Sono stata giovane negli anni Settanta e anch’io sono cresciuta col mito del viaggio in India. All’epoca si partiva col furgone, qualcuno tornava in autobus, altri non tornavano affatto, e c’è stato anche chi si è fatto cinque anni di galera in Turchia perché nel furgone aveva nascosto la sua speranza di fare un buon investimento in Italia. Peccato che quella speranza non fosse precisamente legale. Io all’epoca sognavo l’India come gli altri, ma non avevo mai il tempo. Ero troppo impegnata a passare da una casa all’altra e da un lavoro all’altro e non mi rimanevano neppure i soldini per un campeggio al mare. Tra gli anni Settanta e gli Ottanta sono diventata una specialista del trasloco e del cambio di lavoro. Bei tempi, forse, le case e i lavori si trovavano, bastava accontentarsi, però non riuscivo mai a togliermi una soddisfazione. Poi mi sono data una calmata, ho visto che era inutile cambiare posto perché tanto era come dicevano i cinesi, puoi cambiare pozzo ma quello che c’è dentro è sempre acqua, e nel mio caso era sempre veleno. E ho incontrato un compagno di viaggio che, come me, non trovava pace dai tempi dell’esame di maturità.
Insieme, abbiamo deciso di realizzare il sogno del viaggio in India. Ci abbiamo preso tanto gusto che ci siamo andati ben sei volte, l’ultima volta per sei mesi, prendendoci delle aspettative non pagate e trattenendo il respiro per tutto l’anno in modo da accumulare le ferie. Per il primo viaggio eravamo riusciti a raggranellare un mese di libertà e abbiamo preso il volo più economico, che allora era quello della Kuwait Airlines: c’era la prima guerra del golfo, e pochi mesi prima uno dei loro aerei era rimasto bloccato a Kuwait City per quaranta giorni coi passeggeri e tutto. Non era proprio la più incoraggiante delle premesse, ma il prezzo era imbattibile, e statisticamente era difficile che succedesse due volte. Durante il volo abbiamo incontrato alcuni reduci di lungo corso, di quelli che ancora riuscivano a vivere lavorando sei mesi in Italia e cazzeggiando sei mesi in India, e l’ho capito col tempo che facevano bene. Se invece di rovinarmi la salute passando da un lavoro di merda all’altro mi fossi disfatta di eroina su una spiaggia di Goa avrei sofferto meno, ma lasciamo perdere, del senno di poi son piene le fosse. I “veterani” ci diedero qualche consiglio su dove dormire e così ho scoperto che a Delhi, dalle parti di Connaught Place, una stanza costava cinquemila lire… In India si faceva ancora il cambio nero, appena arrivati cambiammo cento dollari in un retrobottega e ci diedero in cambio una sporta di rupie formato spesa alla Coop. Con quei mazzi di banconote macchiate e stracciate ci abbiamo fatto tutto il mese.
Arrivati a Delhi di notte, capivamo ancora meno del solito e ci siamo fermati a dormire nella prima guest house che ci è capitata. Per fortuna che mi ero portata un lenzuolo da casa, perchè le cinquemila lire comprendevano solo il letto, il materasso e una coperta ruvida tipo militare. Eravamo anche dei signori, c’era “il bagno in camera”, che consisteva in un comodissimo buco nel pavimento e una canna di gomma. La carta igienica era una stranezza occidentale, loro vicino al buco tenevano il pentolino per le abluzioni, da eseguire rigorosamente con la mano sinistra perché con la destra ci si mangia. Dopo una giornata intera di sonno abbiamo familiarizzato con la città e con i Tuk Tuk, quella specie di furgoncini APE che facevano da taxi. Per due giorni abbiamo girato un po’ a caso, partendo per le mete consigliate dalla Lonely Planet e cambiando idea cento volte perché da vedere c’era troppa roba, era tutto da vedere.
Dicono che l’India è strana, che di primo acchito sconcerta il visitatore occidentale. Per me non è stato così. A parte il cibo, con cui non sono mai venuta a patti, dopo due giorni ho avuto la sensazione di essere già stata in quel posto. A me l’India ricordava quando ero piccola. Non chiedetemi di spiegarlo razionalmente, non ci riesco, ma la sensazione che mi dava era quella dell’Italia degli anni Cinquanta. Non eravamo proprio così poveri, ma ancora adesso quando mi chiedono perché l’India mi è piaciuta così tanto da tornarci sei volte, la mia risposta è “Perché mi ricorda quando ero piccola” e tutti mi chiedono dove sono cresciuta… Quando rispondo “Forlì, Italia” mi guardano come se fossi matta, ma è così. Non lo so perché, ma è così. Come tutte le cose con cui si ha una sensazione di familiarità, in India mi sono sempre sentita tranquilla e fiduciosa che tutto in qualche modo si sistema.
Dopo qualche giorno a Delhi siamo partiti per vedere il Rajastan, spostandoci con mezzi locali, treni e autobus. Il concetto di “pieno” in un mezzo di trasporto indiano sfida ogni legge della fisica, soprattutto quella dell’impenetrabilità dei corpi, ma in nessuna parte dell’India ho mai viaggiato in piedi. Per una signora, un angolino a sedere si trovava sempre. Certo mi aiutava la taglia, allora pesavo quarantacinque chili, ma su qualcosa trovavo sempre da sedere. L’importante era non farsi troppe domande sulla cosa. Dopo un po’, ogni passeggero si era sistemato e si poteva dedicare alle rilassanti occupazioni dell’indiano che viaggia, ovvero scaccolarsi, sputare (educatamente fuori dal finestrino) soffiarsi il naso con le mani e ruttare fragorosamente. All’inizio noi non eravamo abituati e come reazione ci veniva una ridarella irrefrenabile, ma abbiamo dovuto imparare a controllarci perché tutti ci guardavano male, passavamo per maleducati. Quando ci siamo spostati da Delhi a Benares, siccome il viaggio in treno durava diciotto ore abbiamo deciso di prenotare due cuccette, impresa che ci costò pochi soldi, ma un’intera giornata di fila in stazione. In India bisogna avere molta pazienza. Quando siamo entrati nel nostro scompartimento, le stesse quattro cuccette erano state prenotate per noi due, per due famiglie di indiani e per un gruppo di monaci. Per fortuna avevamo cominciato a capire il funzionamento e ci siamo fiondati sulle due cuccette in alto, occupandole coi corpi e con gli zaini, anticipando tutti gli altri. Dopo una congrua resistenza passiva io e il mio compagno ci siamo goduti ben una cuccetta a testa, quella che avevamo prenotato, ma ce la siamo dovuta guadagnare. Sotto di noi c’era un’intera famiglia per cuccetta, e i monaci erano stati deportati in un altro scompartimento di religiosi. Le due famiglie indiane ci hanno guardato un po’ male all’inizio – che spreco, un’intera cuccetta per una persona sola – ma dopo un po’ abbiamo fatto amicizia e ci siamo scambiati chiacchiere e biscotti.
Molte città le abbiamo visitate con i tour organizzati dai locali uffici del turismo. Eravamo gli unici occidentali, gli altri turisti erano tutti indiani, e questo è stato l’aspetto più affascinante delle gite. Non mancava mai la visita a qualche tempio in cui erano in corso oscure funzioni; una volta ci divisero, uomini da una parte e donne dall’altra, poi in fila si arrivò davanti a un altare dove tutti urlavano come pazzi e uscivano con un gran sorriso sulle labbra. Non ho avuto il coraggio di chiedere il significato del rito, però ho fatto due giri perché l’ho trovato molto liberatorio. In un’altra città stavo notando il gran numero di uccelli simili ad aquile appollaiati sui fili della luce, e un signore molto sorpreso mi ha chiesto “Ma come, voi non le avete le aquile in città?”. Quasi vergognandomi, gli ho confessato che noi ci accontentiamo dei piccioni. Poi un bambino ci ha tenuto a precisare che quelle non erano vere aquile, ma nibbi, spiegandomi con compatimento che le aquile si nutrono di animali vivi, mentre quegli uccelloni che mi guatavano dai pali della luce si cibavano di carogne. Insomma, anche loro facevano la loro parte, erano gli spazzini, insieme alle mucche. La mucca indiana è un’altra meraviglia che non so se sia sopravvissuta alla modernizzazione, ma allora la si incontrava anche in autostrada. A Goa c’erano le mucche in spiaggia, stese a prendere il sole vicino ai turisti, e ricordo una disgraziata americana che perse soldi, documenti e travel chéques perché una mucca le mangiò lo zainetto.
Non voglio farvi invecchiare coi miei ricordi dell’India, ne ho talmente tanti che vi potrei uccidere, però uno ve lo devo raccontare. Al ritorno da quel primo viaggio, ci avevano raccomandato di andare in aeroporto quattro ore prima della partenza, perché a causa della guerra nel Golfo c’erano molti controlli. In effetti in quell’occasione ho riflettuto sul concetto di “fila indiana” perché siamo stati in coda ininterrottamente per tutte quelle quattro ore. Io e il mio compagno eravamo con un ragazzo di Ravenna e a un certo punto una signora dell’età di mia madre, sentendoci parlare in romagnolo, si è avvicinata a noi. Beh, non era mia madre ma la Gina, la sua amica d’infanzia che era stata due mesi in giro per l’India a comprare mobili col figlio, il quale, contentissimo, ce l’ha affidata con sollievo, sicuro di ritrovarla a Forlì. Arrivati a Roma abbiamo dovuto affrontare il sarcasmo del doganiere che accoglieva i reduci dall’India. Al nostro amico di Ravenna lo spiritosone chiese “Allora, quanto costa l’eroina in India?” e lui “Niente, la regalano.”. E poi abbiamo imparato che l’accuratezza della perquisizione dipendeva molto dal tipo di zaino. Il mio compagno aveva un vecchio zaino militare degli anni Settanta, e il ghigno del doganiere si è illuminato d’immenso quando ha cominciato a fargli svuotare le tasche. Al decimo paio di mutande sporche e calzini fetenti ha rinunciato. Io avevo uno zaino nuovissimo e tecnologico, e dentro ci avrei potuto mettere anche dieci chili di droga perché il gendarme non l’ha degnato di uno sguardo. Ma io non avevo comprato droga, solo argento. Gioielli d’argento in quantità industriale. E me li ero messi tutti. Sembravo la Madonna di San Luca. Il tipo ha guardato la montagna di orecchini, collane, bracciali, anelli di cui ero letteralmente ricoperta, e ne è scaturito il seguente dialogo surreale:
“Ha comprato dell’argento in India?”
“No.”
“Ma tutta quella roba che ha addosso….”
“Me la sono portata da casa.”
Non ha avuto il coraggio di replicare e ci ha cacciati via in malo modo. Chissà perché.
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Molto bello il blog… però aspetto nuovi post, è da troppo tempo che non ci sono aggiornamenti. Vabbè, intanto mi sono iscritto ai feed RSS, continuo a seguirvi!
Grazie troppo carini… Vuol dire che NON mi sparate con un fucile a pompa se posto altri ricordi indiani?