di Marco Candida
Nello scrivere i testi precedenti al presente dai titoli “Controriforma delle religioni New-Age” e “Eresie simpatiche ed eresie non” mi sono accorto rileggendo di aver utilizzato in alcuni passaggi concetti e persino sintagmi elaborati in anni di studio dal Professor Roberto Celada Ballanti. I pensieri sono miei, ma in alcuni passi il brodo alfabetico-concettuale è suo. Non l’ho fatto di proposito. Nell’affrontare alcuni temi mi è riaffiorato, quasi naturaliter, quel modo di esprimersi. È interessante perché la stessa operazione feci tra il 2004-2006 allorché scrissi il mio primo romanzo (La mania per l’alfabeto). Alcune citazioni vengono da un libro di Karl Jaspers (Genio e Follia, con introduzione di Umberto Galimberti) filosofo di cui il professor Celada è studioso. Mi interrogo se ci sia una ragione più profonda di quelle apparenti e banali, e penso il gesto di rifarsi alle asserzioni di un professore di filosofia (in due anni di Liceo Classico ho riempito di discorsi del Professor Celada blocchi su blocchi di appunti: per capirci, del Professor Celada, negli anni di seconda e terza Classico, annotavo anche i colpi di tosse) sia stato il gesto di chi cerca rifugio in una parola solida, cogente sentendo di trovarsi in mezzo a un mare d’incertezza. Quando scrissi La mania per l’alfabeto ancora dominava la scena (assieme al cosiddetto movimento “Under 25”) il movimento letterario dei Cannibali. Cannibali e New Age, piaccia o meno, qualcosa in comune hanno. Schematizzando (e non si dovrebbe), se la New Age è una corrente religiosa sbrilluccicante costruita con i pezzi più fantasiosi di altre religioni, i Cannibali era un movimento letterario che si faceva vessillo di tutta quanta la plastica delle altre letterature. Così, quando a venticinque anni arrivò il mio momento di scrivere, di far sentire la mia voce, mi aggrappai in modo naturale all’unica parola salda che mi era stata trasmessa. E questa parola era la Filosofia, e questa parola veniva dalle parole del mio professore di Liceo (ora professore universitario) Roberto Celada Ballanti.
Dico queste cose per introdurre una parte importante del presente, conclusivo intervento in tema di pluralità di culti iniziatico-esoterici. Ovvero: che cos’è la coscienza. In un titolo di un suo intervento il Professor Corrado Malanga (già citato nel primo scritto “Controriforma delle religioni New-Age”) va diritto al cuore della questione tanto che basterebbe il solo titolo (qualità dei grandi pensatori) senza nemmeno bisogno dell’intervento. Nel parlare di “coscienza” Malanga mette un trattino e parla di “co-scienza”. Ossia: la parola “coscienza” contiene in sé l’idea di “scienza”, di “scientificità”, di “cogenza” (termine caro al Professor Roberto Celada Ballanti). Il termine “co-scienza” sembra contenere in sé l’idea di “presa di coscienza”. “Co-scienza” è innanzitutto “prendere coscienza”. Sicché, “prendere coscienza”, potremmo dire, sulla base del vocabolo “co-scienza”, significa, per prima cosa, stabilire una “regola”, significa giungere a un approdo stabile, definitivo. Quando avviene la presa di coscienza? Quando ci accorgiamo di ciò che stiamo facendo e sappiamo farlo e rifarlo sempre. Ad esempio, posso fare canestro a basket perché sono bravo. Ma sono un professionista, o addirittura un campione, se capisco quali movimenti e posture delle gambe, del bacino e delle mani mi consentano di andare a segno sempre, o quasi sempre, e persino quando capisco per quale ragione non sia riuscito, in una specifica occasione, ad andare a segno, a fare canestro. La “coscienza” è accorgersi dei movimenti che facciamo quando facciamo qualcosa.
Scrivere è lo spazio per antonomasia della “presa di coscienza”. Non esiste luogo migliore dove far accadere la “presa di coscienza”. Dove la coscienza sia all’opera. Ma la coscienza, forse, non è tanto quel flusso che siamo abituati a pensare a partire dai grandi scrittori del Novecento: Proust, Joyce, Faulkner. Piuttosto si ha coscienza quando il flusso si ferma. Quando dal flusso esperienziale espresso nella coscienza traiamo regola. Anche per l’atto stesso della scrittura è così. Pensiamo alla riscrittura. Riscrivere significa definire meglio ciò che vogliamo esprimere. Scrivere è andare alla ricerca, cercare di scoprire ciò di cui stiamo parlando. Siamo convinti che per scrivere sia necessario avere qualcosa da dire. Anche gli antichi lo dicevano: “Si rem tene verba sequentur”. Ma la faccenda, forse, è assai più profonda e complessa di così. In fin dei conti, scriviamo per scoprire, insieme al lettore, che cosa abbiamo da dire su un argomento. Per scoprire di che cosa stiamo parlando. La domanda che s’impone, quando si scrive, è sempre una: di che cosa si parla?
Domanda non semplice. Di fatti, nella società dei consumi si tende a sostituire questa domanda così elementare, ma in un certo senso urticante, con un’altra domanda: perché si scrive, o meglio ancora, nella società dei mercati, si scrive per chi? C’è bisogno di un destinatario e il destinatario dà forma al messaggio. Ma così, scrivendo per un destinatario, è come se anziché descrivere la cosa stessa di cui intendo parlare, descrivessi il destinatario. Operazione che si fa spessissimo. Nella quasi totalità dei casi, i prodotti letterari non si occupano di un argomento, quale che sia: parlano di te. L’argomento è solo uno specchio per farti contemplare la tua immagine: un’immagine nella quale tu possa riconoscerti senza provare mai realmente vergogna. E tuttavia, d’accordo: nello scrivere i precedenti testi (“Controriforma delle Religioni New Age” e “Eresie simpatiche ed eresie non”) anch’io mi sono posto la domanda sul perché e a chi scriverli. Quale fondamento, quale legittimazione, a prendere la parola. Così, per legittimarmi a parlare, sono ricorso, nella figura della Maddalena, all’autobiografismo. Per indurre il lettore a pensare che tutta quella roba la scrivessi, in fin dei conti, per giungere ad alludere a situazioni reali, situazioni mie, personali. In realtà, l’autobiografismo altro non è che forma di autolegittimazione per affrontare argomenti molto grandi (che sono la quasi totalità) difronte ai quali siamo molto piccoli. Pensiamo alla grande pittura. Ai grandi pittori. Anche i grandi pittori dipingevano nelle grandi figure volti famigliari. Perché in quanto grande pittore, il grande pittore per primo sa di non essere all’altezza dei suoi soggetti. Così, li familiarizza. Li fa diventare pretesto. L’autobiografismo è forma di autolegittimazione. E se devo pensare per chi ho scritto queste cose: le ho ovviamente scritte per la creatura il cui futuro mi sta più a cuore. Lei è ormai l’unica inerzia della mia vita. La scomparsa di Lorenza almeno una cosa me l’ha insegnata: che continuiamo a essere quello che siamo, anche senza le persone che ci facevano essere, o così credevamo, quello che siamo. Non sono gli altri che ci fanno essere quello che siamo. Siamo quello che siamo, al netto di tutte le frottole che ci raccontiamo in proposito, perché noi vogliamo esserlo. Così, in questi mesi ho trovata la forza di interrompere un’inerzia che è presa dalla mia vita e a imprimerle un nuovo senso di rotazione escludendo dalla mia vita molte persone. Lorenza me l’ha insegnato. Puoi fare anche senza loro. Non è per loro che fai quello che fai. Non è vero che c’è bisogno di pubblico. Non c’è bisogno di destinatari. Le cose si fanno per sé stessi. Se scrivo è perché io lo voglio e voglio scrivere quel che io voglio e non quello che vogliono altri. Se posso continuare a scrivere senza Lorenza (la cui presenza alimentava continuamente in me il fuoco per la scrittura, e la mia creatività), posso farlo anche senza tante altre anime intorno. Ma, sgombrato il campo da queste domande, la domanda più difficile resta: di che cosa sto parlando?
Affrontare criticamente il tema dei culti esoterici significa in realtà porre a tema qualcosa d’altro ossia se sia possibile o meno il dialogo interreligioso. Forse al Professor Roberto Celada Ballanti, e agli studiosi di queste questioni, non piacerà, ma l’esoterismo sembra a me, che rimango profano (e del Professor Celada Ballanti ricordo lezioni sulla Critica del Giudizio di Kant, e sul pregio di presentarsi come estranei rispetto al contesto di una disciplina – nella fattispecie, per Kant, nella Critica del Giudizio, l’estetica –, per affrontarla con sguardo più distaccato, e nuovo, disancorato da retoriche interne, e interessi di consorteria) il tentativo di realizzare tale dialogo. Certo, dialogo interreligioso e sincretismo, secondo le definizioni, sono concetti diversi. D’altro canto, anche l’espressione “dialogo interreligioso” appare densa di criticità. Pare darsi per scontato, ad esempio, nell’espressione “dialogo interreligioso”, esista un solo “dialogo” ovvero dialogo pacifico. In realtà, esistono forme plurime di dialogo. Dialoghi dove nessuno arretra dalle proprie posizioni. Dialoghi pieni di conflitto. In più, le tre grandi fedi oggetto del dialogo interreligioso sono le tre grandi religioni monoteiste: e se il monoteismo non è forma evidente non di dialogo bensì di monologo, allora non si sa a questo mondo cos’altro lo sia. Certo, non il solo monoteismo è forma di monologo. Anche i politeismi, benché forse non siamo più abituati a pensarlo, sono forme di monologo. Perciò, è caratteristica intrinseca della religione tutta porsi come discorso unico, inaccessibile. D’altra parte, va notato, nel monoteismo cristiano il dio non è una monade. Né una triade. La Dottrina Cristiana propugna l’idea di Trinità e non di Essere Triadico. Ovvero se fosse “triade”, sarebbe chiusura. Trinità invece indica apertura. E Cristo si è incarnato e ci ha fatto dono dello Spirito Santo. Perciò, il monologo posto in essere dal monoteismo appare, almeno nel caso del Cristianesimo, pieno di aperture. Di tentativi di dialogo. Per continuare con la metafora, il Cristianesimo appare come monologo con il quale è possibile dialogare. Anche per la sua natura costitutivamente, potremmo dire, eretica, deviante. Gesù Cristo non ha lasciata scritta, infatti, al pari di Socrate, una sola parola. Riguardo ciò, prima di affondare la lama come faremo tra poco, si noti quanto l’opera di Platone e dei Vangeli tragga dall’oralità di Socrate e Gesù senso, legittimazione: un libro si scrive per testimoniare su chi libri non ha scritto. L’esigenza di scrivere nasce da una oralità perduta. Invece, si è andata poi affermando, già dal Medio Evo con le grandi “Summae” (che porteranno Lutero, come spesso ripete Celada Ballanti nelle sue lezioni, a voler tornare “ad fontes”, alle fonti primigenie della Parola) per arrivare al Novecento, un’altra pratica: trarre opere da altre opere. Si capisce subito, anche così, che minore è la legittimazione. Perché mai Martin Heidegger trae, dall’opera di Husserl, Essere e tempo? Non bastava il sistema di pensiero husserliano? Gli esempi non si fermano certo qui. Tuttavia, pur riconoscendo questa legittimazione, i Vangeli sono stati messi insieme, ed ecco che, come anticipato, affondiamo la lama, da uomini. Santi, certo, ma uomini. E va notato, circa l’elemento della “santità”, anche Tommaso, ad esempio, era santo, ma ciò non è stato sufficiente lo stesso per il suo Vangelo a farlo includere nei Vangeli Canonici. Cosa diversa avviene invece per il libro dell’altra grande religione monoteista (assieme all’Ebraismo) ovvero l’Islam. Il Corano viene dettato dall’Arcangelo Gabriele a Maometto. I quattro evangelisti, per converso, benché ricolmi di Spirito Santo, non scrivono propriamente sotto dettatura. Perciò, da un punto di vista prettamente narrativo, questo elemento conferisce, forse, maggiore legittimazione al Corano rispetto ai Vangeli (dai quali, peraltro, l’avvento di Maometto deriva in modo simile a come l’avvento di Cristo deriva dalla Bibbia – in cui molte parti sono scritte sotto divina dettatura). Il Corano è effettivamente Parola di Allah. Ad ogni modo, pur con le aperture indicate, il dialogo interreligioso, si potrebbe dire, pretende di imbastire (dall’opera Teologia platonica scritta in pieno Umanesimo da Marsilio Ficino: nella quale opera Ficino realizza una pur suggestiva identità indebitamente generalizzata tra teologia biblico-cristiana-islamica e filosofia platonica-neoplatonica basandosi su un argumentum ad verecundiam poiché assume, Ficino, zoroastrismo, ermetismo e orfismo quali fonti veritative; e nella quale opera s’ignora qualcosa oggi sappiamo meglio ovvero che la presunta identità non riguarda tanto teologia e filosofia greco-cristiana, quanto teologia e mitologia greco-romana; pertanto, superbo merito reale di Ficino, a parer mio, rimane la cristianizzazione delle arti magiche realizzata nel concetto di “indiamento”) pretende d’imbastire, dicevamo, il dialogo interreligioso, una forma di dialogo tra monologhi. E in ogni caso, nel dialogo interreligioso, e nell’interculturalità, si dà per scontata, spesso, la relazione tra le parti debba essere pacifica. Del resto, Nicolò Cusano scrive sì il De pace fidei, ma coerentemente, teorizza anche (nell’opera De docta ignorantia, dalla quale espressione Marsilio Ficino potrebbe aver tratto, mi solletica pensare, l’espressione docta religio contrapponendola all’espressione pia philosophia) la coincidentia oppositorum. In altre parole, a Cusano era chiaro quanto il dialogo tra fedi e confessioni fosse per sua natura contradictio in adiecto. Pertanto, pone, Cusano, il Divino come coincidentia oppositorum e l’uomo teandrico dell’Umanesimo dovendo tendere alla perfezione divina deve altresì tendere necessariamente alla contradictio in adiecto realizzata nella coincidentia oppositorum divina. Cusano sapeva già; il suo genio è stato porre contraddizioni inconciliabili come cardine fondante alla base del suo stesso discorso. E inoltre, in relazione al dialogo interreligioso si dà per scontato l’oggetto del contendere sia la diversità di prospettiva; sebbene, a ben guardare, l’oggetto sia la contrapposizione verità ed errore. Infatti, in Teologia si parla di “Scienze Teologiche”. Ci sono elementi estremamente rigorosi nelle dottrine religiose. Perciò, non è, ripetiamolo, questione di differenze. Ad esempio, in un dialogo che si muova sul terreno di una “scienza dura” è più difficile tollerare, se non accettare, se non partire dall’errore altrui. Due più due fa quattro, per riprendere un paragone già presente nel dostoevskiano Uomo del sottosuolo, e non è semplice accettare l’altro sostenga faccia tre o cinque. Lo stesso vale per il dialogo intorno alle “scienze teologiche”. Questo, peraltro, il Professor Roberto Celada Ballanti lo sa; e infatti ha scritto un libro dal titolo Filosofia del dialogo interreligioso (Editrice Morcelliana) nel quale scompone la parola “dialogo” alla ricerca della traccia più autentica di questa forma di comunicazione tra le parti. Nondimeno, rimangono ombre; ed ecco riprendere quota, pertanto, il sincretismo. Con un rischio evidente. Per ricollegarsi alla parabola dei tre anelli contenuta nell’opera teatrale di Lessing Nathan Il Saggio (a cui il Professor Roberto Celada Ballanti ha dedicato lo studio La parabola dei tre anelli – Migrazioni e metamorfosi di un racconto tra Oriente e Occidente, Edizioni di Storia e Letteratura; si noti quanto ciò che per me era una piacevole quanto vaga reminiscenza degli anni liceali, per Celada è stato in tutti questi anni, mentre io mi limitavo a ricordare, oggetto di studi approfonditi) si potrebbe immaginare un’altra prosecuzione di questo racconto (similmente a quanto già fatto nel primo intervento “Controriforma delle religioni New Age”): e in questa prosecuzione, uno dei figli del mercante decide di indossare i tre anelli, facendoli fondere, in modo quasi da ottenere un pugno di ferro. Solo che questo gioiello se è vero doni più forza, impedisce nei movimenti. Cioè, le pretese sincretico-iniziatiche conferiscono sì più forza, forse, ma tolgono libertà. Chi cerca libertà dalle istituzioni religiose tradizionali affidandosi ai culti esoterici finisce in gabbie ancora più strette. E tuttavia, rimane il fatto che l’esoterismo (o ovviamente, un certo modo di intenderlo, senza perdersi troppo in distinguo) è il tentativo di realizzare quel dialogo interreligioso (poiché i confini tra sincretismo e dialogo interreligioso, come detto, da un punto di vista segnatamente pratico, sono labili) che fin dalle premesse sembra impossibile. Costruire ponti. Le più grandi aberrazioni, ai nostri occhi, nascono, anche oggi, con l’intenzione di costruire ponti. Gli esempi nell’odierno abbondano; ma per restare a religione e letteratura, basti pensare, ancora una volta, al movimento letterario Cannibali. Se un merito questo movimento l’ha avuto (posto in letteratura abbia senso parlare di merito: in alcuni casi sì, ma quando c’è merito non c’è bellezza, e men che meno c’è bellezza ove vi sia demerito) è stato porre a tema, similmente a quanto detto per la New Age con il dialogo interreligioso, il dialogo interculturale. Ossia la questione centrale posta dal movimento Cannibali, in ultima analisi, è: possono letterature alte e basse (in una forma di sincretismo artistico) coabitare e comunicare? Possono televisione e supermarket convergere in opere letterarie serie? Possono essere, all’interno di un’opera di alta qualità letteraria, veicolo di senso e di valore? Argomentare è inutile. Le risposte sono nelle opere letterarie stesse.
Ma forse nemmeno questo è il tema dei presenti interventi. Forse il tema del dialogo interreligioso e dell’interculturalità (che sta sotto al ganglio tematico dei culti esoterici) nasconde un argomento più profondo e complesso. Perché nascono, alla radice, le eresie? Perché Lutero? Perché Vestfalia? Per una questione di potere. E il potere ha due problemi con i quali fare i conti: al potere si chiede qualcosa e dopo un poco il potere… si vuole. Si chiede al potere un miglioramento della propria condizione. Ma questo non basta. Non basterebbe nemmeno se il potere riuscisse a soddisfarle, queste richieste. Dopo un poco il potere si avoca tutto a sé. Comportamento figlio di un paradosso: se riflettiamo, infatti, al potere chiediamo potere. Quando ci rivolgiamo al potere, chiediamo al potere di cederci quote di potere. E questa è un’altra grande questione: se il potere di tutti possa essere ancora, effettivamente, potere. Può il potere essere condiviso? Può il potere moltiplicarsi? Potrebbe, se il potere fosse potere magico. Un movimento delle mani, una bacchetta. Ma il potere degli uomini è legato a risorse mondane e le risorse mondane sono limitate. Non esiste, pertanto, potere illimitato. Di conseguenza, non esiste potere per tutti. Ed ecco, a ogni modo, dialogo interreligioso e interculturale manifestarsi immediatamente per specie di questo più grande discorso: il discorso del potere. Noi pensavamo di affrontare una tematica: quella del proliferare dei culti esoterici. Ma a ben vedere, i culti esoterici sono esempio di un altro argomento più vasto ossia il dialogo interreligioso – o sincretismo come specie deviata e deformata, certamente spuria, di tentativo di dialogo interreligioso. E il dialogo interreligioso stesso non è ciò di cui realmente stiamo parlando ma è solo esempio (e nella parabola dei tre anelli, del potere l’anello è simbolo) di un argomento ancora più vasto: l’argomento di che cosa sia il Potere, e di come gestirlo. La dispersione del sacro è conseguenza della volontà di avere per sé potere. Per gestirlo meglio. Più saggiamente. Ma comunque, averlo. Avere potere. Il tentativo di comunicare tra piani di letteratura differenti è il tentativo di appropriarsi di quel potere (nella forma di successo, popolarità) proprio della letteratura commerciale. Gestirlo meglio, certo. Ma comunque, avere potere. In tutto questo, non c’è reale libertà espressiva. Non c’è libertà. La libertà è un’ispirazione. Non una reazione. Tanta parte degli scrittori e delle scrittrici italiane, ad esempio, reagisce troppo sovente alle situazioni: mostra indignazione, oppone critiche. Non trae ispirazione. Invece, l’arte è libertà di rompere ogni schema, o anche solo di modificarlo.
Viene in mente la parte conclusiva (altro grande cavallo di battaglia del Professor Roberto Celada Ballanti) di Essere e tempo di Martin Heidegger. Essere e tempo è un’opera interrotta. La terza sezione Heidegger non ha potuto scriverla perché dopo aver parlato dell’essere dell’Esserci non aveva linguaggio per parlare dell’Essere in generale. Pertanto, il silenzio. Heidegger non ha saputo, o voluto, creare un linguaggio per parlare dell’Essere in generale. Per esprimere l’inesprimibile. Audacia questa propria dei poeti. In questo silenzio si potrebbe vedere (noi lo vediamo) l’invito implicito all’immaginazione. Ma la vexata quaestio allora è come fare a immaginare.
In un intervento quasi d’ispirazione divina (“divina” in quanto piovuta dall’alto, “divina” perché forse non del tutto consapevole) Dario Voltolini affronta una questione molto particolare: immaginare l’immaginare. Immaginare l’immaginare può a pieno diritto ascriversi al filone delle grandi questioni filosofiche quali domandarsi cosa sia l’Essere. Per essere più espliciti, il problema dell’Essere (simile alla posizione del problema dell’immaginare da parte di Voltolini) si potrebbe linguisticamente enunciare così: che cos’è l’è. Che cos’è l’è? Cioè nella riflessione filosofica il linguaggio arriva a torcersi così tanto su sé stesso da porre a tema una tautologia: anzi la madre di tutte le tautologie. Che cos’è l’è? Questo arrotarsi della lingua su stessa mostra, tra l’altro, quanto il linguaggio sia strumento spuntato difronte ai fondamenti e mostra, forse, anche un’altra cosa. Una cosa che Giorgio Pressburger ha affermato, forse in modo irriverente, oppure in modo molto meditato, nelle pagine iniziali del suo romanzo Don Ponzio Capodoglio (pubblicato da Marsilio) riprendendo proprio una definizione di Martin Heidegger. Giorgio Pressburger afferma: “Il linguaggio non è la casa dell’essere”. Heidegger aveva affermato che il linguaggio è la casa dell’essere. Ma Pressburger nega tutto questo; e nel commentare questo passaggio, in una sua video-lezione, Giulio Mozzi chiosa: non si può fare del linguaggio un idolo, tanto più che il linguaggio, aggiunge Mozzi, è traducibile. Il linguaggio si traduce. Così, viene da chiedersi, sulla scorta di quanto scritto da Pressburger e commentato da Mozzi, cosa a questo mondo sia intraducibile. E qualcuno, in effetti, questa domanda, se andiamo a vedere, se l’era già posta. Qualche secolo fa. Kant. Sono gli a priori kantiani le uniche entità intraducibili. Viene pertanto da chiedersi se la heideggeriana casa dell’essere non sia, in fin dei conti, costituita non dal linguaggio (quel linguaggio inadeguato, in Essere e Tempo, a esprimere l’Essere in generale) bensì dagli a priori kantiani. Potrà sembrare una conclusione fredda. Come si può parlare, infatti, allo spazio e al tempo? Come dialogare con gli a priori? Molto meglio una figura antropomorfizzata. E tuttavia, se ci pensiamo, nel gesto comunicativo non possiamo fare a meno – mai – degli “a priori”. In fin dei conti, non facciamo altro che esprimerci con “a priori”. Non facciamo altro che parlare di “a priori”. Crediamo non sia così. In realtà, altro non facciamo se non descrivere la gabbia nella quale siamo, come esseri finiti, imprigionati. Parliamo di “a priori” e gli “a priori” ci parlano. Ecco a cosa porta l’esperienza-limite della scrittura. Della rappresentazione. Ecco a cosa porta immaginare l’immaginare postulato da Voltolini, e naturale risposta alle pagine fantasma (ma così pregne) di Essere e tempo. L’esperienza-limite della scrittura (laddove la lingua si torca, prenda a pugni sé stessa, facendosi aporetica) porta a considerare il linguaggio come esperienza degli “a priori” kantiani non dissimile da qualsiasi altra esperienza attinta compiendo qualunque altro gesto. Spazio. Tempo. Categorie. Scrivere uguale giocare a basket.
Ognuno di noi, probabilmente, ha fatto esperienza di una situazione-limite in ambito della comunicazione. Per me una tale esperienza, il primo choc, reale, accadde prelevando, da uno scaffale di un supermercato, a sedici anni, un romanzo di Antonio Centanin. Venivo dalla lettura di opere disorientanti come quelle di Hemingway, di Faulkner (che non capivo) e di Stephen King (che poiché venivo dalla prosa geometrica di Frederick Forsyth e Ken Follett, non riuscivo, in fin dei conti, pur avvincendomi, a capire fino in fondo). Ma l’uso del linguaggio, in Antonio Centanin, (per me che sono, poi, del segno zodiacale della Vergine; e in questo contesto fare questa annotazione forse ha senso), ricordo mi destabilizzò in modo drammatico. Fu quello per me il trauma originario. L’incontro con l’inaccessibile. Con il mio esoterico. Non capivo come quel mucchio di frasi sconnesse e senza senso potesse stare insieme e trasmettere un senso così potente di arte e di bellezza. Non era bello ma era bello. Era pieno di scemenze ma era intelligente. In effetti, restai (essendo allora ignaro di John Cage e di Stockhausen, e delle teorie intorno a Luciano Berio; che fanno di Aldo Nove, innanzitutto, un teaser, il quale si serve del contesto artistico, si serve di una sorta di parodia del principio di autorità, non più solo per disorientare il lettore, ma per prenderlo quasi in gioco, pur con consapevolezza e intelligenza, costringendolo a riflettere sulle proprie capacità percettive del messaggio artistico e di ogni messaggio o presunto tale in genere) raccapricciato. Furono necessari tre incontri fondamentali per la mia vita al fine di ricucire quella ferita così profonda al mio sistema di certezze: e uno di questi incontri fu il Professore di Filosofia in seconda e terza Classico Roberto Celada Ballanti. Celada non parlava come gli altri professori. Aveva un suo linguaggio: aveva scavato uno spazio linguistico, e in quello spazio si muoveva quasi ossessivamente. Io non potevo fare altro, come detto, se non prendere appunti su appunti. Quel modo diverso di esprimersi mi sembrava oro e a parte questo mi stregava. Provavo a prendere appunti anche con altri professori, ma dopo un poco mi fermavo. Non funzionava. Celada nelle sue lezioni riproduceva uno dei gesti fondamentali del filosofare più autentico ovvero crearsi un proprio spazio linguistico. Trovai in questo, rileggendo Stephen King, una similitudine con il gesto artistico. E forte di questa connessione riuscii a fronteggiare, anni dopo, la persona a cui devo poi la mia introduzione nel mondo letterario ovvero Giulio Mozzi. Giulio aveva, e ha, due caratteristiche simili al mio professore di filosofia: una solida preparazione culturale in tema di filosofia oltre che di letteratura e affini e un modo di esprimersi (anche nel quotidiano) suo e solo suo. Fui in grado di reggere tutto questo, di capire Mozzi, grazie alla formazione ricevuta dalle lezioni nelle ore di Filosofia tenute da Roberto Celada Ballanti. Così queste tre figure (Roberto Celada Ballanti, Giulio Mozzi e… Stephen King – specialmente con Misery e Dolores Claiborne) mi permisero di dare senso a quelle poche manciate di pagine scritte da Antonio Centanin e lette a sedici anni.
Credo Centanin rappresenti un esempio di cosa sia immaginare l’immaginare. Qualcosa che Heidegger afferma quando parla di Poesia e Poesie. La Poesia istituisce un mondo. Alle Poesie per quanto brillanti manca questo elemento. L’istituzione di un mondo è appunto immaginare voltolinianamente l’immaginare. Non tanto raccogliere una serie di immagini, quanto creare un filtro di rappresentazione attraverso cui passare… passare un pantheon. Tale filtro di rappresentazione è atto essenzialmente linguistico. Centanin tra i Cannibali mi è parso quello che questo atto lo ha saputo compiere meglio. Alcuni Cannibali scrivono storie avvincenti. Altri sono pieni di intelligenza, genialità. Centanin però fa esplodere qualsiasi concetto alla base di qualunque cosa. Anarchismo puro. Cioè (se la filosofia è ragionare sulle “arcai”) anti-filosofia allo stato puro. Non esiste fondamento. Non esiste nulla. Tutto fluisce su un nastro analogico fino a quando il nastro s’incanta o si strappa – versione, se riusciamo a figurarcela, assai più inquietante del panta rei eracliteo. E questo è tutto. Immaginare è osare. Spingersi oltre. Non avere rispetto. Non credere. Forse nel far questo Centanin esagera. Ma di sicuro, grande letteratura e grande filosofia questa componente anarchico-rivoluzionaria l’hanno. Ma poi, in fondo, pensandoci bene, quando Cristo ci chiede di credere in Lui, e di non adorare idoli che sono, per loro stessa natura, falsi idoli, non ci sta forse chiedendo di compiere – altra grande vexata quaestio – un gesto anarcoide? E pensiamo, meno banalmente, anche al Dio Creatore di Cielo e Terra. Dio in quanto Creatore è più simile all’artista che ad altro. Cioè, Dio prima ancora del Potere possiede un’altra dote: il Talento. Forse questo è qualcosa su cui (almeno mediamente) non poniamo adeguata attenzione. Dio sa fare. Dio ha Talento. Lucifero si ribella al Potere di Dio. Ma quello che scarsamente consideriamo, nei discorsi sul Diavolo, è che Satana non sa fare un cazzo. Diavolo, Satana o Lucifero che sia non ha saputo creare nulla. Dio invece ha Talento; ed è Il Talento che fa gola, il Talento genera nell’altro, nei casi più negativi, senso d’impotenza. La capacità. La bravura. Il Potere è un surrogato sterile difronte al Talento. Al saper fare. Infatti, Dio possiede Talento e Potere. Il Suo Potere, si potrebbe dire, è fondato sul Suo Talento. Dio ha Potere su una Sua Totale Creazione. Perciò, l’arte, anche per il motivo appena brevemente accennato, ha molto a che fare con il discorso sul divino. E in ogni caso religione, filosofia e arte d’un tratto convergono: la religione seguendo la strada di una irrazionalità ritualizzata, la filosofia seguendo la razionalità e l’arte pasticciando e immaginando, in una buffa imitazione del divino. Si muovono però all’interno degli stessi orizzonti, dello stesso pianetoide. Il fondamento non è di questa terra. Il fondamento è trascendente.
Ecco. Siamo alla fine. Ovviamente, le dovute scuse al Professor Celada per aver parlato di lui in modo così esteso e probabilmente, anzi, sicuramente impreciso. L’invito è seguire il Professor Roberto Celada Ballanti, ascoltarlo, soprattutto dargli fiducia. Le sue opere o opere come le sue non dovrebbero mancare in nessuna libreria – comprese le librerie esoteriche. E chiedo scusa ad Antonio Centanin e ai Cannibali: il discorso fatto è solo uno dei discorsi possibili, non certo l’unico. I Cannibali sono esempio limpido di sincretismo artistico e dialogo interculturale. Di postmodernismo. Nel postmodernismo la relativistica mancanza di prospettiva storico-storicistica del sincretismo artistico (che è invece propria del dialogo interculturale) incontra una contraddizione fondamentale, mi pare, nel linguaggio. Centanin (il quale tiene peraltro corsi di scrittura che hanno a oggetto la tradizione letteraria italiana) e i Cannibali fondono a-storicisticamente e anarchicamente tutto quanto possono: ma lo fanno operando all’interno della lingua italiana. E la lingua italiana ha regole e la lingua italiana ha tradizione. Pertanto, come si vede, uscire dalla Storia, uscire dal linguaggio, immaginare voltolinianamente l’immaginare non è semplice: e Heidegger in Essere e tempo, lo aveva probabilmente capito. Heidegger aveva compreso che noi tutti, tutti noi (culture diverse, religioni differenti, schieramenti contrapposti…) abbiamo molte più cose in comune di quanto pensiamo: e andare alla ricerca di tratti comuni pur partendo da posizioni radicalmente differenti rimane sempre più semplice che cercare di non avere nulla ma proprio nulla a che spartire l’uno con l’altro. Heidegger nell’andare alla ricerca di un ideale di purezza assoluta per comunicare, in Essere e tempo, l’Essere in generale si era reso conto che l’uomo vive per sua stessa costituzione (e questa mi pare, tra l’altro, una presa di “co-scienza” potentemente, genuinamente germanica) una condizione meticcia, ibridata, contaminata. Perciò, il silenzio.
Silenzio che chiediamo anche noi al termine della lettura di questi tre interventi. Chiediamo di capire che se in questi tre interventi sono state cedute quote di sapere così importante è perché altre acquisizioni ben più rilevanti nel frattempo sono giunte. Chiediamo non una reazione (di scorno o di entusiasmo; ciò che abbiamo indicato non come una qualità ma come limite di scrittori e scrittrici d’Italia), ma piuttosto (chiediamo) una digestione. Mandare giù come bocconi quanto letto, in silenzio, cercando con la bocca di far meno rumore possibile.
Grazie.
Immagine di copertina: Ettore Goffi, Immago in dialogo, olio su tela, cm 80×60
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