di Endriu
Sono all’ultimo piano. Siamo io e il “Che”, e basta. Ve lo ricordate? È tra quelli che hanno segnato il mio percorso italiano introducendomi nella famiglia estesa della Casa del Popolo, quella stessa che ora si lamenta dei miei raccontini. Successe dopo le vicende del Rifugio, dove ho conosciuto la sua famiglia. Ora è uno dei pochi che mi sostengono nella lotta per restare dentro la Casa del Popolo. Più che a Che Guevara somiglia a un famoso cantante cecoslovacco degli anni 60-70, almeno così sostiene mia madre, a cui ho fatto vedere una sua foto. Si chiama Waldemar Matuška e fu perseguitato dal Partito Comunista, che proibì tutte le sue canzoni. Di conseguenza Matuška emigrò negli Stati Uniti, e la somiglianza con il nostro “Che” – un comunista puro e duro con tanto di nostalgie filosovietiche – finisce decisamente qui, ma mi piace comunque pensare che i due abbiano qualcosa in comune.
Su per le scale sta arrivando un branco di lupi. Siamo in fondo alla sala, troppo lontani per chiudere la porta in fondo alla scala. Matuška prende in mano un machete e lo lancia da lontano contro la porta, come un feroce indiano in un film western. La forza del lancio effettivamente chiude e blocca per un po’ la porta. I lupi non possono entrare. Per ora. Ma non possiamo aspettare. Matuška trova una corda e me la mette intorno alla vita. Nodo. Mi fa scendere dalla finestra, pian piano, poi tira su la corda per se stesso. È lento, però, mamma mia che lento, parla parla… E daje, fai il nodo e scendi pure tu! Mi viene un caldo ansioso, come quando nei film c’è l’eroe che sta per essere macellato da una macchina infernale se non si salva in qualche modo, ed è tutta una questione di secondi. Matuška è sempre stato lento, e mi fa ridere che riesca a rallentare addirittura un sogno con le sue chiacchiere. La paga, però. I lupi sfondano la porta e lo raggiungono, ma non sono più lupi: il sogno mi ha fatto lo scherzo e i lupi si sono trasformati in un kamikaze arabo, completo di kefiah e mitragliatrice. Lo vedo apparire alle spalle di Matuška mentre sta facendo il suo nodo, parlando di quanto erano belli gli anni ‘70.
E così colui che mi ha portato in quel posto, quasi dieci anni fa ormai, ora mi aiuta ad uscirne. Mi salva. Ma perché proprio lui? Forse è un segnale che si è chiuso un cerchio, che la mia vita in quel posto è giunta davvero a termine. Non tanto per l’allontanamento imposto, ma perché, semplicemente, quella casa non respira più. Non respira da anni, poi il terremoto ha dato il colpo di grazia: l’avvertimento della prima scossa, poi la seconda che ha fatto danni seri. Come se stesse dicendo, “bona lé”. È il momento di abbandonare la nave.
Forse la vita è un sogno, come ci ha insegnato il vecchio Calderón. Chi lo dice che tutto ciò che viviamo durante il giorno in realtà non sia solo un sogno, e la nostra vera vita la viviamo di notte? Siamo tutti sonnambuli?! Alcuni lo fanno letteralmente, tra feste e alcool mentre passano le giornate a dormire sul banco di scuola, o in ufficio a lanciare aeroplanini di carta contro il collega poco stimato. Che triste però. La vita non dovrebbe essere un’eterna attesa di qualcosa di altro, ma piena di voglia e di vita, appunto. Gli antichi non erano mica stupidi quando dicevano “carpe diem”. Ma quando hai qualcuno che ti condiziona, qualcosa che ti tiene giù per terra, è difficile volare.
Anch’io, in questi ultimi anni, ho tentato di partire ma ero come una mongolfiera che non riesce a sollevarsi perché tirata giù dalla forza di gravità. Certo non per mancanza di alimentazione. Ho lavorato praticamente gratis per due anni, pubblicando di qua e di là, organizzando convegni, mandando applications un po’ dappertutto fuori che in Nuova Zelanda. Ma forse ha ragione la Fornero: siamo troppo choosy. Dobbiamo andare a lavorare nei call center a due euro l’ora, e non pretendere un contratto. Un contratto?! Ma che arroganza! Per forza l’Italia va così male: siamo tutti qua ad aspettare delle cattedre da signoroni.
Per fortuna all’estero la parola ‘meritocrazia’ non è ancora stata ridotta a una frase fatta per i populisti di turno, e così sono finalmente partita. Lenta ma sicura. Nonostante le mie giornate nascano e muoiano nel buio, alla mattina mi alzo stracarica, alla sera faccio fatica ad addormentarmi. Malgrado il crepuscolo tagli ogni speranza di uscire dall’ufficio con la luce, sono lì da mattina a sera. Combatto la stanchezza che inevitabilmente colpisce gli sfigati che hanno scelto come meta la Scozia, perché ne ho voglia. Basta che non mi facciate mangiare il porridge, quell’orribile piatto di vomito riscaldato. Già il nome! Piuttosto mi drogo con le pillole di olio di pesce suggeritemi da una collega, in quanto ottimo antidoto alla depressione stagionale, la SAD (Seasonal Affective Disorder – sì, le hanno pure dato un nome). SAD poi significa anche “triste”. Ma non mi lamento. È bellissimo risorgere dal letame, dopo anni che ti danno del buono a nulla solo perché sono troppo ignoranti per capire che uno che non esce di casa per andare a lavorare non sta necessariamente lì a grattarsi il culo dalla mattina alla sera. È bellissimo essere riconosciuti da parte di un ente serio e, appunto, meritocratico, che non guarda solamente con chi hai studiato e quali conoscenze hai. Ma il più bello è avere un proprio ufficio. Il MIO ufficio, finalmente, dopo anni di nomadismo tra piccoli spazi condivisi o desktop faticosamente conquistati in biblioteche sovraffollate. Non mi lamento, eh, so che sono privilegiata, aver potuto studiare e farne un lavoro, anche se per soli tre anni, ma quando si fa l’upgrade è una bellissima sensazione. Così bella che spesso non riesco davvero a dormire, la sera. Ho tanta voglia di fare.
Faccio un altro sogno, meno tetro ma sempre preoccupante. Stavolta sono a confronto diretto con i miei carnefici. Il clima è brutto e c’è tensione, qualcuno per scherzo vuole bruciarmi nel fuoco dell’ultimo dell’anno, come la strega messa sul rogo. A un certo punto qualcuno si alza e provoca, dicendo che sono una spia dei servizi segreti cecoslovacchi! Interviene mio marito che tenta di tranquillizzarli: “Ma dai, sono compagni!”.
Il bello del concorso che ho vinto è che non devo insegnare più di tanto, così mi posso concentrare sulla ricerca. Ovviamente l’esperienza mi serve per quando finiranno questi tre anni magici, e può darsi che mi piacerà anche, ma so di non essere predisposta a stare davanti ad una classe di ragazzi: sono troppo timida e insicura. ODIO parlare davanti alle persone. Ma poi tante cose semplicemente non le so – come faccio a insegnarle ad altri? Sarà la domanda del secolo per ogni insegnante, ma non c’è una risposta universale. È tutta una grande avventura e un continuo improvvisare. ODIO improvvisare. C’è poi un piccolo handicap in più: gli studenti qua parlano pure con accento scozzese. Impossibile da capire! Sean Connery è un gioiello rispetto a questi. Non riesco tuttora a capire il mio macellaio quando parla del tempo… Coraggio, Endriu.
L’insegnamento è un po’ come un coltello che taglia su entrambi i lati: da un lato mi terrorizza, anche se ne faccio poco; dall’altro lato non ne faccio abbastanza per piacere ai miei colleghi coetanei del dipartimento, che sono tutti lecturers, cioè docenti universitari ordinari. È il primo livello da cui parti per arrivare, alla fine, alla cattedra. Per noi italiani un sogno. Ma questa è tutta gente che avrebbe voluto vincere il mio concorso, e invece si devono “accontentare” di questa posizione che li limita nella ricerca perché tutto il loro tempo va nell’insegnamento. Poverini. Che il loro posto lavoro diventerà, dopo un periodo di prova, un posto fisso, già non ci pensano più! Sono gelosi di ME. Per dire, quando li vedo nel corridoio e magari chiedo come va, tutte le volte – ma tutte le volte – mi rispondono che non riescono a fare niente perché devono correggere compiti, bla bla bla. Poverini!!! Pensate alle donne delle pulizie, quanto si divertono a spazzare via le strisce delle vostre cacche nei bagni, o a mettere a posto la cucina dopo che l’avete sporcata. Pensano di farmi sentire in colpa, ma sbagliano. C’è chi vince un concorso e c’è chi non lo vince. Get over it.
E mentre mi faccio queste paranoie per il corso che si avvicina, mi becco un ultimo incubo. Mi trovo proprio all’università, davanti a una classe di scozzesi. Sono nervosa, ovviamente, e non mi ascoltano. Mi arrabbio, gli punto il dito contro e dico: “E se non fate quello che vi dico, scriverò un raccontino su di voi!” O mamma mia. Questa storia mi è entrata nel fegato.
Tra parentesi, vi rammento che ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale. Mi raccomando. Buon Natale a tutti.
editing by Beatrice Nefertiti
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