La fragranza dei fiori di acacia mi scuote dal torpore del primo pomeriggio. Gli ospiti della struttura sanno che porta male disturbarmi quando medito, ci si rimedia come minimo una sventagliata di bestemmie in toscano, ma se il tocco è quello di Nia dalle dita di rosa, le proteste mi muoiono in gola e sulla faccia mi si stampa il solito sorriso ebete. Un vecchio anarchico mangiapreti come me dovrebbe disprezzare un’aristocratica che si chiama Ifigenia e ha due cognomi, ma i suoi maliziosi occhi verdi e la sua figura slanciata mi hanno incantato fin da quando veniva qua a trovare quel suonato del fratello, il pittore pazzo che adesso si crede un graffitaro e alla sua veneranda età imbratta il recinto coi murales e fa impazzire i custodi. Quando Nia è diventata anche lei ospite della struttura aveva quasi cento anni, ma per me era ancora la donna più bella del mondo. L’ho avvicinata con una scusa, era stata la maestra elementare di mia nipote, e parlando di quella bambina timida e gracile, che si difendeva dal mondo nascosta dietro ai libri, siamo diventati amici. E Nia proprio di mia nipote mi vuole parlare, dice che è fuori che mi aspetta. Diamine, è ancora una bambina e già la ricoverano qua dentro? No, dice che è venuta a trovarmi. Quale onore… Non la vedo da quando era piccina e la domenica pomeriggio, a volte, mio figlio la portava in visita. Poi col tempo si è persa ogni traccia di entrambi, figlio e nipote.
Cerco di darmi una rassettata, sono ancora intorpidito e mi ci vuole un po’ a scendere dalla piccionaia, ma quando arrivo nella zona dei visitatori mi trovo di fronte una signora che non conosco. Non somiglia né a me né a mio figlio, è bionda, e poi è vecchia, in età da pensione.
– Ciao nonno… Sono Beatrice.
– Sei sicura?
– Beh nonno, ormai sono sicura di poche cose, ma di chiamarmi Beatrice e di essere tua nipote, questo sì.
La guardo meglio, anche sua madre era bionda, e gli occhi hanno qualcosa di familiare. Sono quelli di mio figlio, e anche i miei.
– Bene Beatrice, buongiorno. Che cosa ti porta da me? Non ti vedo da almeno cinquant’anni.
– Nonno, hai ragione, ma io per i cimiteri… Non ci sono portata.
– Tesoro, nemmeno io ci ero portato, però sono qui dentro dal 1941. Fosse stato per me… Ma sono morto, sai, prima o poi tocca a tutti. E cosa ti ha fatto superare questa avversione per i cimiteri?
– Ti ho sognato, nonno. Mi chiedevi di venire da te perché dovevi dirmi qualcosa di importante.
Oh, ne sarà felice il vecchio Aurelio. È stato lui a inventare la campagna “Telefoniamo ai parenti”. Quando sono stato sepolto in questo cimitero, i primi tempi non me ne facevo una ragione e stavo sempre rintanato dentro al mio loculo, poi una notte ha bussato Aurelio, uno dei nostri concittadini più illustri, e mi ha presentato alla comunità. Mi ha spiegato che tutti i residenti nello stesso Comune possono parlare fra loro, compresi quelli che sono in strutture diverse, e col tempo ci siamo specializzati, abbiamo imparato a metterci in contatto anche con amici e conoscenti di altre città. Aurelio mi ha spiegato che socializzare per noi defunti è molto importante, perché siamo come i bambini, appena morti abbiamo tutti attorno che ci coccolano e ci portano i fiori, poi piano piano si dimenticano, non viene più nessuno, e col tempo ci portano via anche la stanza singola per sistemarci in queste orrende piccionaie. Problemi di spazio, dicono. In effetti queste sono strutture dove si entra ma non si esce più, e dai tempi di Napoleone, quando si vietò la sepoltura nelle chiese e si cominciò a costruire le città satelliti, i residenti sono aumentati di molto. E poi, negli ultimi anni, con l’avvento di internet e dei cellulari, abbiamo imparato a viaggiare attraverso le linee telefoniche e siamo diventati informati su quanto succede nella nostra città e nel mondo. Purtroppo.
Aurelio ha avuto l’idea. Siamo talmente disgustati da come va il mondo che il Consiglio degli Anziani, da lui fondato, e nel quale benevolmente sono stato accolto, si è impegnato a mettersi in contatto coi parenti e a chiamarli a raccolta. Non tutti, naturalmente. Per esempio, in questo cimitero vige la regola di non parlare coi fascisti. Ce ne sono tanti, purtroppo, o per fortuna, così non infestano più il mondo di sopra, ma i loro parenti proprio non li vogliamo vedere. Nel Consiglio degli Anziani Aurelio ha accolto solo i residenti che nella vita terrena hanno mostrato di amare la libertà. Il mio passato è limpido, esemplare. Sono nato il 2 giugno 1876 in un piccolo paese sull’Appennino tosco-romagnolo; mio babbo faceva il carbonaio ma è riuscito a mandarmi a studiare a Firenze. Allora non era una cosa facile per il figlio di un carbonaio… Poi ho trovato lavoro in una tipografia e mi sono sposato con Isolina. Nel 1909 la tipografia ha aperto una succursale in Romagna e mi hanno trasferito in questa cittadina triste e bigotta. Non mi è mai piaciuta, troppi preti. Tutta la Romagna allora era anticlericale e invece io sono finito in un paesone di baciapile. Che schifo. Qui la mia Isolina è rimasta incinta ma è morta di parto, lasciando una bimba che è vissuta solo pochi mesi. Ho sempre dato la colpa all’aria di chiesa. Mi sono risposato con Olga, più giovane di me di 13 anni, ma dopo un po’ se ne è andata anche lei. Vedovo per la seconda volta, ho sposato Maria, questa sì molto più giovane di me, una bambina, nata nel 1895, e con lei ho avuto mio figlio. Il padre di Beatrice.
– Cara nipote, in effetti non mi hai sognato per caso. Sono io che ti ho telefonato. Volevo vederti. Sai in che giorno sono nato io?
– Il Due Giugno 1876, nonno.
– Brava. E che cos’è il Due Giugno?
– Il tuo compleanno, nonno.
– Dinne un’altra e ti arriva uno sberlone dall’aldilà che te lo ricordi per sempre. Il Due Giugno è la Festa della Repubblica, quella cosa per la quale si sono fatti ammazzare in tanti, in questo cimitero e non solo, e che per diversi anni non avete festeggiato più. L’avevate soppressa… e invece continuavate a onorare l’Immacolata Concezione. E perché non il Capodanno Klingoniano? Abbiamo dovuto aspettare un Presidente ex partigiano del Partito d’Azione per vedere resuscitata una Festa per la quale voi vivi ci dovreste ringraziare ogni giorno. Non guardare quel gruppo di anime nere là in fondo, quelli sono i fascisti e noi non ci parliamo, ma guarda di fronte a te, il Cimitero indiano. Lì è custodita la memoria di centinaia di soldati Sikh che hanno combattuto contro i nazisti nell’Ottava Armata Britannica, per la liberazione di un paese che non si merita più niente.
So che Beatrice conosce la storia e che mio figlio l’ha cresciuta bene, ma ci tengo a ricordarle che da vivo ho pagato caro il mio antifascismo, ho preso le botte e l’olio di ricino perché mi rifiutavo di iscrivermi al loro partito, e sono morto a poco più di sessant’anni perché ero malato ai polmoni ma non mi potevo curare, i dissidenti come me erano condannati alla miseria. Mi sarebbe piaciuto far studiare mio figlio, era un bambino sveglio e intelligente, ma dopo la quinta elementare l’ho dovuto mandare a lavorare, mia moglie si ammazzava già di fatica in fabbrica e a fare le pulizie nelle case dei ricchi per mettere insieme a stento il pranzo con la cena, e a volte nemmeno quello. Ma è ora che le presenti Aurelio. Prendo per mano mia nipote e la accompagno dal mio più illustre concittadino, che in tutti questi anni mi ha onorato della sua amicizia.
– Cara Beatrice…
Aurelio si esibisce in un baciamano che solo i gentiluomini della sua epoca sanno fare.
– Dunque cara Beatrice, tuo nonno ti avrà spiegato perché stiamo telefonando a tutti i parenti ancora in vita e li convochiamo qui. No? Bene, te lo spiego io. Guarda tuo nonno, conosci la storia della sua vita. Pensa a tuo padre. A 10 anni lavorava come garzone di bottega, è scampato per miracolo ai rastrellamenti tedeschi, ha lavorato in fabbrica quando la Celere picchiava gli operai coi manganelli e sparava loro addosso. Il tuo babbo è rimasto orfano molto presto, ma la dignità, l’orgoglio e l’amore per la libertà che tuo nonno qui presente gli ha instillato hanno fatto sì che non abbia mai smesso di combattere. Lui e i suoi compagni hanno conquistato condizioni di lavoro più decorose, una paga migliore, si sono costruiti una casetta e hanno fatto studiare i figli. Quando ti sei laureata, tuo nonno ha offerto da bere a tutto il cimitero. Fascisti esclusi, naturalmente.
Vedo che mia nipote è perplessa, si chiede come faccio a sapere che si è laureata. Difficile spiegarle che mi sento ancora con sua nonna, e che suo padre, mio figlio, va da lei ogni settimana e le racconta tutto quello che succede… Non mi offendo, in fondo l’ha cresciuto lei, io sono morto che lui era ancora piccolo. Però è arrivato il momento della sveglia.
– Cara nipote, quando sono morto i bambini andavano a lavorare a 10 anni o anche prima. Ci scaldavamo con la legna, se c’era, o col carbone che si andava a raccogliere lungo la ferrovia, lo scarto delle macchine a vapore. Tu sei cresciuta in un mondo che progrediva, sei nata in due stanzette col cesso in cortile ma poi i tuoi genitori si sono fatti la casa col bagno e i termosifoni, tu sei andata a scuola, sei la prima della famiglia che ha fatto l’università, hai sempre lavorato e non conosci l’umiliazione delle donne che dovevano chiedere l’elemosina al marito. E adesso? Quanti anni hai? 55? Ah, quasi 56… E speri di andare in pensione? Scordatelo!
Voglio che lei capisca, che stanno perdendo tutto. Qui nel tempo è arrivata gente che ha combattuto e si è fatta ammazzare per strappare qualche diritto ai capitalisti e lasciare ai figli una vita migliore, più giusta, per vederli camminare con la schiena dritta, e questi figli che cosa hanno fatto? Si sono addormentati davanti alla TV sfogliando Capital, si sono illusi di essere “ricchi”, hanno perso la coscienza di classe, hanno sognato di essere in un Drive In e si sono svegliati sotto a un ponte, senza più nemmeno gli occhi per piangere. Gli è successo come quelli che vengono narcotizzati dai ladri, si svegliano e in casa non c’è più niente. Quando abbiamo saputo che adesso i negozi sono aperti anche il 25 Aprile e il 1° Maggio, qui al cimitero è scoppiata la rivolta. Madonna bucaiola, ma siamo morti proprio per niente, se tutto quello che sapete fare in un giorno di festa è guardare le vetrine di un centro commerciale, come polli di allevamento, senza pensare a quei poveri disgraziati di commessi, schiavi senza diritti, pagati pochi spiccioli!
– Nonno lo so che siamo nella merda, non sono mica scema… Stiamo perdendo tutto, e per fortuna io non ho avuto figli da lasciare in questo disastro, ma io, da sola, che cosa posso fare?
– È per questo che vi stiamo chiamando tutti. Perché non dovete più essere soli. Dei giovani ci fidiamo poco, non sanno neppure da cosa li ha liberati, la Liberazione. Buon per te che non fai l’insegnante, Aurelio ti avrebbe dato un cazziatone da non riprenderti mai più. Ma su quelli della tua generazione ci contiamo. Vieni con me.
L’ho presa per mano e l’ho accompagnata in una cripta. Lì ogni giorno si incontrano i nostri parenti che si sono stancati di dormire. Parlano, fanno piani, discutono. Non si vogliono arrendere. I fucili che i partigiani avevano nascosto sotto terra non funzioneranno più, forse, ma la scintilla che hanno acceso è rimasta viva, siamo noi morti che l’abbiamo custodita fino a questo momento, una scintilla nel buio dell’ignoranza e del torpore. Fatene buon uso. Noi che non dormiamo mai, abbiamo deciso che anche voi vi dovete svegliare. E fate presto.
- Cinquanta sfumature di Amore – L’Amor Felino - 17 Febbraio 2014
- Resistenza in vita - 3 Febbraio 2014
- Non è mai troppo tardi - 6 Gennaio 2014