di Margherita Merone
Non solo la teologia e la letteratura hanno trattato la figura di Gesù, ma anche la filosofia, con risultati interessanti. Ci troviamo da una parte di fronte ad una visione razionalista che distrugge la verità dell’incarnazione; dall’altra, alla valorizzazione di un cammino filosofico che volge l’attenzione al Logos che si è fatto carne, proprio del cristianesimo.
Dai Padri apologisti in poi si è cercato di mostrare i punti di contatto ma anche di distanza tra logos umano e Logos cristiano. Tutto quello che non era mai pensabile all’interno della cultura classica, ossia che l’Assoluto potesse entrare nella storia attraverso l’evento di Gesù, il cristianesimo è stato invece capace di affermarlo, reinterpretando la dottrina classica del “logos”. Si delineò il Logos eterno, il Verbo di Dio che si è incarnato, mostrando una filosofia in grado di confrontarsi con la fede e allo stesso tempo una fede compresa meglio nell’impatto col logos, col pensiero umano. Il Logos divino è colui che trascende il mondo e la realtà, entra nella storia ma non perde la sua assolutezza, la sua trascendenza, la perfezione; non è il rivelatore della ragione, è il rivelatore del Padre. La filosofia ha così di fronte una questione difficile, il rapporto tra l’eternità e il tempo, l’infinito che senza togliere nulla della sua identità si fa finito, Dio che si assimila agli uomini senza perdersi nell’orizzonte antropologico.
Diversi sono stati gli atteggiamenti di fronte a qualcosa che rimane aporia, un problema senza soluzione. In primo luogo il mistero di Cristo è stato considerato un argomento duro per la filosofia, per la ragione umana abituata a termini astratti e universali, creando in questo modo una certa distanza tra filosofia e cristologia. C’è stata poi la visione della filosofia intesa come via propedeutica alla cristologia ma sempre in visione subordinata, lasciando subito dopo lo spazio alla fede. Ma c’è chi ha guardato con fiducia ad una feconda relazione tra filosofia e cristologia, dove la filosofia senza invadere il campo della fede e della Rivelazione ha avuto la funzione propedeutica di spingersi fin dove le era possibile, di arrivare fino alla soglia della rivelazione.
Intrecciando a volte filosofia e cristologia, usando categorie filosofiche, prescindendo dalla rivelazione, alcuni filosofi hanno coinvolto Gesù nella loro prospettiva di pensiero, a partire da Cartesio che in base al suo sistema non fa rientrare Cristo, così come la rivelazione e la salvezza, nel suo orizzonte di riflessione, preoccupato di speculare su qualcosa di natura universale, dove ci sia la certezza e l’evidenza di un ragionamento. Segue Pascal che pensandola in maniera differente sostiene che la necessità per l’uomo non è solo quella di avere certezze ma di avere qualcuno, Gesù Cristo, che di fronte al nostro peccato si è umiliato fino alla croce. Si può ancora citare Spinoza che considera Cristo come il più grande dei filosofi, Leibniz che lo vede come colui che ci ha rivelato il mistero del regno dei cieli e ciò che Dio ha preparato per chi crede. Kant rimanendo nell’idea illuministica della ragione posta al di sopra di tutto, circoscrive la sua idea sull’etica nell’ambito razionale, facendola valere anche per la religione; in questo senso ha fatto di Gesù il modello ideale della moralità dell’uomo, il maestro perfetto di morale. Lessing condivide con Rousseau il pensiero, l’uno secondo la ragione, l’altro nell’ottica del sentimento, di quanto sia ormai lontana la storia di Gesù Cristo, i suoi miracoli, ciò che ha rivelato; oltretutto non essendoci su di lui che racconti di alcuni fatti, non essendo noi testimoni oculari di nulla, questo è il “grande fossato”, scrive Lessing, che non si può oltrepassare. Schleiermacher ha visto in Gesù il perfetto archetipo dell’uomo inabitato da Dio; Hegel avendo di base l’interesse per la storia, ha inglobato Gesù in un sistema filosofico dialettico di tesi, antitesi e sintesi, come colui che non è più legato ad una visione statica dell’essere ma è coinvolto nel dinamismo del divenire storico; Cristo impersona l’ideale che si realizza nella storia, un momento del processo storico che riguarda lo Spirito Assoluto; è il punto più alto e totale della moralità umana ed è questo che permette di cogliere la divinità, agendo in un dato modo proprio perché Figlio di Dio.
Possiamo, curiosando oltre, considerare Feuerbach e Marx che hanno fatto di Gesù, giudicato alienante, un epifenomeno dell’antropologico. Quando la religione cristiana smise di essere considerata alienazione divenendo piuttosto elemento trainante di una novità nella società, Gesù fu visto come un rivoluzionario della storia, suscitando notevole interesse. Particolare è il punto di vista di Nietzsche che nutrendo per Gesù un rapporto di odio e amore, lo vive come colui che rappresenta tutte le frustrazioni umane, l’impedimento al trionfo del super-uomo.
Attraverso le varie letture della filosofia moderna e contemporanea vediamo come la figura di Gesù non sia mai stata indifferente per la Filosofia, varcando ogni limite temporale: non a caso si parla di lui come di manifestazione del Trascendente Assoluto che esce da se stesso, entra nella temporalità mantenendosi immutabile, non perdendo assolutamente nulla di sé.
Ma ciò che veramente sfida ogni filosofia, oltre al mistero dell’Incarnazione, è la morte in croce, è la Croce a rappresentare il confine tra fede e ragione: «la ragione non può svuotare il mistero di amore che la croce rappresenta mentre la croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca» (enciclica Fides et ratio n.23).
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