di Endriu
Lasciamo per un attimo il turbolento presente e torniamo in Via Irnerio, nel mitico palazzo signorile sull’angolo con via del Borgo di San Pietro. I due anni che mi ci sono soffermata non li ho comunque passati soltanto a litigare con le zitelle marchigiane. Gran parte del mio tempo l’ho impegnato anche a cercare, inutilmente, lavoro. Stavo prendendo la terza laurea, ritenendomi furba per aver accumulato tanto sapere da conquistarmi senz’altro un lavoro, ma questo vale solo per i bei film hollywoodiani. Intanto per arrivare a fine mese serviva denaro, anche perché dovevo dimostrare ai miei che sapevo cavarmela da sola. Non vedevano l’ora di vedermi tornare nella cuccia e riassoggettarmi ai loro diktat. Una strada senza ritorno, tutto sommato, e qualsiasi cosa mi andava bene! Beh, non proprio qualsiasi. Quando una delle venti agenzie di lavoro a cui mi iscrivevo settimanalmente mi propose di andare a fare un corso di formazione in Sicilia, per diventare segretaria in un’azienda metalmeccanica, beh, confesso di essere stata choosy. Un’unica volta però. Purtroppo era anche l’unica volta che un’agenzia mi fece una proposta di lavoro. Quante fototessere sprecate, quante firme fatte su moduli messi via ancora prima che avessi chiuso la porta dell’agenzia dietro di me.
In effetti, andare in agenzia divenne un tormentone. Quando mio marito, all’epoca ancora in fase di corteggiamento, mi mandava gli sms per sapere che cosa avevo in programma per la giornata gli rispondevo, come un mantra: vado in agenzia, faccio lezione d’inglese, faccio fitboxe… Per un po’ mi sono effettivamente buttata sullo sport: l’università aveva una convenzione con una palestra, così ho tentato di imparare a giocare a tennis, un grande fallimento anche per via di un mio debole per l’istruttore che mi rendeva ancora più maldestra e incapace di imparare qualcosa. Passai allo spinning, che si fa sulla bicicletta e con la musica, più consono alle mie origini olandesi, per chiudere con il fitboxe. Mi piacevano quei movimenti ritmati ed energici, ripetitivi e ipnotici, uno due tre quattro – diretto!
Con le agenzie di lavoro, invece, non si avanzava mai, e così ho iniziato a mettere gli annunci su internet. Le traduzioni non mi avevano portato fortuna, come abbiamo visto con Kris, il truffatore belga che mi ha scroccato una traduzione prima di sparire dalla faccia della terra, lasciandosi dietro debiti e stipendi mancati ad alcune povere studentesse di lingue. Basta, ho detto, da ora in poi solo lavori da interprete, nelle fiere, pagati subito! Cominciai, da brava olandese ingenua, con la mia iscrizione sul sito di BolognaFiere, nel solito campo Lavora con noi. Chissa quanti ragazzi hanno lasciato i loro dati su quella pagina… Ma io pensai, sì però io so tante lingue, inglese, francese, tedesco, ceco, pure un poco di spagnolo e qualche parola di russo. Mi fanno sempre i complimenti, gli italiani, quando scherzano che loro manco sanno l’italiano! Invece niente. Lasciai il curriculum più di una volta ma lo schermo mi guardava sempre allo stesso modo: eh beh? Mo’ che vuoi, che ti chiamiamo? Ehh sse! E così iniziai a frequentare l’ufficio Carriera dell’Università, per gli inutili corsi di formazione e soprattutto per le consultazioni, specie sul lay-out del curriculum o sulle infinite formule di cortesia con cui riempire le lettere di presentazione che nessuno legge mai. Una volta mi sono pure fatta analizzare la scrittura, da una specie di psicologo che ti spiegava – in base al tuo modo di scrivere – che caratteristiche buone e cattive si potevano dedurne e come migliorare, nel caso ti facessero fare una prova di scrittura durante un colloquio di lavoro. Tanto per non farmi mancare nulla.
E nulla successe, finché una delle ragazze che lavorava nell’ufficio si impietosì di me e diede un colpo di telefono a una sua amica che lavorava proprio alla Fiera di Bologna. Mi ha raccomandato, insomma. Ma non mi importò: sarebbe stato il mio piede tra i preziosi portoni della Fiera, finalmente, se non fosse che mi chiamarono proprio quando ero fuori Bologna. Così persi, un’altra volta, il giro. Non ero choosy, ero proprio sfigata. Ho però avuto una seconda chance, poco tempo dopo. Avevo conosciuto un gruppo di ragazzi con cui andavo a camminare in montagna, ogni tanto, e una di loro – Alena, una signora quarantenne di Praga – lavorava proprio in Fiera. Ci era entrata grazie alla sua ostinata perseveranza e all’inventiva tipica dei popoli dall’Europa centrale in poi, quella di non star lì a guardare ma di fare, di cercare. Andava in Piazza della Costituzione, qualche giorno prima di ogni fiera, a girare per i padiglioni dove si stavano montando gli stand chiedendo se cercassero una hostess-interprete, mentre si aggirava tra le battute maschiliste degli operai. Ma il suo impegno pagò, e si fece una piccola clientela che la chiamava ad ogni visita a BolognaFiere. Ci mise anche la sua femminilità, conoscendo ormai bene le regole del paese, senza mai concedere più di un’innocente cena di fine fiera. Una volta ha dovuto dare buco per Lineapelle, la fiera della pelle italiana, e mi chiese di sostituirla. È stata la prima, emozionatissima volta che misi piede nel santo sacrario della Fiera, ma anche l’ultima. Non avrei mai potuto, né voluto, rubare i clienti ad Alena, anche perché il vecchio padrone dell’azienda per cui feci l’interprete, quella volta, aveva un debole per lei. E io a girare per i padiglioni vuoti, in mezzo ai fischi degli operai, a mendicare un lavoro, non mi ci vedevo proprio. Eh sì, quella volta sì che sono stata un po’ choosy.
Tentai dunque in rete. Molto più comodo spedire annunci da dietro la scrivania, tra un capitolo di tesi e l’altro! Purtroppo non avevo ancora perso quell’ingenuità che mi aveva portato ad incontrare il padrone maialone del nightclub – all’inizio della mia avventura italiana – che finse di avere una stanza in affitto per farsi un’olandese. Quella stessa ingenuità che mi convinse a fare la traduzione senza che Kris mi avesse dato una qualsiasi garanzia di pagamento. Eh, diciamo che ho la testa dura. E così ci è voluta un’ultima lezione.
L’annuncio non mi sembrava ambiguo. Offresi hostess-interprete per fiere, conoscenza lingue, bella presenza, una cosa del genere. La bella presenza l’avevo messa solo perché la vedevo negli altri annunci. Pensavo che volesse dire, semplicemente, che una sia vestita bene, con capelli puliti, schiena dritta, magari un paio di tacchi… Non mi rendevo conto del valore delle parole! E così cominciarono a chiamare. Io tutto contenta che finalmente qualcosa si muoveva, anche se non arrivavano richieste di lavoro da interprete, ma avevo fiducia. Quando iniziarono a chiedermi delle foto senza poi richiamarmi iniziai a capire qualcosina. L’epifania venne con una serie di chiamate che andavano di male in peggio.
Il primo aveva una voce da uomo vecchio e grasso, e voleva che andassi con lui in Svizzera a fare l’interprete per un’azienda. In macchina ci dovevamo andare. Ehh sse! Per tornare cadavere nel cofano?! Un altro sembrava più serio, inizialmente, facendomi domande sulle mie competenze linguistiche. Poi il colpo di genio: prima di decidere se mi prendevano voleva farmi un piccolo sondaggio. Visto che la fiera per la quale cercavano una ragazza era quella dell’intimo, il sondaggio riguardava le mie preferenze in quell’ambito, tipo che taglia di reggiseno portavo, che colore di slip mi piaceva di più, slip o perizoma? Da cogliona gli rispondevo, sempre più incredula, ovviamente, ma senza il coraggio di mandarlo a cagare. Infine, mise giù il telefono lui. Dopo la domanda dello slip. Così, senza una parola! Neanche un “Grazie Le faremo sapere”, giusto per chiudere la truffa in stile. Tuu-tuu, tuu-tuu, tuu-tuu… Ma pensa te. Avevo proprio sbagliato tutte le risposte? Che gente di merda.
Poi finalmente mi sono incavolata. Ci stava di nuovo girando intorno e allora mi arrabbiai. Dissi: “Guarda io sono disponibile a lavorare come interprete, seriamente, se cercate una fotomodella avete sbagliato a chiamarmi!” Ma il più bello è stato l’ultimo. Parte tutto seriamente, quante lingue parla, ha già fatto l’interprete prima, bla bla. Arriviamo al dunque: mi chiede se sono disposta anche a venire a cena con il cliente e cose del genere. Mi rompo. Gli dico di non farmi perdere tempo, che sono disposta a fare l’interprete e basta, che so le lingue. Lui mi fa: “Ma Lei sa leccare?” Stavolta butto giù. Ho ufficialmente superato la mia ingenuità.
Dopo questo tormentato percorso nella ricerca di un lavoro a BolognaFiere potete immaginarvi il mio sconcerto quando un giorno becco Enza, la punkabbestia con cui ho condiviso una stanza per un anno, che si prepara per andare “a lavorare in Fiera”. Ehh??? Rimango di stucco. Enza non sa altro che l’italiano punkabbestico e tre parole di spagnolo, eppure l’hanno preso a BolognaFiere? Mi crolla il mondo addosso. Abbiamo litigato e non ci parliamo più, così non le posso chiedere dove e come, ma brucio dalla curiosità di sapere, visti anche i miei penosi tentativi di entrare in Fiera. Nemmeno Mara ci può credere, ma lei non sta cercando lavoro, la sua è semplice gelosia da zitellona acida. Si mette dunque a indagare, e alla fine viene fuori che Enza va a lavorare nella fiera della droga, una specie di raduno di amanti del fumo che non c’entra nulla con LA Fiera. Meno male! Mi sentivo già un cesso totale. E mi viene da ridere quando ripenso alla faccia di Enza quando mi disse, seriamente e con aria snob, mentre si metteva qualche crema sui capelli, che stava andando a lavorare in Fiera. Figlia mia mettiti in fila!
Vi rammento che ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale. Mi raccomando.
Editing by Beatrice Nefertiti
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