lo sapevo non crescevo, e la canzone di Guccini mi sembra sempre di un ottimismo sfrenato. “Un altro giorno è andato”… Magari! Io il giorno ce l’ho ancora tutto davanti, da scalare come la peggior salita di un tappone pirenaico.
Quando arrivo davanti al macabro edificio di pietra grigia, striscio su per le scale, attraverso il portone di ferro, marco la cartolina e vado ad accartocciarmi dietro la scrivania che fino a sera mi terrà incatenata ai suoi ceppi. La novità è che di fianco me ne hanno messa un’altra, per l’ennesima giovine di belle speranze che dovrà prendere il mio posto. Nell’età in cui speravo di raccoglierne i frutti, devo prendere atto che i decenni di contributi versati all’INPS sono finiti nel cesso per il bene della nazione, dell’Europa e dei mercati; così mi tocca tirare lo sciacquone e “trasmettere le mie competenze” a questa piccola stronza arrivista. Quando la signorina avrà imparato il mio lavoro, mi verrà consegnata una bella lettera di licenziamento “per motivi economici”, perché la ragazzotta costa meno di me, e a quanto pare produce di più.
Produttiva non lo so, ma più furba lo è di certo. Disposta a tutto pur di rimanere a galla come gli stronzi, appena arrivata ha messo in vendita la sua mercanzia. Purtroppo per lei, è bruttarella, e non riuscendo a investire in modo proficuo le sue prestazioni sessuali, si è specializzata nei servizi delatori. A quanto pare, il nostro kapetto di turno ha di meglio per sollazzarsi tra una riunione e l’altra; questa ha il fisico di uno scopino da cesso, le cicatrici dei brufoli, i capelli unti e appiccicaticci e non si riconosce il davanti dal di dietro, piatta di tette e di culo com’è. Di conseguenza, non potendo mettere a frutto quello che madre natura le ha posto fra le gambe, utilizza molto bene ciò che ha ai lati della testa, le orecchie. Le ha sviluppate come antenne paraboliche e ogni mattina relaziona a chi di dovere tutto quello che la plebe, cioè noi altri, ha detto, fatto e anche pensato. Già, i suoi occhietti piccoli e maligni ci scrutano con una tale insistenza da dare l’impressione di saper leggere anche nel pensiero.
Inutile dire che io non ho una gran fretta di passarle le consegne, perché il giorno in cui il serpentello avrà imparato il mio lavoro, per me non ci sarà più uno stipendio e nemmeno una pensione. Se sarò molto fortunata e troverò l’appoggio della fazione politica giusta, forse rimedierò un anno di lavori socialmente utili, come pulire l’obitorio per 400 euro al mese. Visto che la prospettiva non mi esalta, ma non posso nemmeno rifiutarmi di insegnare il lavoro alla piccola strega – lo chiamano “patto tra generazioni”… – in ogni cosa che le insegno ometto un particolare vitale, che poi provvedo a fare da sola, di nascosto. Così le confondo le idee e racimolo qualche mese di stipendio in più. Però so bene di non poterla tirare in lungo ancora per molto, e presto mi troverò di fronte all’alternativa che è diventata normale per quelli della mia generazione: o la carità, o il suicidio.
Posso impiccarmi anche in uno dei bagni del Palazzaccio, non sarei la prima, oppure posso decidere di vendere cara la pelle. Tutte le volte che devo prendere una decisione importante, vado a consigliarmi col nonno. Lui abita al cimitero dal 1941, vittima della follia fascista, e non si fa una ragione di come abbiamo ridotto il paese per il quale lui, e tanti altri, si sono sacrificati. Mi aspetta sempre seduto sul muretto con i suoi amici, una banda di burloni che passano il tempo a fare scherzi ai passanti; gli ho detto tante volte che quella di chiedere una sigaretta è vecchia, ma loro mi assicurano che continuano a far cagare sotto mezza città.
Andare dal nonno e chiedere consiglio su cosa scegliere tra il suicidio e la resistenza attiva, vuol proprio dire farlo arrabbiare di brutto, ma ho bisogno del sostegno di questo spirito indomito, e di sentirmi ripetere da lui che nella nostra famiglia non ci si arrende, ma si muore con le armi in pugno. E le armi che mi consiglia il nonno sono spesso originali e divertenti. Gli ho raccontato che l’ultimo passatempo della viperetta con cui dovrei stringere il “patto fra generazioni” è quello di nascondersi dietro agli schedari e chiamarmi con la vocina da film dell’orrore. “Beatriceeeeeeee….” Sì, proprio come Hannibal Lecter con la piccola Clarice. Mi scandalizzo all’idea che quella infame scoreggia si paragoni al grande Hannibal the Cannibal, ma da quando è diventata una spia ufficiale il suo ego si è gonfiato a dismisura. Racconto la storia al nonno e ai suoi amici, che hanno visto Il Silenzio degli Innocenti almeno trenta volte a casa del custode, e sono loro a preparare il piano.
La giovincella di belle speranze la sera si ferma sempre dopo l’orario, per dimostrare il suo zelo e il suo attaccamento al dovere. Si fa un punto d’onore di aspettare che gli uffici si svuotino della massa plebea per andare in bagno, darsi una rinfrescata – e ne ha bisogno, perché le sue ascelle sono un’arma letale – e presentarsi nell’ufficio del kapetto con una tazza di caffè e un bel sorriso che mette in mostra una fila di denti storti, in tutta la loro magnificenza. Spera sempre di vendere i suoi articoli, ma nemmeno uno sfigato come il nostro attuale soprastante, l’aspirante managerino col fisico da lanciatore di stuzzicadenti e la morale di quelli che vendevano i vicini alla Gestapo, è disposto a comprarli. Il nonno mi ha detto solo di aspettare venerdì, di uscire in orario e di passare a salutare la guardia giurata, prima di andare a casa.
Sull’uscire in orario, niente da obiettare. L’intervallo di tempo fra la cartolina strisciata nel verso “entrata” e la sua lieta sorella che balza fuori cantando dall’orologio marcatempo, nel verso “uscita”, per la percezione distorta di chi non ne può più è lungo all’incirca come un’era geologica. Mi aspetto sempre di trovare qualche specie naturale estinta, quando esco a riveder le stelle dopo l’interminabile lasso di tempo che congiunge la mattina con la sera. E in quanto alla guardia, passo sempre a salutarla. È un signore ancora più anziano di me, preso in prestito dalla Polizia, che a breve sarà sostituito da un moderno sistema di telecamere e sarà rispedito al “servizio attivo”. Miope e devastato dai reumatismi com’è, mi auguro che lo assegnino al servizio di scorta di qualche politico nominato dai banchieri. Ho chiesto al nonno di raccontarmi qual è il piano, ma lui si è rifiutato di anticiparmi i succosi dettagli. Si è lasciato sfuggire soltanto che “avrebbe avuto bisogno di un bagno”.
Cosa se ne fa di un bagno un signore morto nel 1941, non lo riesco a immaginare, ma il nonno ha dato prova della sua creatività così tante volte che non dubito mai dell’efficacia delle sue trovate. Quando arriva il venerdì, esco con passo più spedito del solito e pregusto i due giorni fuori di galera. Non è del tutto vero, perché purtroppo quella prigione me la porto dentro: oltre a sognare tutte le notti i personaggi che la infestano e gli assurdi e incomprensibili compiti che devo svolgere, al punto che la mattina non so più distinguere tra il contenuto dei miei incubi e ciò che è successo nella realtà, loro vivono piantati nella mia testa come uno dei chiodi della Croce. E non sono nemmeno cattolica… Tornando a casa, mi fermo a comprare la scorta di vodka e birra che mi aiuterà a rilassarmi, e alle dieci di sera sono già cotta sul divano, con un tasso etilico da coma.
Naturale che faccia degli strani sogni… Ricordo vagamente il rumore di qualcuno che gratta alla finestra, io che mi alzo e un gruppo di anziani signori che si fanno largo tra le persiane, ridendo e schiamazzando, si mettono comodi sul divano e mentre danno fondo alle riserve alcoliche, raccontano uno scherzo esilarante. Pare che il nonno e i suoi amici abbiano raggiunto il palazzaccio come fanno sempre per andare in città, attraverso le fogne e i canali sotterranei, e si siano accomodati in tranquilla attesa fuori dal bagno in cui la mia cara collega, la sera, va “a farsi bella”, o comunque si voglia chiamare il suo patetico tentativo di rendersi meno raccapricciante del solito. Appena la signorina è entrata, i simpatici burloni senili hanno bloccato la porta. La collega ha strillato per almeno un’ora, tentando di attirare l’attenzione di qualcuno che la venisse a liberare, ma il venerdì sera anche i ruffiani più incalliti hanno la tendenza ad andare a casa prima, e non l’ha sentita nessuno.
Per fare veramente un lavoro di fino, il nonno e “i ragazzi” – come li chiama lui – sono andati a svegliare il fantasma di una ex collega che si era impiccata proprio in quel bagno, dopo che era uscita psicologicamente distrutta dalle gare di mobbing. La signora è sbucata fuori dal cesso, coi capelli fradici come la bambina fantasma di Ring, e ha recriminato sulle sue passate disgrazie per almeno un paio d’ore, con la cara giovane collega ormai rannicchiata in un patetico mucchio di ossicini in un angolo del bagno. Poi, miracolosamente, la porta si è aperta. La viperetta si è fiondata fuori dal bagno più veloce di una lucertola – animale a cui, a pensarci bene, somiglia moltissimo – e si è diretta verso l’uscita che, purtroppo per lei, rimane bloccata per l’intero fine settimana. Il Palazzaccio è così; alla sera del venerdì la guardia chiude le porte e le finestre blindate, spegne le luci, disattiva i telefoni e lascia attaccato solo l’allarme, che però si attiva quando qualcuno cerca di entrare, e non di uscire…
A questo punto il nonno e gli amici hanno fatto sparire il cellulare della signorina, e poi si sono scatenati nelle danze. I corridoi erano bui, e la cara collega li percorreva uno dopo l’altro per cercare una via di fuga, strisciando rasente ai muri. La paura era dietro di lei, come nei classici dell’horror con cui al cimitero passano il molto tempo libero. Tra una risata e l’altra, il gruppo di anziani fantasmi si esibiva nel repertorio più classico e – a mio parere – ormai scontato, ma secondo il nonno, sempre di sicuro effetto. Ululati, rumore di passi, sbattere di catene… E il solito, vecchio scherzo che funziona sempre: la testa in mano. Nonno dice che è un classico intramontabile. È bello vedere delle persone anziane con tanta voglia di divertirsi.
Quando è suonata la malefica sveglia del lunedì, mi sono trascinata fuori dal letto e dai postumi del coma etilico, e ho percorso il mio personale miglio verde, la mia strada verso il patibolo. Stranamente la collega non era seduta alla scrivania accanto alla mia, con il collo da giraffa proteso a spiare cosa sto facendo. Ho visto un’ambulanza che portava via qualcosa, ma alle otto del mattino potrei vedere anche gli elefanti rosa che danzano sulle punte e non ci farei caso. Poi le notizie hanno cominciato a girare. Pare che venerdì sera la collega si sia sentita male nel bagno, abbia vagato nel palazzo in stato confusionale, e poi sia morta d’infarto. Una fine assai pietosa, di solito, ma forse non nel suo caso, dopo due giorni di inseguimenti da parte di un gruppo di fantasmi con la testa in mano. Adesso mi affiancheranno un’altra giovane promessa, per onorare il “patto tra generazioni”. Ora che avrò addestrato anche lei, alla mia maniera, un altro po’ di tempo sarà guadagnato, e potrò mettermi avanti col lavoro che sto curando da mesi. Le cariche sono già collocate nella metà dei sotterranei, ma ho bisogno ancora di tempo, per finire l’opera. L’esplosivo per le demolizioni controllate è difficile da trovare, non si compra mica alla Coop… Preferisco uccidermi con dignità che soccombere alla miseria, ma ci sono cose che amo fare in compagnia.
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