di Endriu
Devo iniziare questo nuovo anno chiedendo scusa. Non è un bell’inizio. O forse sì, anzi, così comincio con una tela bianca. Mi devo far perdonare. Ecco allora: chiedo scusa al governo britannico per aver descritto il porridge, in un racconto precedente, come “piatto di vomito scaldato”. Dopo la pubblicazione del racconto incriminato mi sono arrivate decine di lamentele e addirittura una minaccia di querela per diffamazione, mentre l’università scozzese dove ho iniziato a lavorare tre mesi fa mi ha ufficialmente rimproverato per averne compromesso l’immagine. Malgrado il referendum sull’indipendenza (dall’Inghilterra), gli scozzesi si sono schierati con i loro arcinemici, superando il proprio nazionalismo in difesa dell’amato piatto di prima mattina oltremanica (dovete sapere che il porridge è più gettonato come colazione in Scozia che in Inghilterra) e racimolando un’alleanza destinata a morire al primo scontro. Ma intanto si sfogano. Non avendo di che parlare si sono appassionati alla mia grande offesa. La mia coinquilina mi ha mandato il link di un video su Youtube dove ne parlano addirittura su un canale locale, in una specie di talk show pomeridiano stile Mediaset, con tutte queste casalinghe scozzesi indignate. Una di loro si era pure portata dietro la bandiera scozzese, e quando la presentatrice la voleva interrompere si è alzata in piedi urlando mentre gesticolava infuriata con un mestolo per poi perdere il filo del discorso, ma il pubblico l’ha applaudita lo stesso. Un branco affamato di vendetta. Per fortuna che la Gran Bretagna è messa un po’ meglio rispetto all’Italia, a metà strada rispetto al cinquantasettesimo posto dell’Italia nella classifica per la libertà d’espressione. L’Olanda? Al secondo posto, dopo la Finlandia. Siamo troppo avanti.
E mentre si scatena questa patetica tempesta sulla mia vita io mi rifugio sul continente, prima in Italia poi in Olanda, nella casa dei matti (i miei). Un’esperienza, quest’ultima, infinitamente più pesante rispetto al caso porridge, e che dunque relativizza tutto, così alla fine ne esco meno distrutta del solito. Anche perché la musica è sempre quella: mio padre che per noia si fa i cazzi degli altri, mia madre che per noia non si fa i cazzi suoi. La differenza è sottile ma significante. C’è una novità: lei si è buttata in un nuovo progetto di maxipulizie, una delle sue grandi opere. ‘Grandi’ per colpa di lui che riesce ogni giorni a rendere la casa degna di una puntata di Sepolti in casa. Le prime grandi opere le fece tanti anni fa, pagandole care – mio padre non butta nemmeno le buste di estratti bancari di trent’anni fa (le BUSTE, non gli estratti) – e con il suo temperamento da cane rabbioso, se gli tocchi anche solo uno spillo potete immaginare il casino.
La prima grande opera fu lo sgombero del garage: mio padre aveva improvvisato una specie di mini-soffitta dove ficcava qualunque cosa che trovava in giro. Chissà se può servire un giorno? Non serviva mai, eppure lui raccoglieva, archiviava, poi dimenticava ciò che aveva archiviato, e restava lì. Se non fosse intervenuta mia madre, complice mio fratello, un giorno il solaio sarebbe venuto giù schiacciando la macchina, e sarebbe stato il dramma del secolo. Non che fossimo poveri, ma per mio padre ogni spicciolo speso era come una costola strappata. Lo shock di tornare a casa con il suo prezioso pseudo-soffitto eliminato, e con esso tutta la robaccia che per anni aveva vissuto là dentro, era troppo. Piuttosto che ringraziare sua moglie per aver fatto tutta quella fatica è scoppiato dalla rabbia, facendo lo sciopero della fame per una settimana per poi andare in giro a dire alla gente che sua moglie non gli dava da mangiare. Fare la vittima quando, in realtà, sei tu lo stronzo è la difesa migliore.
E ora è toccato al piano superiore: mia madre ha deciso di svuotare la stanzina della nonna defunta trasportandovi la contabilità della casa, che da sempre riempie gli scaffali della mia vecchia cameretta, che vuole usare come deposito dei vestiti invernali o primaverili (a seconda della stagione) che attualmente risiedono nel soffitto. Unico problema: la nostra contabilità è un incubo, piena di cose inutili: assicurazioni scadute, buste vuote, scarabocchi su pezzi di carta strappati quarant’anni fa, faldoni vuoti, bollettini consumati, scontrini di supermercato sbiancati, attestazioni illeggibili, e tanti tanti fogli tormentati dal tempo. Povera mammina, mi fa pena vederti arrabbiata per qualcosa che fra cinquant’anni sarà disgregato e sparito dalla faccia della terra. La vita è troppo breve per rompersi la testa con queste banalità, ma purtroppo lei non se ne accorge. Forse perché non ha mai veramente assaporato la vita, quella vera, o non ne ha memoria. Passare quarant’anni con un uomo che pensa solo a risparmiare e a non buttare niente per non dover mai comprare niente di nuovo, ti condiziona. E l’unica passione, oltre a quella di rendere la casa bella e sterile come se non ci vivesse nessuno dentro, sono io. Ora che sono lontana le manco più che mai, e questa volta me l’ha anche detto, stracciandomi il cuore già comprovato dal Processo. Mi sono preoccupata: non è mai stata quel tipo di madre che si esprime, a livello intimo, voglio dire. Non siamo come le famiglie americane in TV che dicono in continuazione che si vogliono bene. Non ci siamo mai parlati, non ci hanno mai parlato, i miei, in quel modo. Certo non mio padre che vuole più bene agli amici e alle vecchie conoscenze che alla propria famiglia, ma nemmeno mia madre che pure è cresciuta con due fratelli affettuosi, una mamma severa ma buona e un babbo che passava gran parte del suo tempo nei pub cecoslovacchi. Ma non per ubriacarsi. Quando guardo la foto seppia del nonno vedo un bonaccione, un uomo semplice e puro – con uno sguardo dolce e innocuo – che amava la moglie e i figli, e basta. Cosa si vuole di più? Anche la nonna è bella, ma bella proprio. C’è una foto dove sembra una dea del bosco: indossa un vestito semi-trasparente, bianco e lungo, morbido, come i capelli castani che cadono a boccoli sulle spalle. La foto la incornicia in tutta la sua figura snella ma in carne, immersa in uno di quei boschi incantevoli della Boemia. Faceva la maestra in una scuola elementare, e sarà stata per forza una mamma severa, ma comunque buona. Solo che lo bontà si è persa in mia madre, ed è rimasta soprattutto la severità, la rigidità, per colpe che non sono sue.
Negli ultimi anni, con l’età, si è raddolcita, forse anche perché a duemila chilometri di distanza non hai più da comandare sui propri figli, specie quando superano i trent’anni! Certo che ci ha messo un bel po’ a capirlo: quando tornai a casa per Natale, qualche anno fa, dovevo andare al cinema con un mio amico, in città. Fate conto, sono venti, venticinque chilometri da casa mia, e sarei tornata a casa per le undici, undici e mezza. Avevo trent’anni. Ecco, lei pretendeva che le lasciassi il numero di cellulare di questo mio amico! La mattina, a colazione, invece, mi tratta come se fossi colpita da amnesia: mi spiega, tutte le volte, dove trovare il pane, il formaggio, il latte, quante fette di pane devo prendere, quale bicchiere devo usare… Se esito un attimo, o mi fermo due secondi, parte subito l’interrogatorio: “Cosa cerchi? Cosa cerchi?”. Sarà che non mi vedono spesso, ma c’è un limite a tutto.
E ora è dunque diventata pure sentimentale. Vorrebbe che tornassi a vivere con loro o, al limite, nelle vicinanze. Ha pure tentato di corrompermi offrendomi il suo pianoforte a coda, se torno a casa. Sì, per seppellirmici dentro! Povera, si era già fatta i suoi viaggi mentali, proponendo di venire a pulirmi la casa mentre io vado al fantomatico lavoro… Immagino per scappare da mio padre, che però – non sapendo farsi i cazzi suoi – sarebbe venuto, tutte le volte, a cercarla a casa mia, così me li sarei trovati in casa sempre. Un pianoforte non sarebbe bastato come nascondino…
Ora so che a voi italiani tutto questo non sembra così sconvolgente. So che in Italia è comune che i figli restino in casa fino ad una certa età, e a volte fino alla morte (improvvisa o provocata, se dobbiamo credere alla cronaca) dei vecchi, soprattutto in questi tempi di crisi. Eppure, dopo una certa età bisognerebbe liberarsi. Bisogna sfuggire, andare a studiare all’estero, a lavorare, o magari hai una nonna che ti lascia centomila euro e ti compri una casa. Lontana dai tuoi, però. Bisogna liberarsi.
Ma ogni tanto ti tocca comunque tornare. Questa volta mi sono premunita seguendo il consiglio della mia parrucchiera. Un consiglio molto saggio: assecondali, poi fai quel cazzo che ti pare. È vero che ho sempre contestato e contrastato, o semplicemente mi irritavo per le loro isterie, ma senza esito. Sono troppo convinti di avere sempre e comunque ragione, fosse solo perché sono più grandi di me. Dargli ragione, però, è stata una rivelazione. Mi sentivo molto più leggera. Certo li trattavo un po’ come dei poveri scemi, ma ha funzionato. Grande la parrucchiera!
Quando rientro in Italia comincio, tuttavia, a godermi finalmente la pausa natalizia. Senza i tormentoni di mio padre, senza lo stress di mia madre, senza i loro litigi per il nulla. Solo io con i miei mici, e il micione. Mi concedo qualche ora di sonno in più, e per la Befana abbiamo fatto una gita nell’Oasi del Delta, vicino a Molinella, a guardare l’acqua immobile e il cielo intensamente blu. Una nutria spunta fuori dall’erba, di fianco al nostro sentiero, ci guarda con un mix di sospetto e curiosità, valuta, poi scompare nella paglia dall’altro lato del sentiero. Il mondo sembra dormire, una pace eterna pizzicata solo da uno stupido aereo che va avanti e indietro. Qualche assessore arrivista si sarà inventato una nuova rendita per il territorio: i tour panoramici dell’Oasi. Mi rattristo, non tanto per l’Oasi ma per l’aereo: mancano pochi giorni, poi mi toccherà tornare nel paese dell’asfalto perennemente bagnato.
Vi rammento, di nuovo, che ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale. Mi raccomando.
editing by Beatrice Nefertiti
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