di Endriu
Una volta passato Ferragosto, è finita anche l’estate. Di qui in poi è tutta una discesa, un ritorno lento e doloroso verso la normalità. Per chi ha potuto uscirne, certo. Per me l’ultima tappa, prima che possiamo dire ufficialmente conclusa la pausa estiva, è la festa alla Casa del Popolo nel mio paese, a fine agosto. Come vi ho raccontato precedentemente (Dal diario di un’Olandese volante n. 11), dopo il soggiorno in montagna nel 2005 mi sono pian piano aggregata a questo gruppo di pazzi che stanno ristrutturando un essiccatoio di riso dell’Ottocento, per farne una nuova Casa del Popolo. Quella vecchia fu svenduta negli anni ’90, dopo di che il gruppo ha stipulato un grosso mutuo per comprare questa casa enorme con prato intorno, adiacente ai campi dove una volta veniva coltivato il grano. Da qualche anno, invece, cresce solo il granoturco, macinato quando è ancora verde, per alimentare le biomasse. Ma quella è un’altra storia.
A tre anni dalla fine del mutuo, quando insomma iniziavamo a vedere la luce in fondo al tunnel, la beffa. Il terremoto. Una, due volte. No, la casa non è venuta giù, ma le crepe davano da preoccuparsi. Subito dopo la seconda scossa qualcuno ha voluto chiamare i vigili, firmando la propria sentenza di morte. Non si poteva decidere autonomamente di chiudere la casa al pubblico? Magari stabilire un piano di ristrutturazione alternativo, evitando di intrappolarci nell’inferno labirintico delle certificazioni, dei bolli da pagare e di tutte le altre beghe della burocrazia che ora ci stanno strozzando? Ce l’avrebbero dichiarata inagibile anche prima! Forse qualcuno pensava di chiedere i soldi per la ricostruzione, ma non è il nostro stile. In effetti non li abbiamo chiesti, per principio e perché non abbiamo comunque mai voluto aiuti da parte delle istituzioni. Come avremmo fatto a spiegarlo ai volontari che da sempre vengono ad aiutarci?. Pirla sì, ma con la testa alta.
Solo che dei compagni ne sono rimasti pochissimi, ormai, e sarà düra, come dicono in Val di Susa. I tempi sono cambiati, non c’è più l’entusiasmo degli inizi, quando il PCI era morto, il PDS deludeva e anche Rifondazione Comunista non stava dalla nostra parte. Quando sfoglio gli album che riposano sotto uno strato di polvere, su al primo piano, nella vecchia biblioteca abbandonata a se stessa da più di un anno ormai, mi viene una nostalgia che non è mia. Vedo tanti visi allegri e sorridenti, giovani e vecchi, pensionati e bambini, su a rifare il tetto, in cucina a preparare tortellini, o in giro per il prato a fare gli asini. Sono tanti, la maggior parte non li conosco nemmeno. Dove sono andati a finire? Dov’è andata a finire la loro convinzione che questo posto potesse essere qualcosa di speciale, qualcosa da salvaguardare? Qualcuno ancora viene, d’estate, a dare una mano durante le due feste di autofinanziamento, ma niente di più. Sarà stata la spinta della novità, della rottura con il vecchio, della partecipazione attiva a un progetto partito finalmente dal basso, del tetto da rifare. È sempre facile impegnarsi nei lavori grossi, paradossalmente. Perché dopo arriva la domanda: e mo’? Che ci facciamo con questo posto?
È la domanda del secolo. Una volta si pensava di farci tante belle cose: un ambulatorio, uno sportello migranti, corsi di yoga, danza, italiano per stranieri… Ma si è perso tutto. Si è persa l’idea della cultura, del fare cultura. Tutto si è ridotto alla lotta tra il ‘contenuto’ e il ‘contenitore’. Chiaramente ha vinto l’ultimo. È vero che bisogna tirare su dei soldi per pagare il mutuo, ma se poi non si sa cosa faremo in quella casa, una volta pagato il mutuo, a cosa serve? Perché ristrutturarla? Il fare tortellini e tortelloni ormai è diventato fine a se stesso, e si perdono i pezzi. La gente se ne va e rimangono solo quelli che comprano il Manifesto tutti i giorni per poi non leggerlo. Restano quelli che nella nostra piccola libreria non mettono neanche piede, nonostante l’associazione sia dedicata a un libraio e scrittore – che barzelletta! Insomma, rimangono quelli che vengono a martirizzarsi perché a casa loro, probabilmente, non stanno troppo bene, e si aspettano lo stesso sacrificio da parte degli altri. E lavorare per la Casa del Popolo diventa un obbligo, tra un tortellino e una tagliatella si è convocati a imbustare le posate o a pelare l’aglio. È vero, siamo in pochi e perciò dobbiamo lavorare di più, ma non sarebbe meglio fare di meno, aprirsi un po’ di più alle esigenze degli altri, cercando di coinvolgere la gente tramite la cultura, anziché la cucina? La gente non la convinci a venire da Bologna a pelare le patate in un clima di tensione e stress, magari senza un piatto di pasta a fine giornata.
Sarà düra, ahimè. Ma il problema non è solo l’affievolirsi dell’entusiasmo iniziale, o quel qualcuno che si è fatto una famiglia o si è trasferito lontano. Ci sono delle persone che rendono quasi impossibile frequentare il posto, se sei diverso o se fai critiche, a meno che non sai compensare la tua diversità con qualcosa di utile o produttivo (lavare molti piatti, ad esempio). E questa sarebbe una Casa del Popolo? A rovinare il clima è stato soprattutto Mimmo, il metallaro. Una volta un ragazzo difficile ma buono, da quando ha rotto con mio marito – una specie di padre surrogato, in questi ultimi anni – si è scatenato. A forza di assecondarlo gli altri non riescono a trattenerlo, e gli si è gonfiato talmente l’ego che non si sopporta più. Urla, bestemmia e rutta in continuazione. Spesso si rifiuta di fare lavori fisici o trova scuse penose, passando il suo tempo a guardare gli altri che faticano. Quando gli viene uno sfizio si vuole accontentare nonostante in banca non abbia più una lira, e nessuno riesce a dirgli “basta ciccio”. Ora quando prepare il pranzo o la cena, al sabato o domenica, ha preso anche il vizio di fare le porzioni in base a chi gli sta simpatico, così qualcuno rimane a volte senza piatto. Quando passano i miei gatti in cucina, infine, li prende a calci, solamente per dar fastidio a me! Adesso la campagna dell’odio sembra sia sbarcata anche sui social network: di recente ha lasciato un commento piuttosto antipatico su alcune foto che ho caricato sul profilo facebook dell’associazione. Ma non basta per risvegliare i politically correct: continuano a giustificarlo, o semplicemente negano…
Il fatto è che non solo rendono la Casa del Popolo qualcosa di tutt’altro che ‘del popolo’, ma fanno dei danni pure a lui. Lasciandolo libero e non imponendo mai un po’ di autorità (e lui ne ha bisogno, mancandogli una figura paterna forte, oltre a un punto di riferimento autorevole che gli può dare quel calcio in culo che ogni tanto ci vuole pure), lui si è mangiato tutti i soldi. Quel che è peggio è che muore dalla noia e dalla solitudine, perché nessuno chiaramente lo sopporta più di tanto. In compenso gli mettono i like sul suo profilo Facebook.
Ma siamo fermi anche con i lavori di ristrutturazione, e questo è pericoloso perché potrebbero mollare pure quei pochi che sono rimasti, quelli che si sono sempre impegnati soprattutto per il ‘contenitore’. La speranza di farci togliere l’inagibilità tramite l’aiuto dell’ingegnere amico dell’amico dell’amico è scomparsa già da un bel po’, e c’è conflitto. Piero, il muratore, cambia idea ogni quindici giorni su quello che vuole o non vuole fare. Non va d’accordo con gli altri due compagni che dovrebbero occuparsi del cantiere insieme con lui, e mi viene il sospetto che voglia semplicemente lavorare da solo. Ora ci ha anche detto che dobbiamo CONVINCERLO… Con tutti quelli che non vedono l’ora di prendere un qualsiasi lavoro in mano?! Comunque vada, dubito che vengano fuori quelle belle foto di persone sorridenti e scherzose che ho visto negli album su in biblioteca.
editing by Beatrice Nefertiti
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