di Margherita Merone
Nel XIX secolo non esiste una raffigurazione di Cristo univoca. I dipinti hanno diverse espressioni e ciò sarà maggiormente evidente nel XX secolo. Nasce il soggettivismo. Guerre e rivoluzioni hanno prodotto cambiamenti sociali e culturali, la società ha perso il senso della religiosità, diventa laica e di questo ne risente anche l’arte; poche sono poi le commissioni agli artisti. Quando deve rappresentare la figura di Cristo, ogni artista lo fa secondo un criterio personale o, al contrario, preferisce rifarsi all’arte del passato.
Il culto del mondo classico trova ampia diffusione nell’ambito culturale, con l’idea della bellezza incorruttibile; si rappresenta un mondo idealizzato, che tende alla perfezione. Cristo viene visto secondo il modello neoclassico, in modo regale, in immagini di enfasi che richiamano, appunto, i rilievi antichi. La rievocazione nostalgica convive con la sensibilità romantica che predilige le forti emozioni. Ci sono, poi, raffigurazioni in cui Cristo progressivamente perde corpo, diventa evanescente, quasi un’ombra, un Cristo senza corpo, semplicemente una macchia di colore. Anche la figura del Padre, un tempo sempre presente nelle raffigurazioni, scompare dalla scena.
Gli artisti che non hanno nostalgia del passato modernizzano la figura di Cristo che diventa espressione dell’interiorità dell’artista stesso. Il tema che si predilige è quello della passione che diventa simbolo di un percorso interiore personale. Proprio per questo motivo il corpo di Cristo perde sempre più consistenza, sembra che si stia sciogliendo nel colore; è come se Cristo non avesse un corpo, riducendosi a simbolo. Esempi di questo spirito moderno sono il Cristo giallo di Paul Gauguin o la Pietà di Vincent van Gogh, in cui si ha realmente l’impressione che Cristo si stia lentamente squagliando nel colore scelto dall’artista. A questo si aggiunge, inoltre, che l’immagine di Cristo acquista una nuova dimensione – si laicizza – e così il contesto; infatti, si nota come nelle opere scompaiano i richiami religiosi. Molti sono gli artisti che non dipingono quasi più il volto di Cristo, ma il loro stesso volto, con un’espressione di dolore intenso che lascia intuire lo stato d’animo che stanno vivendo. Gli artisti, dunque, si incarnano in ciò che rappresentano e cercano Dio in sé; si percepisce la loro inquietudine interiore.
Alla fine del XIX secolo il grido di Gesù sulla croce: “Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è il grido dell’uomo che ha vissuto tanti orrori, brutalità, guerre, genocidi, stragi ovunque, e ha perduto il senso della vita. La tela di Edvard Munch, Il grido, opera non religiosa, manifesta chiaramente come l’umanità abbia perso il senso dell’esistenza. È il periodo del nichilismo e gli artisti cercano in se stessi la fonte di ispirazione; per questo l’arte vive di molteplici manifestazioni, si individualizza, ogni artista è un mondo a sé.
Nel XX secolo, definito “secolo breve”, la cui estensione temporale va dalla prima guerra mondiale (1914) al crollo dell’Unione Sovietica (1991), l’umanità subisce una forte scossa, tutto avviene in modo rapido, una lunga catena di avvenimenti importanti che non lasciano respiro. A questi fatti si aggiungono i progressi nel campo della tecnologia, della politica, dell’economia. L’arte è sempre di più lo specchio di ciò che ogni artista vive, è personalizzata al massimo; tuttavia, l’iconografia di Cristo ha una cosa che accomuna tanti artisti: la rivisitazione della passione come un momento doloroso non solo di Cristo, ma di ogni uomo. Il Messia ha un corpo frantumato, violentato, annientato, è un povero uomo completamente abbandonato; ci sono immagini che lasciano trasparire una grande solitudine. Questa si esprime nel dolore interiore del Crocifisso che molti pittori colgono con un realismo dell’anima, più che del corpo. Nella tela di Renato Guttuso, la Crocifissione, il volto di Cristo è quasi completamente coperto, se ne vede solo una piccola parte. Cristo diventa nel suo volto poco visibile il nascondimento di Dio durante la guerra, dunque, la fine dell’amore. In questa rappresentazione che emana una religiosità laica la tragedia vissuta da Cristo sul Calvario è il simbolo dell’orrore e del dolore straziante che vive l’umanità e dell’abbandono in cui riposa l’uomo.
Colpisce e impressiona la Crocifissione di Marc Chagall in cui Cristo che ha un corpo bianco sembra non avere peso, volume, pare piuttosto un’icona cerea, esangue, smorta, messa sulla croce. Non ci sono i discepoli, non c’è la madre, il contesto è cambiato, intorno a Cristo ci sono gli ebrei che sfuggono dai nazisti. La scena è drammatica e Cristo nel suo corpo praticamente inesistente rappresenta il dolore reale e profondo di ogni popolo che vive l’ingiustizia. Certamente è una visione laica, ma nell’immagine di Cristo sofferente, nel suo corpo simbolico, è chiaramente ritratta la sofferenza di ognuno di noi e Cristo stesso è uno di noi.
Nell’arte del Novecento Cristo è l’immagine della dimensione universale del dolore, ma questo non fa che mettere in luce come l’uomo nonostante tutto non perda la speranza. In ogni dipinto si percepisce il bisogno di Cristo: che riscatti l’uomo dalla sofferenza e dal male, che dia senso alla sua vita, che non lo abbandoni, ma lo accompagni, lo guidi, lo prenda per mano e realizzi tutte le sue speranze. D’altra parte trovo questo molto naturale e penso anche che spesso l’arte, a volte in modo esplicito, altre inespresso, non faccia altro che rendere in forma visiva il desiderio di luce, serenità e amore.
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