Dal diario di un’olandese volante (n. 33 – Lancia la Medusa!)

di Endriu

CoventryDopo l’ultima festa estiva alla famigerata casa del popolo, qui a casa mia, le pile erano veramente scariche. Non è bastato lo sfogo dell’altra volta, ci voleva un reset totale del sistema. Anche perché a ottobre l’Olandese volante riparte per una nuova avventura. Qualche anno dopo che sono venuta ad abitare a Bologna, trovando solo lavori precari e truffe, mi sono imbarcata in un dottorato nella città più brutta d’Inghilterra: Coventry. Sono tornata coi polmoni semidistrutti, per motivi che vi illustrerò in un prossimo futuro, giurando di non tornare mai nella Perfida Albione. Invece ci torno, e per dare un ulteriore colpo al mio sistema immunitario ho scelto come meta la Scozia. Beh, ‘scelto’… Visto la carenza di possibilità di entrare in qualsiasi università o di avere qualsiasi posto di lavoro decente, ho tentato di vincere questo concorso, l’ultimo di una lunga serie, e stavo per mollare. Con la crisi che c’è anche nel mondo accademico anglosassone, mi bacio i gomiti. E quindi fuori la valigia e via all’acquisto di tute, vestaglie di lana, borse per l’acqua calda e passamontagna.

Sardegna montagnePrima di entrare nell’era glaciale mi sono concessa, però, una bella vacanza al sole, in Sardegna. Erano tre anni che non ci tornavamo, e anche se non sono amante del mare, mi mancava un bel po’. Quel paesaggio deserto, quelle montagne verdi e spopolate, altro che l’Appennino tosco-emiliano dove le case spuntano un po’ dappertutto. Lì, niente. Chilometri di montagne, boschi, prati secchi con capre, miniere. Eravamo nella zona di Carbonia, quindi figuratevi. Era strano: non riuscivo a conciliare l’idea di quei poveretti che lavoravano nelle miniere, chiusi sotto terra, al buio e nella polvere, con quella del mare così vicino e nello stesso tempo lontano. Ma non ci siamo fatti prendere dai sensi di colpa: tutti i giorni al mare! Il bello della Sardegna, oltre al mare decisamente più attraente rispetto al brodo dei lidi ferraresi, è la diversità e la quantità delle spiagge. Gli scogli, le rocce da dove i bimbi più scaltri azzardano di tuffarsi nel mare profondo , le cale, le onde… Ce n’è per tutti! E ne abbiamo viste di ogni.

Sant'AntiocoPrimo giorno: temporale da non dimenticare. Eravamo a Calasetta, piccolo paese pittoresco sull’isola di Sant’Antioco, nel punto più estremo dell’angolo sud-ovest della Sardegna. Eravamo scappati da un temporalone più a nord, che ha pure fatto allagare le strade. A Calasetta ancora non pioveva e l’acqua azzurrina della spiaggia grande, dove ho passato la mia primissima vacanza in Sardegna, nel 2008, era ancora calda. Lì per lì mi facevo un bagno, ma stavano arrivando le nuvole e non era un bel vedere. Arrivano le prime gocce, l’orribile impianto di Portovesme, proprio di fronte a Calasetta, scompare tra le nuvole, meglio cercare rifugio. Entriamo in un bar-ristorante sulla spiaggia, dove passeremo due ore abbondanti a far fuori una bottiglia di Vermentino, qualche sacchetto di patatine sarde, e giocare a UNO. Fuori, l’inferno. O l’inverno, come volete voi. Fatto sta che la pioggia tiene giù il mare, tanto picchia! A un certo punto, nell’acqua, si vede una striscia marron scura, che non può essere altro che la fognatura del paese. Il bagnino cerca di rimediare dicendo che è fango, mentre il barista parla di sabbia, ma da quand’è che un branco di gabbiani si accanisce su una striscia di fango/sabbia?! Comincia a piovere dentro, quelli che erano seduti nel terrazzino semi-coperto ci raggiungono all’interno del bar, dove ormai è fitto di gente che ci guarda giocare incuriosita. Una madre rumena con il figlio ci gira intorno sorseggiando da una lattina di coca cola che era finita due ore prima, per paura di essere espulsa dal rifugio improvvisato. Il bimbo invece è affascinato dal nostro gioco, sogghigna quando frego mio marito con una carta bella tosta, ma quando lo invitiamo a giocare con noi scuote la testa, timidamente.

MadonnaSecondo giorno: la paura di passare una settimana chiusi dentro l’appartamento, oppure in macchina a cercare il tempo buono, passa presto. Andiamo nella spiaggia del paese dove abbiamo affittato, a Portoscuso, e il sole picchia. Uno degli ultimi dischi di Madonna va in loop in un bar vicino, cacciandoci via dopo la terza volta che sentiamo I don’t wanna hear, I don’t wanna know, Please don’t say your sorry Scopro ora – con una certa soddisfazione – che la Queen of Popo ha pure sbagliato l’inizio, quando cerca di dire ‘sorry’ in altre lingue: pensavo che una delle frasi tradotte fosse in tedesco, e invece era olandese! Solo che ‘ik ben droevig’ non vuole dire ‘mi dispiace’, ma ‘sono triste’… Dai Madonna, ti sei affidata a Google Translator?!

Terzo giorno: il bel tempo continua, siamo trionfanti. Andiamo su verso la costa verde, o almeno così è scritto sulla nostra piantina, ma ci delude. È una spiaggia lunga e aperta e il mare ci butta addosso le onde, io vado sotto varie volte, mi capovolgo e rotolo contro la spiaggia, avanti e indietro, non è possibile. Basta, prendiamo il sole e facciamo il nostro pic nic. Ogni tanto mi rimbomba ancora in testa I don’t wanna hear, I don’t wanna know e dietro di noi osserviamo le capre che terrorizzano i clienti del bar che tentano di usare il bagno. Ci vuole poco per essere felici.

medusaNei giorni successivi ci impegniamo a cercare spiagge più tranquille, e impariamo una cosa importante: bisogna andare nelle cosiddette cale, perché non danno direttamente sul mare. Eppure incontriamo un nuovo ostacolo: le meduse. Siamo arrivati in questa cala bellissima, ritenendoci molto furbi e fortunati. Stiamo per fare il primo bagnetto pre-pic nic quando cominciamo a vedere delle ombre che galleggiano nell’acqua. Nessuno sta facendo il bagno, guarda caso. Anzi, sono tutti in riva al mare che guardano attentamente l’acqua, qualcuno punta il dito, un altro prende una ciabatta e tira su il cadaverino della medusa. Che palle! Ma mio marito ha un colpo di genio. “Prendi le racchette del badminton, va là”. E comincia a pescarle, una per una, per poi seppellirle in spiaggia. Dopo un po’ ci stanchiamo di riportarle a riva e cominciamo a lanciarle. Riesco finalmente a sconfiggere Madonna, quando mi entra in testa un altro tormentone: Lanciala lanciala, lancia la Medusa, tralalì tralalà, lancia la Medusa! Alcune si schiantano contro gli scogli, e mi auguro che non ci siano degli animalisti in spiaggia. Certo, un po’ mi dispiace tirarle su da quell’acqua meravigliosa, loro che sono libere, ondulando su quei loro tentacoli, ma so che stanno morendo. Alcune sono già morte: diventano trasparenti, come pezzi di silicone. Infatti, ad un certo punto pensavo di aver pescato una tetta al silicone.

Ma più che animalisti in spiaggia ci sono bagnanti preoccupati e, soprattutto, annoiati. Così arriva uno con la sua racchetta, e si appassiona. Per più di un’ora bonifica l’acqua davanti ad un pubblico curioso e grato. Dopo pranzo gli diamo il cambio, lanciando una vera e proprio moda, quando trovo una sportina nell’acqua e comincio a raccoglierci le meduse. Arrivano altri con racchette e sporte e passano tutto il pomeriggio a pescare meduse. Qualcuno rimpiangerà le meduse, quando vedrà le fosse piene di blob, ma se devono morire comunque, ci devono pure pungere?

fataIl giorno dopo idem, solo che quando arriviamo in spiaggia c’è già una squadra di bambini sterminatori in funzione, e non riusciamo a fare i fenomeni. L’acqua puzza pure di zolfo: stanno marcendo le alghe. Quindi puntiamo sull’ultimo giorno: non abbiamo ancora trovato la spiaggia perfetta, senza onde troppo alte, senza meduse, senza puzze. E con il sole, per favore. Qualcuno ci ascolta: giovedì scendiamo in direzione di Capo Teulada e troviamo il paradiso. L’acqua è limpidissima e calda, il sole ci accompagna per tutta la giornata, fino a sera quando viene una burrasca, ma noi stiamo già tornando a casa. Un bel graffio da albero di mirto ci fa temere per la macchina, che è in affitto, e decidiamo che la prossima volta portiamo giù il nostro macinino. Quando la riconsegniamo ce lo fanno notare, ma mio marito gioca sul nazionalismo sardo, dando la colpa agli alberi di mirto, unici in Sardegna. Funziona! Torniamo a Pisa, con il gusto di calamari e gamberi freschi con prezzemolo e aglio ancora in bocca. Non andavamo a fare i fighetti al ristorante, avevamo il mercato dietro casa, e ogni giorni ci godevamo ogni ben di Dio della Sardegna. Pure il caffè lo facevano buono, al ‘Café delle Fate’. E c’erano davvero, le statuine di fate, sparse sul banco e in mezzo ai tramezzini e ai cornetti. Poi la barista aveva proprio la faccia da fata, tipo Peter Pan. Malinconica, quasi triste. Lei che magari da piccola aveva sognato di fare la ballerina o la marinaia, e invece si trova a fare dei caffè per i caproni del mercato, in un posto che si ravviva tre mesi all’anno. Forse per questo era malinconica, cioè, per la fine dell’estate. Una fata malinconica, ma sempre fata.

 editing by Beatrice Nefertiti

 

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