di Margherita Merone
Prima di considerare la cristologia manualistica è necessario avere qualche riferimento sulla manualistica teologica, sul manuale di teologia, che si caratterizzò per essere un compendio organico, sintetico, esauriente del mistero di Cristo. La sua caratteristica era quella di assolvere bene al suo compito pedagogico, essendo indirizzato a coloro che dovevano diventare pastori d’anime. Presentava però anche alcuni difetti, l’essere statico e senza riferimento storico-salvifico, dissociava cristologia e soteriologia, era evidente una certa difficoltà nel cogliere la continuità tra ciò che si affermava nel trattato di trinitaria e quanto era scritto in quello di cristologia.
Le origini della teologia manualistica si collocano intorno al 1680 nel periodo definito “delle controversie”. Il teologo e vescovo Melchior Cano nella sua opera De locis theologicis, preoccupato del moltiplicarsi dei contenuti che provenivano dalle numerose discipline teologiche, stabilì un principio ordinatore che fosse in grado di strutturare tutte le varie conoscenze, per agevolare coloro che dovevano insegnarle. Questo principio ordinatore fu da lui definito principio di autorità. A partire da questo, elencò dieci loci (argomenti) a sostegno del discorso teologico, sette dei quali propriamente teologici, autorità della Scrittura, della Tradizione, della Chiesa cattolica, dei Concili, della Chiesa romana, dei Padri della chiesa, dei teologi della Scolastica e dei canonisti e tre argomenti di ragione, autorità della ragione naturale, dei filosofi, della storia.
Da quel momento si cominciò a distinguere tra teologia “positiva” e teologia “speculativa”, infatti il compito della teologia era quello di assolvere da un lato alla funzione positiva di ponere principia e dall’altro alla funzione speculativa di derivare consequentia. Si delineerà così il metodo positivo-scolastico, dove al momento positivo che consisteva nella raccolta delle autorità che illustravano i fondamenti del dato di fede, seguiva il momento scolastico nel quale il dato veniva approfondito attraverso una speculazione secondo le categorie metafisiche e ontologiche dell’essere, rimanendo ancorata alla filosofia aristotelico-tomista.
Questo modo di impostare il discorso teologico, conosciuto come “teologia manualistica” sarà il modello cui riferirsi. Il manuale col tempo si modificò diventando un compendio agevole e pratico per la formazione teologica e pastorale dei sacerdoti, che dovevano conoscere ciò che era necessario per la catechesi, la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti. Sarà così fino alle soglie del Vaticano II.
Il manuale di cristologia era distinto in tre sezioni: De Verbo incarnato, sulla costituzione ontologica di Cristo, De Christo redemptore, che riguardava l’opera di redenzione, De praedestinatione Christi, nella quale si speculava intorno al fine dell’incarnazione.
Nel manuale, la riflessione sul mistero di Cristo, De Verbo incarnato, partiva dalla considerazione della condizione ontologica di Cristo in quanto uomo-Dio, nella sua natura umana e divina. Si partiva dalla dottrina di Calcedonia (Cristo è una persona in due nature), soprattutto dal discorso sull’incarnazione, vista, non seguendo la prospettiva storico-salvifica, pertanto senza alcun riferimento agli eventi della vicenda storica di Gesù, ma solamente secondo l’ontologia ossia nel momento in cui la natura umana è stata assunta dal Verbo divino. Tutto il trattato era basato sul tema dell’unione ipostatica. Si partiva col momento positivo cercando le fonti del Nuovo Testamento e della Tradizione che potevano sostenere il dogma dell’unione ipostatica, cui seguiva quello speculativo nel quale si metteva in evidenza il modo di questa unione, la realtà di Cristo uomo-Dio sotto il profilo ontologico e metafisico.
Il trattato De Christo redemptore aveva come tema la redenzione dell’uomo dal peccato per opera di Cristo, vista quindi solo secondo una prospettiva amartiocentrica (amartìa, peccato). Dal momento che nella teologia manualistica la risurrezione veniva trattata nella sezione di apologetica, come prova della divinità di Cristo e della rivelazione divina, l’aspetto che veniva sviluppato del mistero pasquale era quello della morte in croce, momento in cui Cristo ha messo in atto la redenzione. La morte di Cristo però non veniva considerata secondo la prospettiva della Scrittura ma nell’ambito del progetto di Dio, dell’ordine stabilito fin dal principio e che l’uomo peccando ha turbato. Così per parlare della redenzione si utilizzarono le categorie teologiche di “riparazione” dell’ordine che era stato turbato dall’uomo e di “soddisfazione”, che solo Gesù Cristo in quanto uomo-Dio poteva realizzare. Non c’era, come si può intuire, alcun riferimento ai misteri della vita di Gesù, alla predicazione, ai miracoli, tutto ruotava intorno alla dimensione ontologica del Verbo incarnato. Si comprende, senza dubbio, l’impostazione deduttivistica per quanto riguarda la riflessione soteriologica (soterìa, salvezza), ossia, una volta stabilito che la redenzione era necessaria a causa del peccato dell’uomo e ribadita la costituzione ontologica di Cristo, la struttura teandrica di uomo-Dio, bastava questo come presupposto per dedurre la possibilità della redenzione.
Nel De praedestinatione Christi la questione era il fine dell’incarnazione, quale fosse il posto di Cristo nel piano eterno di Dio. La domanda posta non era legata all’esistenza di Gesù quanto all’esistenza di un uomo-Dio. Furono date le due soluzioni proposte nella teologia medievale, quella vicina al pensiero di Tommaso D’Aquino (poiché l’uomo ha peccato Cristo si è incarnato) e la soluzione di Duns Scoto che sosteneva che Cristo si sarebbe incarnato anche se l’uomo non avesse peccato. È chiaro come la riflessione del trattato in questione non fosse legata alla storia concreta, reale di Gesù ma all’aspetto teandrico, l’essere uomo-Dio.
Sono evidenti i limiti di questa impostazione, la mancanza del riferimento storico e storico salvifico, la separazione tra la cristologia e la soteriologia, rispetto a come viene delineata nella Scrittura. Non è la persona di Gesù di Nazareth al centro della cristologia del manuale ma l’uomo-Dio che solo in maniera estrinseca si ricollega all’evento storico.
Si comprende come la teologia manualistica concentrando l’attenzione sulla costituzione ontologica del Verbo non abbia messo in luce la gratuità, l’amore e la libertà della redenzione compiuta da Cristo. Il valore salvifico della Pasqua veniva messo in secondo piano, non era il culmine della storia della salvezza, organizzata oltretutto in maniera speculativa e deduttivistica.
Concludendo ho solo un pensiero, anzi piuttosto un’immagine di Gesù, non quella statica e lontana da come è presentata nel Vangelo ma al contrario, tralasciando ogni logica deduttiva, la realtà viva, concreta, storica della sua vita, del suo essere il Verbo di Dio che si è incarnato per salvarci, perché “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
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