di Giuseppe Vera
È davvero triste dover ricorrere a una legge per limitare frodi, corruzione e distrazione di denaro pubblico; è ancora più triste se si pensa che l’azione è partita da lontano come correzione, meglio ancora, come rimedio ai deficit organizzativi della prima repubblica, segnati dai micro intrecci tra gestione pubblica e imprese. Saltato fuori l’inganno, l’intervento brusco della magistratura ha determinato uno squilibrio netto tra i poteri costituzionali; il tentativo di ripristino dell’equilibrio è diventato paradossalmente un affinamento dei meccanismi di difesa della politica, che è scaduta nella emanazione di vergognose norme a tutela di una libertà facilmente convertibile in arricchimento di una casta ignobile. Che la politica debba finanziarsi per evitare che possano decidere solo i benestanti è senz’altro nobile intento; che l’autofinanziamento debba creare nuovi benestanti è indecente. “Non so chi mi ha comprato la casa”, “Con i fondi del partito faccio quello che mi pare”, “Io mi ricandiderò comunque”, “Dei fondi all’estero non ne so niente” sono solo le più recenti frasi di qualche gestore dei fondi di partito, che si è sentito tutelato, protetto da una normativa lacunosa, volutamente carente, per consentire di affondare le mani in un pozzo stracolmo di denaro pubblico. Credo che il tappo sia saltato perché oggi la famiglia è sofferente, stenta a sopravvivere; il sistema sarebbe andato avanti tranquillamente, magari rimpinguato da ulteriori denari. Dove non c’è norma non c’è dolo e non credo che ci si trovi di fronte a personaggi sprovveduti, che non abbiano avuto l’accortezza di fornirsi di fatture e di false testimonianze, ponendosi in una botte di ferro. L’unico punto debole di tale sistema truffaldino sta nella riscontrabilità della documentazione fornita agli inquirenti e nella verificabilità degli eventi finanziati.
Il popolo vuole giustizia. Monti, sotto la spinta di Napolitano, sollecita il parlamento a varare in tempi brevi il decreto anticorruzione, in modo che i cittadini possano conservare la predisposizione e la rassegnazione a fare ulteriori sacrifici. Il salvataggio della patria deve, quindi, passare per la moralizzazione della politica.
Moralizzare non credo che possa farsi per legge, perché è la legge morale che sottopone a sé il sistema; solo Machiavelli aveva riconosciuto la ragion di stato come variante politica. Oggi paradossalmente per ragion di stato bisogna far ricorso a un imperativo dimenticato, che s’impone come espressione della Volontà generale (attenzione, non di un popolo soltanto), come Necessità, come orientamento e guida della condotta civile. Una società che non è in grado di riconoscere il bene, che non lo persegue con convinzione, è amorale, per cui non bisogna meravigliarsi se essa trasborda verso qualsiasi forma di nefandezza o di abuso. L’amoralità non deve essere confusa con l’immoralità, perché si sottrae addirittura a qualsiasi forma di giudizio; l’espressione serena e beffarda di Fiorito può essere spiegata solo in questo modo, il suo stupore per l’arresto è giustificato proprio dall’assenza di principi regolatori della condotta. D’altronde al momento dell’arresto gli si è contestata la spavalderia, la sicurezza, ma nessuna infrazione a una norma che non c’è. I Professori del condottiere Monti hanno potuto toccare con mano quant’è duro e ingombrante il ruolo di guida di una nazione; è andato liscio come l’olio il percorso di risanamento dei conti pubblici, ma temo che finisca proprio lì la loro missione, perché veti incrociati e motivazioni oscure porteranno a un nulla di fatto per la riforma elettorale e per la moralizzazione della politica.
Il decadimento morale di un popolo è stato un tema molto dibattuto nell’800, quando proprio ad esso si assegnavano le principali responsabilità dei mancati processi di unificazione dell’Italia e della Germania; vale la pena citare le due opere che stimolarono la riflessione: “Il primato civile e morale degli italiani” e “ I Discorsi alla nazione tedesca”. Resta ancora valido l’invito a superare la crisi profonda facendo ricorso ai principi che caratterizzano un popolo: non le armi, non la ricchezza, perché le prime dividono, la seconda corrompe, ma la cultura, la scienza, l’arte e perfino la religione, che segnano l’apice della civiltà; il progresso è arricchimento di tale patrimonio, nel rispetto della massima che invita a considerare l’uomo sempre come fine e mai come mezzo (Kant). Questo equivale a ritenere la politica come impegno a comprendere e rispondere ai reali bisogni dei cittadini.
Purtroppo abbiamo smarrito la strada e non credo che si possa ritrovarla per legge.
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