Io mi chiamo Dante e mia moglie si chiamava Beatrice. Non è una presa in giro, ma un amore nato come nelle canzoni degli anni Sessanta, sui banchi del liceo. Il nostro libro fu la Divina Commedia e il Galeotto che lo scrisse fu il Sommo Poeta, sua la colpa se cominciammo a guardarci attraverso gli occhiali spessi e a chiederci se ci fosse un destino per i Danti e le Beatrici vicini di banco. Non si può dire che il nostro sia stato un amore a prima vista, perché già a quei tempi avevamo una diottria in due, ma è durato per tutta la vita. La sua, che è già finita, e la mia, che insiste a perseguitarmi come una remora. Per completare la serie degli scherzi del destino, in classe con noi c’era un altro ragazzo timido, brufoloso e miope, e non mettetevi a ridere per favore… si chiamava Virgilio. La sorte era segnata, diventammo inseparabili. L’occhialuto trio di sfigati finì il liceo e si iscrisse compatto all’università, Beatrice a Lettere per diventare insegnante e scappare dalla famiglia, Virgilio ed io al DAMS per cazzeggiare e farci le canne. Erano gli anni Settanta e anche noi avevamo decretato lo stato di felicità permanente, quello che, come tutti sapete, fu abolito dagli anni Ottanta in poi. Beatrice si laureò in tempo record temendo le rappresaglie paterne, vinse il concorso da insegnante e per mettere qualche chilometro in più tra lei e la sua famiglia accettò di buon grado una cattedra in un paesino del Veneto talmente squallido da non meravigliarsi se ora è in mano ai leghisti.
Virgilio ed io alternavamo il non fare nulla a Bologna con il non fare nulla in Veneto, poi morì mio padre e le difficoltà economiche mi spiaccicarono in faccia la realtà: dovevo lavorare, e la banca in cui lui era impiegato mi fece la carità di concedermi il suo posto, in cambio di una consistente fetta di liquidazione da passare nelle tasche del capo del personale. I genitori di Virgilio si accorsero che il loro figliolo falsificava il libretto e in realtà non aveva sostenuto nemmeno un esame, così lo richiamarono all’ordine e lo misero a lavorare nell’azienda di famiglia, un’impresa di pompe funebri. Da indiani metropolitani diventammo bancario e becchino, quando si dice i sogni che si realizzano. Beatrice invece procedeva determinata come una locomotiva e per alleviare la nostra pena chiese il trasferimento vicino a casa, ottenendolo con il gruzzoletto che io e Virgilio avevamo messo da parte lavorando. I nostri risparmi finirono in tasca a un politico locale, però Beatrice andò a insegnare proprio nel liceo dove ci eravamo conosciuti.
Di noi tre, era l’unica a dichiararsi felice. La preside era una stronza e i colleghi delle teste di cazzo, ma lei amava i suoi studenti e riusciva a trasmettere loro la sua contagiosa passione per la letteratura. Insegnare in un liceo classico le rendeva la vita più facile, perché quando l’avevamo frequentata noi era la scuola dei figli di papà, ma col tempo era diventata il rifugio dei secchioni, i suoi adorabili secchioni le cui schiere si assottigliavano ogni anno. Le sezioni diventarono così esigue da costringerla a insegnare in due città diverse, ma quando il governo tagliò trecentomila statali il suo posto venne soppresso e lei fu buttata fuori dall’insegnamento. Era troppo vecchia e troppo atea per una scuola privata. Io in banca avevo sofferto le pene dell’inferno, dopo i primi sei mesi avevo preparato lo zaino per scappare all’estero ma ero rimasto solo per lei, il mio amore eterno, e avevo continuato per trentacinque anni a ingoiare rospi e cattiverie in attesa della tanto sospirata pensione. Credevo di avercela fatta e di essere riuscito a entrare in una “rottamazione”, come si diceva allora, un “esodo incentivato” per dipendenti anziani, quando la nuova legge sul lavoro permise alla banca di licenziarmi per motivi economici. Nel giro di pochi mesi ci trovammo entrambi disoccupati. Io ero uno degli “esodati” nel limbo, senza stipendio e senza pensione, condannato a sbarcare il lunario distribuendo volantini pubblicitari nell’attesa che qualche governo sistemasse la penosa questione. Lei fu più “fortunata” in apparenza, perché rientrò in un progetto di “ricollocazione” e trascorse gli ultimi dieci anni a fare le pulizie per una cooperativa che la pagava una miseria e si faceva anche rimborsare dallo Stato quei pochi spiccioli.
Se non fosse stato per lei mi sarei ucciso, ma Beatrice era sempre sorridente, il mio angelo mi faceva coraggio e la sera, quando le massaggiavo con l’arnica le mani doloranti per l’artrite, mi faceva ridere e mi tirava su di morale. Quando Virgilio e io ci accorgemmo che dimagriva sempre di più, ci venne il sospetto che non mangiasse per comprare il cibo da dare alle colonie di gatti randagi che aveva nutrito per tutta la vita, così lui cominciò a procurarle ogni giorno del macinato “freschissimo” e ho preferito non chiedermi che cosa macinasse, visto che dopo la morte dei genitori era diventato titolare della Premiata Agenzia di Pompe Funebri “Il Lungo Addio”. Per sopravvivere, piano piano abbiamo venduto tutto, l’appartamentino al mare, poi la sua macchina, poi la mia, poi la nuda proprietà della nostra casa. Alla fine lei andava a lavorare in bicicletta, facendo sei viaggi al giorno perché il simpatico gestore della cooperativa le dava un turno spezzato in tre parti, due ore all’alba, due nella pausa pranzo e due la sera tardi. La domenica, col carro da morto di Virgilio, facevamo i mercatini nelle fiere di paese per vendere gli oggetti che avevamo accumulato in tanti anni insieme, e ogni volta che Beatrice vendeva uno dei nostri amati libri a un euro, o un ricordo di viaggio a cinquanta centesimi, ingoiava le lacrime. Ma non si lamentava mai e contava i giorni che mancavano a quando anche noi due avremmo potuto avere la pensione, ridotta ormai alla minima, ma meglio di niente.
Beatrice era sempre stata una studiosa e una lavoratrice, aveva riscattato la sua laurea a caro prezzo e versato scrupolosamente tutti i contributi, e arrivò a totalizzare i requisiti per la pensione prima di me, che avevo alle spalle una gioventù spensierata e nullafacente, però quando andò all’INPS per presentare la domanda le diedero la lieta novella. Gli anni delle pulizie erano maturati in un’altra “cassa” e per riunificarli avrebbe dovuto versare la bellezza di duecentomila euro, anche in comode rate da duemila euro al mese. La vidi sconvolta per la prima volta in cinquant’anni. Iniziò un penoso pellegrinaggio tra sindacati e patronati ma la realtà era quella, e cos’altro potevamo vendere? Avevamo già svenduto tutto, compresa la casa che i genitori le avevano lasciato morendo. Le tasse sulla proprietà erano diventate così alte che ormai le agenzie immobiliari, in cambio di un appartamento, davano solo l’equivalente di dieci anni di IMU, ma non avevamo scelta, eravamo diventati così poveri che non avremmo potuto pagarle e piuttosto che farcela sequestrare era meglio darla via per pochi spiccioli, almeno ci saremmo scaldati un inverno. Ringraziavamo il cielo di non aver avuto figli, non avremmo potuto neppure lasciare loro la casa dove abitavamo, ci eravamo tenuti solo l’usufrutto e gli acquirenti della nuda proprietà cercavano continuamente di farci fuori. Esistevano degli Squadroni della Morte proprio per quello, per ammazzare i vecchi usufruttuari.
La mia Beatrice era cieca come una talpa ma nutriva una smodata passione per le armi, aveva cominciato ad allenarsi al tiro a segno nei Luna Park e col tempo era diventata una fedelissima del Poligono, con eccellenti risultati, così dormiva con la pistola sotto al cuscino e quando la notte sentiva un rumore provenire dal pianerottolo, prima sparava e poi andava a vedere chi c’era. In questo modo ha azzoppato diversi clienti della nostra vicina, ma loro non facevano denuncia per paura delle mogli e gli Squadroni della Morte stavano alla larga. Dopo aver peregrinato per enti e uffici di ogni genere e appurato che una vita di lavoro non le dava diritto a una pensione, neanche minima, chiese e ottenne un appuntamento con il supremo graduato dell’INPS nella nostra regione, gli sparò un caricatore in testa e tenne l’ultimo proiettile per sé. Io non riuscivo a perdonarla, perché mi aveva lasciato solo, ma Virgilio mi rivelò che era malata di tumore; i soldi per curarsi non c’erano, dato che anche la sanità era diventata a pagamento, modello americano, così aveva preferito non farmi assistere alla sua lenta agonia e almeno portare con sé una carogna nella tomba, un parassita che occupava venticinque cariche e prendeva al mese quanto sarebbe bastato a cento famiglie come la nostra.
Virgilio si occupò del funerale. Non si era mai sposato, non aveva figli ed era l’unico addetto dell’impresa di pompe funebri “Il Lungo Addio”. Faceva tutto da solo, componeva i morti nella bara, guidava il carro funebre e si era specializzato nei suicidi dei disperati, quelli che nessun’altra agenzia voleva perché le famiglie non potevano pagare e c’era solo il sussidio del Comune. Funerali per indigenti, li chiamavano. La chiesa non li ammetteva in territorio consacrato, così Virgilio aveva creato per loro un giardino curatissimo chiamato “Neverwhere”. Quando Beatrice era ancora viva, nelle domeniche in cui non vendevamo i nostri poveri oggetti nei mercatini andavamo a sederci fra quelle tombe con pane, Nutella e una bottiglia di moscato, e cantavamo “Morti di Reggio Emilia” in onore di questi martiri dell’ultima guerra, quella combattuta senza bombe, a colpi di spread. Seppellimmo lì anche Beatrice, e io passavo i giorni sulla sua tomba a leggerle i suoi classici preferiti. Rimpiangevo di non avere imparato a sparare per seguirla dove era andata, ovunque fosse, finché Virgilio mi strappò dalle mie fantasie autolesioniste e mi diede una scossa. La mia donna era stata una grande fino all’ultimo e non aveva accettato di morire invano, così dovevamo seguire il suo esempio. Ci rimaneva poco tempo e bisognava metterlo a frutto.
Virgilio era rovinato dai debiti, la sua impresa rendeva così poco che i guadagni non bastavano nemmeno a pagare le tasse e le bollette. Il tribunale gli aveva portato via tutto e alla fine era venuto a vivere con me. Per non perdere il nostro unico mezzo di trasporto, aveva fatto finta di rottamare il carro da morto e lo aveva barattato col furgone di uno zingaro, rubando in giro targhe nuove ogni settimana. La coabitazione presentava i suoi vantaggi. Ora che non c’era più Beatrice con la sua pistola, gli Squadroni della Morte tornavano spesso per farmi fuori, ma noi facevamo i turni di guardia e li mettevamo in fuga con l’aiuto dei due enormi pastori tedeschi che Virgilio aveva raccolto da cuccioli, abbandonati al cimitero, e cresciuti con tutto il suo amore. Smith e Wesson, così si chiamavano i nostri cagnolini, diventarono presto famosi nell’ambiente dei “vigilantes” e di nuovo la mia casa tornò nell’elenco di quelle che era meglio lasciare stare.
Ormai passavamo tutto il nostro tempo sulla tomba di Beatrice a leggere, giocare a carte e fare piani. Virgilio era un artigiano fallito, non aveva diritto a niente e non possedeva più niente, e per mangiare e pagare tasse e bollette ci toccava sopravvivere coi piccoli furti. Nei centri commerciali, dove una volta i vecchietti come noi venivano derubati ogni giorno, gli anziani erano diventati i borseggiatori più abili, perché sono gli invisibili, nessuno si accorge della loro presenza. Per tenerci agili e in forma ci obbligavamo a lunghissime passeggiate, con la scusa di portare fuori i cani, e a un’intensa ginnastica. Un amico che da giovane aveva fatto il meccanico di biciclette aveva sistemato i due ruderi con cui un tempo ci piaceva far finta di essere ciclisti e andavamo ancora a fare le nostre passeggiate, salite comprese. Virgilio osservò saggiamente che era un peccato sprecare tanta forma fisica, e che ne avremmo dovuto approfittare per prenderci qualche piccola soddisfazione.
L’idea mi venne incrociando la preside che aveva licenziato Beatrice. Ai vecchi tempi era una carrierista disposta a tutto, attualmente era una carampana piena di botulino che dirigeva una scuola privata ciellina, e guadagnava bene. La aspettammo una sera, fuori dal centro estetico dove periodicamente andava a farsi restaurare, e la avvicinammo con la scusa di chiedere un’informazione. Chi poteva sospettare di due innocui vecchietti? Forse ci avrà pensato, quando si è ripresa dagli effetti del cloroformio e si è trovata sepolta viva in una fossa del cimitero, nella parte dei “buoni”, quella consacrata, a condividere la stessa bara coi resti di uno dei vecchi clienti di Virgilio, e chissà se avrà pensato alla mia frase d’addio, “Coi saluti di Beatrice”… I soldi nel portafoglio pagarono il riscaldamento di un inverno, la carta di credito ci regalò il frigo nuovo e la lavatrice e riuscimmo anche a prosciugare il plafond mensile del bancomat perché la cara direttrice era così astuta da mimetizzare il PIN con un numero di telefono. Nemmeno le casalinghe devastate dalla TV sono così stupide, di questi tempi, ma la sua categoria si è sempre ritenuta troppo superiore ai comuni mortali. Inutile dire che con le chiavi saccheggiammo l’appartamento e fingemmo una sua fuga d’amore con un giovane gigolo, ma la signora “direttrice” era così amata in vita che nessuno la cercò.
Vista l’ottima riuscita della prima azione, nome in codice “Nemesi”, ne mettemmo in atto delle altre. Uno alla volta, sequestrammo i dirigenti della banca in cui mi avevano fatto sputare sangue e bile. Sceglievamo quelli che vivevano da soli, quasi tutti, perché avevano sposato la carriera, e con i soldi contanti, le carte di credito e il contenuto delle loro case mettevamo da parte un bel bottino. Poi passammo al gestore della cooperativa che aveva derubato Beatrice e ai dirigenti degli enti che avevano distrutto l’attività di Virgilio. Con tutti usavamo la stessa tattica, li seguivamo per un paio di mesi, in modo da capire quali abitudini e soprattutto quali vizi avevano, li aspettavamo di notte, o ancora meglio all’alba, e ci avvicinavamo con l’aria sperduta di due anziani che chiedevano un’informazione. Avevamo cura di vestirci sempre coi nostri abiti migliori, perché ormai i “vecchietti di strada” erano diventati una piaga sociale e non volevamo sembrare mendicanti per non farci sfuggire l’obiettivo. Mentre io, che con gli occhiali a fondo di bottiglia avevo l’aria più patetica, tiravo fuori una cartina e indicavo timidamente una via, Virgilio si avvicinava da dietro col cloroformio e la nostra vittima si risvegliava dentro a una cassa da morto, a condividere il poco spazio con un cadavere putrefatto scelto a ragion veduta. Virgilio amava fare gli abbinamenti, per esempio seppellire i dirigenti con gli impiegati che avevano tormentato da vivi, con la vana speranza che le vittime si potessero vendicare almeno nella fossa.
Col tempo Virgilio ed io abbiamo raggiunto una certa prosperità, mangiamo bene, d’inverno accendiamo il riscaldamento e abbiamo messo anche il condizionatore per l’estate. Il tipo che ha comprato la nuda proprietà della mia casa sta impazzendo perché io non muoio mai. Da un po’ di tempo ci chiediamo se sia il caso di seppellire anche lui, per toglierci il disturbo, o se sia più bello farlo morire di ulcera. Continuiamo a passare molto tempo al cimitero, seduti accanto alla tomba di Beatrice, con Smith e Wesson che ronfano al sole e scoraggiano i vigili urbani che vorrebbero allontanare quei due vecchi suonati che leggono ad alta voce e ascoltano musica degli anni Settanta appoggiati alle lapidi. Guardano il sogghigno dei nostri cani e se ne vanno scuotendo la testa, dicendo a sé stessi che chi se ne frega, è solo la zona dei suicidi e degli assassini. Intanto noi raccogliamo dati statistici, per esempio ci annotiamo quanto tempo ci mette ognuno dei nostri obiettivi a morire, ci fingiamo parenti in visita al defunto con cui deve coabitare e lustriamo la tomba fino a quando sentiamo rumori e battiti. Sapete che ci mettono tanto a tirare le cuoia, ma proprio tanto? Oddio, Virgilio è un bastardo e fa le prove coi forellini, lascia delle piccole prese d’aria per prolungare la loro agonia e ogni volta ne cambia il numero e le dimensioni, ma come si dice? Quando si smette di imparare, si comincia a invecchiare…
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