Dal diario di un’olandese volante (n. 30 – Tra angeli e demoni)

agenzie lavorodi Endriu

L’appartamento in via Irnerio era ‘movimentato’ non solo per l’instabile girovagare delle varie coinquiline, tra case di fidanzati, stanze doppie e stanze singole (Dal diario di un’olandese volante n. 26  e n. 29): trovare un lavoretto era un’altra bella impresa per me. Gli anni a Bologna erano i primi in cui abitavo fuori casa, e nonostante i miei ogni tanto mi passassero due lire, dovevo trovarmi un lavoretto per arrivare a fine mese. Con le mie conoscenze linguistiche non sarebbe dovuto essere un grande problema, se l’Italia fosse stata un paese un po’ più normale. Invece no. Mi sarò iscritta in una ventina di agenzie di lavoro, quel primo anno in via Irnerio. Ogni settimana ne visitavo una. Mai, ma poi mai, mi hanno contattata, anche se mi sono proposta per i lavori più umili, dalla reception negli alberghi low cost alla donna delle pulizie. L’unica volta che mi hanno chiamata era per andare in Sicilia a fare un corso di qualche mese per poi andare a fare la segretaria in un’azienda. Non c’era proprio nessuno, in Sicilia, da mandare?! Socmel, dall’Olanda andare in Sicilia per fare la segretaria… Sono stata ‘choosy’ e ho detto di no, tanto mia madre avrebbe avuto un infarto se avessi accettato. La Sicilia per lei è già Africa, e visto che le ho fatto passare notti insonni solo per essere andata a lavorare in montagna fuori Bologna (manco fossi partita per l’Afghanistan), mi sembrava assai saggio rifiutare. 

studiareNon è che poi facevo nulla, in quel periodo. Dopo aver fatto – nel primissimo anno a Bologna – l’assistente di lingua olandese all’Università di Bologna, ero riuscita a farmi dare un corso di olandese in una scuola di lingue. Avevo solo un’allieva, Alessia, ma mi pagavano e avevo pure una specie di contratto, seppure minimale e a tempo assolutamente determinato. Tuttavia mi ha fatto tanto felice quando me l’hanno presentato, come i bambini di una volta quando un generoso adulto regalava loro le caramelle che non potevano permettersi. Alessia aveva il padre olandese, morto già da un pezzo, ma lei aveva sempre voluto imparare la lingua dei nonni, che ogni tanto andava a trovare. Mi stava però scappando via, il corso essendo caro e lei venendo pure da Modena. Miracolosamente ci siamo ritrovate su internet: avevo creato degli annunci per insegnare l’olandese, ingenuamente speranzosa di trovare qualche pirla che volesse imparare una lingua impossibile nonché inutile (per chi sa già l’inglese). Lei, dall’altro lato, stava cercando un’alternativa più economica, e così ci siamo re-incontrate sul web, poi nell’appartamento in via Irnerio dove abbiamo continuato il corso, senza le spese di amministrazione, diciamo. Mi ero pure procurata il libretto per farle la ricevuta, dal negozio 99 centesimi, ignorando il fatto che non valeva una sega! Ero troppo contenta di lavorare in proprio… 

punk girlE così abbiamo continuato ancora un po’. Era brava, l’Alessia, ordinata e seria, carina e socievole. Bionda con gli occhi azzurri, era l’esatto opposto della mia seconda allieva, Roberta che si faceva chiamare Robbie, come suo padre – olandese pure lui, morto pure lui. Tante cose in comune, ma quanto erano diverse! Robbie era una punk, potenzialmente una punkabbestia se avesse potuto tenere il cane, ma stava in una residenza universitaria. Ogni volta che la vedevo cambiava colore dei capelli, poi piercing dappertutto. Ma era una brava ragazza, voleva veramente imparare l’olandese, solo che era distratta. Distrattissima! Aveva anche dei problemi fisici, alcuni veri, altri immaginari. Il problema è che non riusciva a concentrarsi sulla materia: magari mentre le spiegavo qualcosa, si metteva a schiacciarsi un brufolo sulla spalle, oppure mi interrompeva per parlarmi di un film che aveva visto. Poi mi bombardava con domande e ipotesi. Per un certo periodo si era fissata, ad esempio, con la consonante ‘v’, che in olandese si pronuncia come la ‘effe’ italiana. Lei l’aveva capito, solo che non si ricordava mai di averlo già capito, e me l’ha chiesto per tre o quattro lezioni di seguito: “Ma ‘Van Gogh’, non si dice ‘van’, si dice ‘fffan‘…?” La prima volta ero contenta, almeno si interessava alla materia anche se non la studiava, ma la settimana dopo mi fece la stessa esatta domanda, e quella dopo ancora. Mi irritavo sempre di più, poi quando stava per chiedermelo per la quarta volta si è fermata, facendo la smorfia di chi si ricorda qualcosa, vagamente… Dai dai che ce la fai…. Ohhh, le è passato.  Ce l’ha fatta! 

Van GoghInsomma, tra Alessia e Robbie c’era un oceano di differenza. Sembrava uno scherzo della vita: da un lato l’angelica biondina con gli occhi azzuri, con il suo quaderno tutto nuovo, pulito e ordinato, le penne colorate per distinguere tra verbi regolari e irregolari; dall’altro la dark punk pazzoide e demoniaca, che si scaccolava il naso mentre le spiegavo il plurale, che mi portava a raccogliere il suo bucato o a vedere Factotum al cinema Rialto. Alla fine, però, è riuscita ad andare ad Amsterdam, con una mia lettera di riferimento – scritta più per compassione che per convinzione professionale – per la scuola di olandese che avrebbe frequentato e (subito dopo) mollato. Non importa, fa la video-maker e parla l’olandese. Non è perfetto, ma se la cava. Quando diventerà il nuovo David Lynch chiederò una piccola percentuale…

editing by Beatrice Nefertiti

 

Latest posts by (Collaborazione esterna) (see all)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *