di Endriu
Le ultime sere prima di partire sono belle ma pese, consci come siamo della futura separazione, anche se non è definitiva. Ci facciamo delle gran cene, poi ci spariamo qualche puntata del nostro giallo preferito. Penso a quanto mi dispiacerà non vedere più la faccia da culo (però bella!) di Pif su MTV, o ridere insieme alle imitazioni di Crozza su Ballarò, quando gli vengono bene. Finisce poi lì il rimpianto per la TV italiana, eh, non facciamone una tragedia. La faccia di Antonio Banderas che si abbuffa di biscotti cotti al vapore non la posso più vedere, come quella dei nostri inutili politici che si esibiscono sui vari talk show parlando dei cazzi loro, mentre il paese va in rovina.
Il giorno della partenza sono nervosa. Non sono più abituata a spostarmi per il mondo portandomi dietro tutto. Ormai odio gli aeroporti, quei luoghi sproporzionati e impersonali, freddi spazi di transizione che vacillano bruscamente tra la gioia di rivedere le persone che si amano e il dolore di vederseli allontanare. Partire, partire, è un po’ come morire. Sono stanca, vorrei fermare la giostra una volta per tutte ma ahimè, l’Italia non è un posto per giovani. L’aeroporto mi fa venire il cagone e vado in bagno due volte, tre volte, mamma mia, che ho fatto?! Sarà stato il pesce? No ecco, ho capito: è la sintomatica ansia pre-volo che ti mette la Ryanair, il volo low cost di noi poveretti. Ho solo il bagaglio a mano, strapieno di roba, per cui devo fare le solite manovre di inganno delle hostess: un po’ di carica in una tasca del capotto, un po’ nell’altra, una maglia in più addosso così faccio una bella sudata, una borsettina nascosta sotto il cappotto (non si può, te la fanno mettere nella valigia). Tento di tenere fuori vista la valigia per evitare di doverla provare nel mobilino delle misure, quell’oggetto terrorista che ti guarda minaccioso dal banco del check-in. Ora, non è tanto il problema di infilarla dentro, è tirarla fuori senza tirare su anche il mobilino che ti frega. Che due maroni la Ryanair! Ohhh, anche ‘sta volta passo. Ma c’è un secondo ostacolo: trovare un posto dove infilare la valigia, negli spazi sopra i posti a sedere. Ci vuole una laurea in ingegneria per volare con questa compagnia… C’è il classico assalto ai posti e soprattutto agli spazi per le valigie, ma riesco a ficcarlo sotto il sedile. Ora sono a posto, posso mettermi a guardare il resto del bestiame che si sistema nel caos totale.
Non vado direttamente a Glasgow – ho da fare nella mia vecchia università, a Coventry. Questo significa che, una volta arrivata a Londra, mi tocca prendere la corriera (le chiamano ‘coach’, come se fosse una cosa lussuosa) che ci mette più di tre ore per arrivare a destinazione. È un vero maratona, lento e tormentato perché si ferma in ogni buco di culo tra London Stansted e Coventry. Tre ore, poi, che basteranno per scatenare un raffreddore. Gli inglesi proprio non capiscono il caldo e il freddo… Per tutto il viaggio l’autista gioca con la temperatura, caldo-freddo, caldo-freddo. Ma un caldo che ti venivano giù Caronte e Scipione messi insieme! Dopo che ti si è bloccato il naso e cerchi di inalare aria tramite la bocca, come uno stupido pesce, ti caccia l’aria condizionata. Un vento gelido riempie l’autonave in pochi istanti, e non fai in tempo a coprirti con tutti gli stracci che trovi che di nuovo pompa fuori il riscaldamento. E così passo le mie tre ore a vestirmi e svestirmi, guardando incredula la signora inglese immobile, dall’altra parte del corridoio, troppo vestita per sopportare gli scoppi di afa, troppo poco vestita per proteggersi dal gelo. Non si muove neanche una volta. Ma che, è morta? I giovani sono ancora peggio: quando le ragazze escono la sera, sono sempre seminude, pure a novembre con meno uno, e giuro di aver visto un ragazzo senza calze con la neve per terra. La sciarpa non la conoscono proprio, il capotto è moda e basta. Non sentono il freddo? Pensano di far onore ai padri vichinghi? No, il freddo lo sentono eccome. E’ che non hanno mai capito che cosa sia, semplicemente.
Finiti gli affari a Coventry, è ora di andare su nelle Highlands. Sarebbe solo un’ora di aereo, ma sono ancora più carica di roba e non ce la farei psicologicamente a tentare di volare così. Il terrorismo delle hostess è una cosa tremenda. Inoltre sto finendo tutti i miei risparmi: il primo stipendio me lo danno a fine mese, e devo fare la pezzente ancora una volta. Così ho fatto l’ennesima pessima scelta della mia vita: ho prenotato il Megabus, il Ryanair delle corriere, il Lidl dell’autostrada. Sono sei ore di viaggio, neanche tanto rispetto alle ventidue ore che facevo quando viaggiavo tra l’Olanda e Bologna, con Eurolines. Sei ore senza soste nei buchi di culo inglesi – almeno quello. Tuttavia sarà un’esperienza straziante, intanto perché parte non da Coventry ma da Birmingham, la seconda più grande città della UK, per cui devo trascinarmi dietro quindici chili di valigia più dieci di borsa sulla spalla per arrivare a Birmingham. Non a piedi, eh, non esageriamo. Devo andare sull’orribile autobus che mi porta alla stazione di Coventry, poi in treno, e poi in Megabus. La fermata dovrebbe essere dietro la stazione di Birmingham, ma non sarei me stessa se non fossi pirla, e parto nella direzione opposta. Leggo un cartello ‘bus’ e lo seguo, come se fossi una turista italiana che viene in Inghilterra per la prima volta. Me ne accorgo dopo mezz’ora, un mezz’ora che sembra un’ora perché un pezzo della valigia si è pure rotta nel tragitto verso l’autobus a Coventry, subito alla mattina. La ciliegina sul dolce, diciamo. Tiro, sudo, è un incubo, per fortuna che sono partita in anticipo se no mi sparavo. Alla fine il mio piccolo cervello si accorge dell’errore e dopo un altro giro intorno all’universo, un vigile – impietosito – mi indica la fermata. Partiamo con un’ora di ritardo (te pareva), ma a me va già bene appoggiare il culo su un sedile. Il clima dentro il Megabus è sopportabile, viene solo un po’ di freddo quando passiamo in una valle che è tutta nebbia, che scende giù dalle colline per ingolfare il nostro povero bus. Ho una sconcertante sensazione di lasciare il mondo reale e di scendere in un mondo parallelo, buio e bagnato, forse mi ritroverò in un capitolo del Signore degli Anelli…Il mio disorientamento viene rinforzato quando passiamo davanti ad un cartello, Fàilte gu Alba. Oddio, siamo davvero nella Terra di Mezzo! Ma alla fine del tunnel c’è luce, e raggiungiamo finalmente Glasgow.
Dimentico la miseria e prendo un taxi – sono cottissima. Fortunatamente avevo già trovato casa, una stanza nell’appartamento di una ricercatrice che conosco vagamente. La casa ha le solite sfighe inglesi, specialmente i due rubinetti separati, tanto per restare in tema di caldo versus freddo, la cucina murata di cose piazzate un po’ dovunque. Voi mi aggiungerete senz’altro la mancanza di un bidet, ma quello non ce l’avevamo manco in Olanda, e non ho mai capito perché gli italiani non riescono a fare senza – una volta si cagava dentro un buco, invece ora, se non ci si può spazzare il culo con l’acqua, ci scandalizziamo?! Poi scopro una cosa orribile: il letto. C’è c’è, ma non è proprio un letto. E’ un divano letto dell’Ikea, quelli più semplici ed economici, con un materasso che non vale una lira. Dormo da cani: il materasso non tiene niente, ovviamente, e sento tutta la struttura di legno nelle vertebre. Buchi qua, buchi là, no no, mi devo comprare un materasso, non è possibile!
Per lo meno la zona è buona. Siamo nella West End, una parte di Glasgow fuori dal centro ma che mi è stata descritta come molto carina, ed è vero. La domenica faccio un giro ed è pieno di gente, bambini, i giardini botanici hanno una struttura di vetro che mi ricorda il palazzo di cristallo ottocentesco di Londra, quello che ospitava la prima Esposizione Universale. Infatti mi sembra un po’ di essere a Londra, con tutta questa confusione, i negozietti retro, e c’è pure l’underground! E’ piccolino, due binari e un trenino lungo neanche dieci metri. Eppure sembra di essere in una metropoli.
editing by Beatrice Nefertiti
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