Bologna, magici anni Settanta. È mattina e Beatrice va a lezione in bicicletta pedalando sotto i portici di via Zamboni. Quel vecchio catorcio non è solo il suo unico mezzo di trasporto, ma la sua migliore amica, le sue gambe; le ha dato anche un nome, Attila. Un meccanico ladro gliel’ha fatta pagare una cifra da rapina, venticinquemila lire, e la prima impresa della carriola è stata perdere un pedale proprio davanti al bar dei Pierini, ma per fortuna Beatrice è agile e piccola e il baricentro basso l’ha salvata da un volo e da una vergognosa figuraccia. Adesso il mostriciattolo è sufficientemente in forma per le scorribande notturne, rigorosamente sotto i portici e a fanale spento, per non farsi notare e importunare. Peccato che Beatrice è miope e non porta gli occhiali; una sera sotto i portici di via Saragozza ha quasi castrato un tale i cui maroni hanno fatto un frontale contro la sua ruota davanti. Mentre il malcapitato si contorceva per terra, Beatrice scappava per i vicoli con uno scatto da cronometrista.
Almeno la bici le permette di evitare certi tipi di studenti convinti che le ragazze emiliane e romagnole, specie se bionde, siano venute a Bologna solo per darla a loro, i vecchi porci che vogliono un pompino e i tipi che si nascondono nei portoni per tirare fuori l’uccello al passaggio delle donne. Questa esilarante esperienza le era capitata proprio la prima sera del primo anno, mentre tornava dalla mensa con la sua compagna di appartamento. Beatrice aveva diciannove anni, non era brutta e in merito di uccelli aveva una certa cultura, quindi l’esclamazione le era uscita spontanea: “Luisa, Luisa, guarda come ce l’ha piccolo!”. Chissà perché, la sua amica non aveva riso e l’aveva costretta a fare tutta la strada di corsa fino a casa. Il tizio del portone non si era più visto, ma lei aveva pensato che spostarsi in bicicletta sarebbe stato più comodo e sicuro.
Lungo la strada verso la facoltà le solite tappe, colazione in latteria e slalom tra quelli del “Ci hai cento lire?”. Beatrice ha esaurito le risposte sarcastiche. “Ho solo una carta da cinquanta” e quelli dicono che hanno da cambiare. “Accetti carte di credito?” e ti rispondono di sì. Insomma conviene ignorarli, oppure andare sul banale vaffanculo se Beatrice è di cattivo umore, e la mattina lo è sempre, perché ha sonno. Basta che non provino a sbarrarle la strada, perché ci vede rosso come un toro e mira ai maroni con la ruota davanti, è diventata una campionessa, vorrebbe proporre la specialità anche alle olimpiadi universitarie. Arrivata in facoltà Beatrice lega la bici col metro di catena che si porta sempre dietro e che viene utile in tante occasioni, anche come arma di difesa, e va a sistemare i libri nel suo angolo in biblioteca. La facoltà che frequenta è piccola, la biblioteca è solo per loro e può studiare in pace. A casa divide una stanza con una cicciona che si lava poco e che si è pure trovata un profugo russo; i due trombano giorno e notte e studiare lì non le riesce bene. Quella mattina c’è la grande assemblea e Beatrice va a sentire le novità. Per le prime due ore è la solita solfa, quelli della FGCI e gli autonomi si sfidano a dispute dottrinali e Beatrice, che come sempre ha sonno, si sta rompendo le scatole. Prende la parola per cercare di riportare la discussione su qualcosa di concreto e provoca il miracolo di mettere tutti d’accordo, FGCI e autonomi tutti a darle della piccola borghese che non ha capito un cazzo. Va bene, piccola è piccola, è solo un metro e cinquantotto, ma borghese poi… È figlia di un operaio e vive col presalario. La discussione prosegue un’altra oretta senza concludere niente di utile e Beatrice decide di andare a studiare. Il motto fatti e non pugnette non è ancora stato inventato ma è la sua filosofia di vita, pur non avendo assolutamente niente contro la nobile arte delle pugnette, che tengono anche il polso in esercizio.
Nel corridoio viene fermata da un compagno dell’autonomia che vuole impartirle lezioni di lotta di classe e finisce per chiederle se ha il ragazzo. Beatrice vorrebbe rispondere che ne ha anche più di uno, ma solo in prestito, non li ha comprati, però si trattiene e fa notare al compagno autonomo che il suo atteggiamento le sembra un filino maschilista. Se gli avesse dato un calcio nelle palle, il compagno si sarebbe arrabbiato di meno. Salta per aria come un petardo e sbraita che lei non si può permettere di dargli del maschilista, perché lui ha fatto autocoscienza. Questa moda dell’autocoscienza fa morire Beatrice dal ridere. Le sembra un rito simile alla confessione cattolica: uno fa le peggio cose, poi s’inginocchia davanti al prete, dice padre ho peccato e se ne va con un figliolo non farlo mai più e un paio di rosari da recitare, e la settimana dopo ricomincia da capo. Intanto lei in mensa deve sentire i suoi amici che discutono sul limite di maschi oltre i quali una ragazza è troia. Più di cinque? Più di dieci? Qualche volta Beatrice ha provato ad animare la conversazione consigliandoli di uscire dal solito, banale insieme dei numeri naturali e di cercare altre soglie, per esempio il pi greco, la radice di due, e alla x oppure… su ragazzi, osiamo, proviamo con il limite di n che tende all’infinito? Chissà perché la risposta è sempre “Beatrice ti fai troppe canne”. Non è vero, lei fuma con moderazione, ma è nata così, è caduta nel pentolone da piccola, come Obelix.
Quel giorno Beatrice ha anche lezione a ingegneria. Siccome le piacciono i computer, ha messo nel suo piano di studi un esame di calcolo elettronico in quella facoltà di fuori di testa. “Lì bene che sono matti purosangue”… Sono tutti maschi e la guardano come se fosse un marziano. Una volta si è seduta per sbaglio in un posto che un futuro “inghegnere” aveva adottato come suo e il tale l’ha cacciata via in malo modo, borbottando che lui le donne le sopporta solo in cucina e a letto. Sono queste le occasioni in cui Beatrice non ce la fa. “Tesoro” gli ha detto “forse in cucina trovi la tua mamma, ma nel letto tu trovi poca roba…”. Non a caso su un muro vicino a quella facoltà di disfatti dalle seghe c’è la sua scritta preferita: “Gli studenti si dividono in due categorie, quelli che scopano e quelli che fanno ingegneria”.
Pensare che il sogno di suo padre operaio metalmeccanico è proprio quello di vederla sposata con un ingegnere… Veramente il sogno di papà era di avere un figlio maschio e fargli studiare ingegneria, ma gli è capitata solo un’inutile femmina. Secondo lui, per rimediare allo sbaglio che ha fatto nascendo, l’unica cosa buona che può fare è approfittare del tempo che perde a Bologna per procacciarsi un ingegnere da sposare, ma il suo papà non ha ancora capito che razza di bestiola ha messo al mondo. Quella non è una ragazza, è un cucciolo di dingo. Forse ha ragione la nonna quando dice che c’è stato uno scambio all’ospedale, ma non con un altro bambino: con un velociraptor.
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