Dopo vent’anni di Palazzaccio ero fritta, spiaccicata come una cacca pestata di fresco, un incrocio tra Ofelia e lo spettro di Banquo. Avevo cambiato diversi Palazzacci ma ho dovuto dar retta ai cinesi, quando dicono “Puoi cambiare pozzo ma quello che c’è dentro è sempre acqua”. Veleno, nel mio caso, veleno mortale. Dopo ripetuti tentativi di suicidio, purtroppo non andati a buon fine, mio marito escogitò l’arma estrema per la mia salvezza, mi concesse di adottare un gatto. Ho sempre adorato queste splendide creature, sono certa che la mia prima frase di senso compiuto sia stata “Voglio un gatto” ma fino a quel momento mi era toccato di vivere senza, in nome dell’integrità dei divani. Quell’anno, in nome della mia integrità fisica e psichica, già gravemente compromessa, mi fu concesso l’onore tanto ambito.
Una mia amica che viveva in campagna aveva molti gatti e davanti a casa sua spesso venivano abbandonati dei cuccioli. Lei non poteva tenerli tutti e a me non sembrava vero poter dare finalmente una casa a una creaturina sola, così la vidi. Lei. Il mio angelo. Era una gattuccia modesta, bianca e tigrata, il “modello classico” che in genere nessuno adotta perché gli umani sono stupidi anche nella scelta degli animali, vogliono la razza, il pelo lungo, gli occhi blu e una marea di altre sciocchezze, e una comune micetta come lei non veniva mai notata, ma per me non è stato così. Appena l’ho vista l’ho riconosciuta. Era lo stesso micino di campagna che era stato il mio solo amico negli anni dell’infanzia, che cambiava spesso perché allora non si chiamava il veterinario per i gatti, che moriva schiacciato sotto le macchine o per malattie che nessuno curava, che sfornava covate di piccoli destinati a un tuffo nel canale. Dopo la fine dell’infanzia e dell’adolescenza avevo lasciato la famiglia e non avendo una casa stabile non mi ero più permessa di ospitare un angelo custode, ma l’angelo era lì, mi aveva aspettato.
Pesava circa un chilo e aveva pochi mesi, sembrava un ragnetto, tutta zampe e orecchie, e mi guardava con immensi occhioni verdi che mi hanno fatto subito sentire in colpa. Sembrava dirmi che l’avevo trascurata e lasciata sola per troppo tempo, ma era disposta a perdonarmi se mi fossi comportata bene. Maestà, ai suoi ordini… Non sapevo ancora di dover colmare la mia immensa ignoranza sull’arte di custodire e riverire il Felino nel mondo moderno. I gatti della mia infanzia erano cresciuti, come me, negli anni Sessanta, quando non esistevano i negozi per animali, i croccantini, le scatolette, i trasportini e tutto il meraviglioso mondo di coccole e vizi che ora ci sembrano doverosi per onorare con un minimo di decoro i nostri angeli con coda e baffi, e io dovevo imparare tutto. Partimmo subito male, la portammo a casa mia con due macchine ma senza trasportino: la povera creatura si fece cinque chilometri nel traffico della città, sballottata nell’auto tra le braccia della figlia della mia amica, le mie gambe, il volante, la leva del cambio e il parabrezza. Arrivate a casa, avevamo tutte il mal di mare.
Mio marito si presentò cercando di fare il duro. Avevamo preparato l’angolo-gatto in cucina, con le ciotole per l’acqua e il cibo, e lui ci piazzò una cesta, pronunciando la famosa frase “Il gatto dorme qui”. Il mio angelo non ha riso a crepapelle solo perché era una signora. Non contento, il nostro uomo pronunciò una seconda, memorabile frase, “Il gatto è in prova”. Il periodo di prova andò meravigliosamente: dopo due giorni esatti fu chiaro che la gattina dormiva dove cavolo voleva, possibilmente nel lettone, in mezzo alle nostre gambe, e il “gatto in prova” si girava il suo umano sulla punta dell’artiglio mentre lui le cantava “Besame micho”. L’addestramento in realtà è stato piuttosto semplice, i gatti ci mettono esattamente 48 ore ad addestrare i loro umani.
I miracoli del mio angelo custode si manifestarono subito. La sera, quando andavo a dormire, non pregavo più di morire nel sonno, perché al mattino il mio tesoro voleva la colazione. La notte dormiva vicino a me e mi coccolava come se io fossi il suo cucciolo, mi leccava i capelli e le sopracciglia, poi si acciambellava risentita perché non le riservavo lo stesso trattamento. Se mi sdraiavo sul divano mi faceva il pane sulla pancia e mi mandava semplicemente in paradiso. Prendemmo l’abitudine di passeggiare insieme, con lei ho esplorato le case vecchie, ce n’erano tante prima della ristrutturazione selvaggia che ha distrutto il quartiere. Andavamo nelle cantine, sopra i tetti, sulle impalcature, nel giardino di un antico palazzo con un bellissimo albero che lei adorava. Abitavo in quella casa da anni e non sapevo nemmeno chi erano i miei vicini, ma passeggiando con lei ho conosciuto tutti, ho fatto amicizia con chi aveva un cane o un gatto e queste persone per me diventavano “la mamma di Rocky” o “il babbo di Orazio”. Mi portava a casa gli amici: col suo fascino aveva colpito al cuore un magnifico siamese strabico, di stazza non comune, che a volte la notte mi dormiva sul petto e cercava di soffocami nel sonno.
Il mio angelo custode mi ha messo in comunicazione col mondo, ha dato un senso alla mia vita, un motivo per alzarmi al mattino, una rete di relazioni che pur non potendosi chiamare col nome di amicizia, sentimento che non sopravvive all’adolescenza, erano sempre meglio dell’isolamento e della deprivazione emotiva in cui vivevo da quando ero entrata nell’allegro mondo del lavoro. Purtroppo ha dovuto scontare la mia inesperienza. La lasciavo andare fuori per strada e si è beccata un sacco di brutte malattie, poi quando il traffico in zona è diventato insostenibile sono stata costretta a non farla uscire più, però lei compensava col cibo, io non le negavo mai niente e il mio angelo è diventato così obeso da prendersi il diabete. Le case vecchie sono state ristrutturate e l’ultimo colpo è stato la vendita del palazzo in cui c’era il suo amato albero. Ogni pomeriggio si metteva vicino alla porta e mi chiamava per fare il giretto a cui non abbiamo mai rinunciato, mi guidava davanti al cancello sbarrato del palazzo e miagolava con furia perché la facessi andare dal suo albero. Io ero il Mastro di Chiavi, colei che apriva le porte, valle a spiegare che quelle non le avevo. Un giorno il suo albero è stato tagliato e portato via a pezzi, ma non gliel’ho mai detto. Che bisogno c’era? Lei era un angelo e sapeva tutto.
Ho cercato di curarla nel migliore dei modi, ma la sua malattia non mi ha concesso di tenerla a lungo accanto a me. Però il mio angelo ha compiuto lo stesso il suo miracolo, da allora non sono più stata sola. Il suo spirito dolcissimo è rimasto in me e mi ha spinto ad aiutare gli angeli come lei, abbandonati e in difficoltà. Alcuni di loro hanno trovato rifugio nella mia casa, altri li ho aiutati come potevo, ma sono sempre loro che aiutano me. Non cercate un angelo con le ali, cercatelo con la coda.
- Cinquanta sfumature di Amore – L’Amor Felino - 17 Febbraio 2014
- Resistenza in vita - 3 Febbraio 2014
- Non è mai troppo tardi - 6 Gennaio 2014