di Margherita Merone
Questa volta il titolo non viene da me, non l’ho pensato prima né alla fine, mi sono alzata nel cuore della notte, ho cominciato a scrivere qualcosa poi quando è arrivato il momento conclusivo mi sono ricordata di un pensiero che mi aveva manifestato un tesoro di amico, giusto qualche giorno prima, in un momento particolare, guardandomi negli occhi, sussurrandomi qualcosa che non mi aspettavo, che mi ha lasciato sul momento senza parole, sorpresa, che mi ha fatto sentire importante, piena di gioia. Non mi sentivo così da tempo ed è stato meraviglioso.
Mi riferisco all’amore, quel tipo di amore umano, dolce e appassionato che è insieme ti amo e ti desidero. Subito dopo il mio pensiero ha preso il volo, si è spinto in alto, andando oltre la terra, attraversando il cielo, lì dove c’è un amore che è dono, così ho cercato di spingermi fin dove mi è stato possibile ma abbastanza per sentire l’amore che proviene da Dio, che trascende la verbalizzazione. Si può tentare di spiegarlo ma è più facile sentirlo.
È guardando la Croce che ho chiaro cosa voglia dire sentirsi amati ed essere salvati. La salvezza è una questione difficile di questi tempi, nessuno ci pensa più, tanti sono convinti di riuscire a salvarsi da soli, chi in un modo chi nell’altro, ma la salvezza vera ci è stata donata da Cristo, per amore. Studiando in un testo di cristologia il capitolo che tratta della Croce e Risurrezione mi sono resa conto che pur essendo al centro delle professioni di fede e della predicazione, il tema soteriologico (soterìa, salvezza) nell’evento pasquale non è stato un punto centrale nelle definizioni dei concili antichi. L’efficacia salvifica della croce veniva affermata come sacrificio con cui Cristo ci ha redenti, soddisfacendo per i peccati di tutta l’umanità.
C’è stato un periodo in cui nei misteri principali della fede si trattava dell’Unità e Trinità di Dio, dell’Incarnazione, della passione e morte ma senza menzionare la risurrezione. Perché questo? Si trattava solo una teologia soddisfattoria: siamo stati redenti dalla morte di Gesù che, morendo al posto nostro, ha pagato il debito di Adamo e la risurrezione finiva nell’apologetica – considerata un super miracolo, serviva a dimostrare la divinità di Cristo. La redenzione era vista solo secondo una concezione amartiocentrica, nell’ottica del peccato (amartìa) dell’uomo, secondo una visione deduttivistica, o meglio una volta che si era stabilita la necessità della redenzione a causa del peccato dell’uomo e considerando la natura divina e umana di Cristo, tutto questo era considerato il presupposto sufficiente per dedurre la possibilità della redenzione. Col tempo è caduta l’ottica deduttiva, guardando alla vita di Gesù, superando la visione amartiologica, guardando il mistero pasquale nell’ottica agapica, perché il sacrificio di Cristo sulla croce non è l’uccisione, l’immolazione di una vittima, che più sangue versa più ci salva ma è atto oblativo, è l’amore trinitario di Dio che diventa liberazione dal peccato; non c’è nessun prezzo da pagare a Dio, non si parla più di soddisfazione.
I linguaggi soteriologici nell’Antico Testamento sono quelli di redenzione dove Dio è il redentore che ci riscatta, ci salva, di espiazione dove è Dio che espia, ossia che purifica, che toglie i peccati, di giustizia, non in senso distributivo, dando a ciascuno ciò che gli spetta ma come volontà salvifica di Dio. Nel Nuovo Testamento si presenta un evento nuovo, Gesù, c’è quindi non solo una concezione di salvezza ma esperienza di salvezza, già realizzata e i linguaggi fanno riferimento al martirio profetico: Gesù è il profeta per eccellenza che muore martire e il suo sangue è via di salvezza, alla giustizia di Dio nel significato già detto, alla contemplazione della sua gloria nell’evento pasquale, a Cristo che è il sacerdote eterno, unico, definitivo e il sacrificio, offerta di se stesso, compiuto una volta per sempre. Gesù offre liberamente se stesso come vittima di espiazione per i nostri peccati e quel sacrificio cruento viene ripresentato nella messa in modo incruento attraverso i segni sacramentali del pane spezzato e del vino versato, ovvero dell’eucaristia.
Studiando come sono stati approfonditi e interpretati i contenuti dei vari linguaggi, si vede come anche al Concilio di Trento troviamo ancora le categorie di soddisfazione, merito, sacrificio, riscatto. È stato il Concilio Vaticano II a rimettere la croce al centro della teologia, superando quel linguaggio troppo giuridico, affermando che il Cristo crocifisso e risorto è la pienezza della rivelazione, manifestazione dell’amore infinito, della dedizione incondizionata. Dio salva perché si rivela e così è cambiato anche il linguaggio: l’aspetto positivo dell’azione redentrice di Cristo viene oggi espresso come riconciliazione, è in Cristo che è avvenuta la nostra riconciliazione perfetta con Dio. L’elemento formale del sacrificio di Cristo è l’agape. Dio è il redentore, l’uomo il redento, non c’è da parte dell’uomo un prezzo da pagare a Dio perché la sua è un’iniziativa che nasce dall’amore e a questa corrisponde la libera risposta da parte nostra.
Come al solito parto da una cosa, la mente non si ferma mai, è sempre alla ricerca di qualcosa, sono la solita “interdisciplinare” come sottolinea il mio amico quando vuole prendermi in giro.
Ora mi lascio andare, mi rilasso, torno a pensare all’amore umano, alle emozioni che mi fa provare il mio amico, che non smette di manifestarmi il suo amore e questo mi sconvolge, mi coinvolge, mi avvolge, come quando vedo la Croce.
Quando il mio amico mi dice “ti amo” e sento che il suo cuore batte forte, lo sguardo è felice, gli occhi sono luminosi, il corpo freme di passione e mi stringe così forte come se volesse abbracciarmi anche l’anima. In quel momento provo la stessa emozione che vivo davanti al Crocifisso-Risorto, quei meravigliosi, sconvolgenti, sublimi momenti di eternità.
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