di Susanna Biancifiori
È trascorso un anno, ormai, da quando mi sono laureata e purtroppo – come molti altri giovani italiani, indipendentemente dal livello di istruzione raggiunto e dalle aspirazioni professionali – mi trovo a dover fare i conti con la difficoltà, non tanto e non solo a trovare un posto di lavoro, ma addirittura a poter fare esperienze professionalizzanti come stage scarsamente retribuiti o semplici affiancamenti sul campo a professionisti dai quali apprendere insegnamenti pratici.
Non sono infatti un mistero i dati diffusi dall’ISTAT sulla disoccupazione giovanile che confermano questa triste tendenza.
Al senso di onnipotenza e alla carica positiva del post-laurea hanno piano piano fatto seguito l’attesa, la delusione, la tristezza, la rassegnazione.
Oltretutto c’è un altro aspetto del passaggio dal mondo dell’istruzione a quello del lavoro che vorrei denunciare: il totale abbandono a noi stessi senza un concreto ponte di connessione tra le due realtà.
Fino a un giorno prima hai uno scopo, degli orari e delle scadenze da rispettare, una strada segnata che non devi far altro che percorrere, e il giorno dopo ti trovi a brancolare nel buio, senza aver ben chiaro in mente che cosa fare né che cosa ne sarà di te.
La cosa ancora più triste poi, almeno per me, è che più passa il tempo più vanno scemando la carica e la volontà che spingono a realizzare i propri sogni, a inseguire le proprie ambizioni.
O forse dovrei correggermi e scrivere “più passava il tempo più andavano scemando la carica e la volontà…”. Già, perché a volte basta davvero poco per ritrovare la grinta!
Sono sempre stata una persona ottimista, che cerca di trovare il lato positivo delle cose, di non affliggersi troppo davanti alle difficoltà – se non nel momento immediatamente successivo al presentarsi di una situazione problematica, quando la cosa necessita di essere metabolizzata e si deve riflettere su come affrontarla, momento in cui credo sia abbastanza umano scoraggiarsi un po’ o lasciarsi affogare leggermente nel mare della drammaticità, della tristezza, della preoccupazione.
Insomma, una di quelle persone che vede il bicchiere mezzo pieno.
Tuttavia, e non dico questo per scaricare su qualcun altro la responsabilità del mio “arrendermi alla situazione”, ci sono stati momenti in questi mesi in cui la vicinanza con persone dallo stato d’animo meno positivo rispetto al mio, che si angosciano davanti al minimo problema e lo vivono come se fosse una sciagura, che hanno una propensione alla negatività che si riflette sui loro discorsi e sul loro modo di approcciarsi alla vita, che passano il tempo a crogiolarsi sui propri drammi se non, addirittura, a “crearsene” – detto in parole povere: sono pessimisti! – mi ha trascinata in questo vortice di angoscia e apatia.
È accaduto, ad esempio, che io manifestassi entusiasmo per un’idea venutami in mente, per una buona occasione che mi si presentava, per la percezione di un “barlume di speranza” in un periodo buio dal punto di vista di concrete possibilità e ottenessi in risposta parole o toni che smorzavano questo entusiasmo; espressioni facciali indifferenti, contrariate o “invidiose” che tradivano belle parole pronunciate dalla bocca, se non, addirittura, silenzi che mettevano a tacere la discussione.
A volte era sufficiente che qualcuno mi riportasse costantemente brutte notizie, manifestasse astio o antipatia per qualcosa o qualcuno per buttarmi giù o farmi provare gli stessi sentimenti.
Lontana dalla loro presenza, però, ritornavo quasi del tutto ad essere me stessa. Quasi del tutto perché, come con le pedine del domino, a mia volta sfogavo la frustrazione e riversavo il malumore sulle persone a me più prossime.
È successo anche a voi?
Indipendentemente dalla frequenza con cui ciò vi sia accaduto, e prescindendo tanto dal contesto in cui ciò è avvenuto quanto dall’oggetto del dibattere, suppongo sappiate come ci si senta.
Mi rendevo conto dell’influenza che questi episodi – sommati l’uno all’altro e non controbilanciati da un sufficiente numero di incontri e scambi positivi – stavano avendo su di me, ma non riuscivo a comprenderli a pieno né a gestirli. Un po’ come quando si ha un pensiero ma non si riesce a elaborarlo o esprimerlo con parole proprie fino a quando non si legge o si ascolta qualcosa e solo allora quelle parole, scritte o pronunciate da qualcun altro ma che sembrano parlare proprio di noi, danno voce a ciò che non riuscivamo a esprimere, facendoci assumere consapevolezza.
Questa occasione, per me, è arrivata come un dono – e non solo in senso metaforico! Infatti, in occasione del mio compleanno, mia zia Daiana mi ha regalato la possibilità di partecipare con lei a un corso di formazione dal titolo “Conoscere e valutare il comportamento umano”.
Tema centrale: la scala del tono emozionale.
È stata un’esperienza bellissima, sia perché ho potuto trascorrere del tempo da sola con lei – cosa che, purtroppo, accade raramente – sia perché ho avuto la possibilità di fare luce su qualcosa che sentivo ma non conoscevo.
La scala del tono emozionale è stata elaborata da Ron Hubbard. Probabilmente, detto così, questo nome non vi dice nulla ma se si pronuncia quello della chiesa da lui fondata sicuramente tutti saprete, seppur vagamente, di chi stiamo parlando. Ron Hubbard, infatti, è il fondatore di Scientology.
Qui apro una piccola parentesi.
Quando sono andata al corso non avevo assolutamente idea che la scala del tono facesse parte della tecnologia hubbardiana per la comprensione del pensiero umano. A dirla tutta non sapevo e non so quasi niente di lui e di Scientology, se non che Tom Cruise è uno degli adepti di questa “setta” e che viene accusato dalla stampa di subirne profondamente l’influenza, soprattutto per quello che concerne la vita privata. Insomma, come per tutte le cose di cui si sa niente e quel poco che se ne sa è negativo, avevo un pregiudizio.
Fatto sta che quando la formatrice ha detto a un ragazzo presente al corso “Se vuoi farmi domande su Scientology fai pure, tanto Daiana non ha problemi a sentirne parlare” io sono entrata per qualche secondo in uno stato di shock.
Scientology? E che cavolo c’entra! Dio, ma dove sono capitata?!
Tuttavia, alla stregua di quel giorno, non voglio fermarmi alla prima impressione, al pregiudizio. Né intendo qui esprimere alcun giudizio di valore su Hubbard e/o Scientology. Voglio solo parlare della scala del tono perché la trovo interessante e, a mio avviso, utile.
Chiusa parentesi!
Per tono si intende lo stato emotivo, temporaneo o costante, di una persona.
Ognuno di noi ha uno stato emotivo cronico, che gli appartiene. Ma questo tono può, a seconda delle situazioni o delle persone da cui si è circondati, alzarsi o abbassarsi.
Alcuni toni riscontrati da Hubbard sono l’entusiasmo, l’allegria, il forte interesse, il conservatorismo, il leggero interesse, la soddisfazione, la noia, l’antagonismo, la collera, l’odio, l’ostilità nascosta, la paura, l’afflizione, l’apatia.
A ogni tono corrisponde un tipo di personalità.
I primi sette sono toni razionali, i secondi sette irrazionali.
A meno che non si sia abbastanza forti, sicuri di sé, o in grado di gestire e risollevare il tono basso altrui è quasi automatico che chi ha un tono inferiore al nostro ci trascini giù. Oltretutto, maggiore è la distanza di tono, maggiore è la potenza dell’influenza subita. Specie se la persona che ci troviamo davanti è l’antisociale.
La personalità antisociale è un tipo di personalità negativa, che rema contro gli interessi del contesto in cui si trova inserita.
Sono dodici le caratteristiche della personalità antisociale.
1) Quando parla si serve solo di grosse generalità, ma se si approfondisce la questione ne emerge che l’antisociale ha esteso all’intera società il pensiero di un singolo individuo o comunque di pochi;
2) Diffonde principalmente cattive notizie, osservazioni ostili, denigrazioni;
3) Trasmette il peggio delle notizie, amplificando quelle negative e stoppando quelle positive;
4) Non risponde al trattamento, alla correzione, alla psicoterapia;
5) Intorno a tale personalità troviamo persone che conducono una vita incerta, piena di fallimenti e insuccessi;
6) Quando gli capita qualcosa di brutto se la prende con il bersaglio sbagliato senza affrontare chi causa realmente la sua sventura;
7) Non è in grado di portare avanti un ciclo d’azione e si circonda per questo di progetti incompleti;
8) Confessa i propri crimini più allarmanti solo se costretto a farlo e non ha il minimo senso di responsabilità. Le azioni hanno poco o nulla a che fare con la sua volontà, le cose “sono semplicemente successe!”;
9) Sostiene solo gruppi distruttivi e si infuria contro gruppi costruttivi e di miglioramento;
10) Approva solo azioni distruttive e combatte contro azioni o attività costruttive;
11) Aiutare gli altri è un’attività che lo fa impazzire mentre sostiene le attività che distruggono in nome dell’aiuto;
12) Ha un pessimo senso della proprietà.
Ovviamente non temete se vi riconoscete in alcune di queste caratteristiche. Per due motivi. Primo, non sono sufficienti alcune di queste per fare di voi una persona antisociale. Secondo, la persona antisociale non ammette nemmeno a sé stessa la propria natura perciò non si identifica con nessuna di esse.
La ragione alla base di tutti questi comportamenti è il terrore nascosto nei confronti degli altri. È inconsciamente consapevole che non ha capacità mentre gli altri sì. Perciò si impegna affinché gli altri falliscano in maniera tale da restare il migliore.
Naturalmente il caso della personalità antisociale è un caso estremo e, fortunatamente, costituisce una minoranza della nostra società.
Tuttavia il punto su cui vorrei mettere l’accento è il forte potere di influenza che la personalità antisociale in particolare, e le personalità irrazionali in generale, hanno di influenzare i razionali o comunque quelli con un tono più alto.
Più stiamo a contatto con persone dal tono basso, meno sappiamo essere noi loro trascinatori, più sprofondiamo.
Fortunatamente non credo di avere intorno persone antisociali. Magari mi sono imbattuta per troppo tempo in antagonisti, afflitti o apatici. Li ho riconosciuti ma non sono stata in grado di innalzarli né di impedire che mi trascinassero.
Però è bastata una serata con due ragazzi mai visti prima, che mi spingessero a parlare della sociologia, del mio percorso di studi, delle mie ambizioni, del mio blog. Che mi ascoltassero con sincero interesse per farmi ricordare chi sono, da dove vengo e dove voglio andare per sollevarmi e farmi ritrovare l’entusiasmo.
Il tono che fino a ieri mi apparteneva!
P.S. Grazie a Luca e Agnese, inconsapevoli ri-attivatori di un meccanismo bloccato.
P.P.S. Sono dell’idea che la nostra volontà sia alla base di tutto. Che i primi a ostacolare la nostra felicità a volte siamo proprio noi stessi. Perciò, forte di questo pensiero, mi adopererò per inseguire i miei sogni, per restare fedele a me stessa e non farmi scoraggiare.
“Ehi non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa, neanche a me! Ok? Se hai un sogno tu, lo devi proteggere. Quando le persone non sanno fare qualcosa lo dicono a te che non lo sai fare. Se hai un sogno inseguilo. Punto!”
(da: La ricerca della felicità, regia di Gabriele Muccino, 2006)
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