Per Hina Saleem, per Jamila e per tutte le altre
Quando leggo le terribili storie di ragazze musulmane immigrate in Italia, che vengono malmenate o addirittura uccise dai familiari perché si rifiutano di sottostare agli usi patriarcali di un paese che non è più il loro, mi sento coinvolta emotivamente, e anche molto. Mi viene da dire alle giovani italiane: “Ragazze, non date mai niente per scontato”. I diritti si conquistano in cento anni di lotte e si perdono in dieci, come sta succedendo ora con il lavoro e con il welfare. Queste ragazze immigrate che combattono per la loro vita, per il diritto di non essere vendute con un matrimonio combinato, di studiare, di lavorare, di uscire di casa da sole, di vestirsi come a loro piace e non infagottarsi in un sudario come fossero cadaveri putrescenti, mi provocano una grande agitazione. Da una parte faccio il tifo per loro, naturalmente, dall’altra mi fanno paura le loro coetanee occidentali che sono nate, per loro fortuna, in un’epoca e in un paese in cui i diritti per i quali queste ragazze si fanno ammazzare sembrano qualcosa di così scontato e banale da non meritare discussione.
Care ragazze italiane, non è così. Io sono cresciuta negli anni Sessanta, e non in Pakistan e nemmeno nel profondo Sud, ma in Romagna, in una regione ricca, moderna, sviluppata, del nord, e pure “di sinistra”, e non dico di aver dovuto combattere come queste ragazze per avere diritto alla mia vita, però è stata dura, e me lo ricordo bene. Le donne della famiglia di mia madre non lavoravano fuori casa: dopo la quinta elementare andavano “a bottega” da una sarta per imparare il mestiere e poi cucivano pantaloni e maglie in casa, sotto l’occhio vigile del padre e dei fratelli, finché non si sposavano e diventavano di proprietà del marito. Almeno una figlia femmina doveva rimanere nella casa dei genitori per occuparsi degli anziani e dei fratelli scapoli. Mia madre ha avuto la possibilità di “scegliere” – anche se in minima parte – chi sposare, ma mia nonna no: anche lei è stata venduta a 17 anni, con un matrimonio combinato, a una famiglia in cui avevano finito le donne e per le faccende domestiche dovevano procurarsi una femmina. I ricchi avevano le domestiche e i poveri prendevano moglie. Nonna Velia ha passato tutta la sua vita tra le gravidanze e le botte del marito. D’altra parte lo diceva anche il Duce, che era romagnolo, “o figli o botte”, e lei è stata molto fortunata, ha avuto entrambi. Ricordo questa donna, diventata enorme dopo sette figli, portare in casa le cassette di legna su per due piani di scale mentre il nonno leggeva il giornale sul dondolo. Nonna Velia è morta di vecchiaia prima di compiere sessant’anni.
L’altra nonna, invece, Maria, era stata a lavorare in fabbrica, prendeva uno stipendio e ha mantenuto il marito malato e mio padre da piccolo; quando io sono nata, lei percepiva anche una pensione, e aveva tutto un altro carattere. I piedi in testa a nonna Maria non li metteva nessuno, comandava come un generale, e lì la mia testolina di bambina ha cominciato a fare qualche ragionamento. Forse era diverso avere la busta paga o il libretto della pensione, oppure dover vendere di nascosto le uova delle galline per comprare le scarpe ai bambini.
Di mia madre ho già parlato, la sua è stata una vita sottomessa alle vessazioni domestiche. Il marito lo ha scelto da sola, ma non ha avuto molto tempo per riflettere; praticamente il primo ragazzo che ha conosciuto si è presentato in casa di suo padre a chiedere il “fidanzamento ufficiale” e da lì era quasi impossibile tornare indietro. Una ragazza che “era già stata fidanzata” era marchiata a fuoco, nessuno la voleva più, era usata. Ricordo la madre di una mia amica, che cominciò a prendere le botte dal marito ancora prima di sposarsi. Una volta le ho chiesto perché aveva sposato un uomo che già la picchiava, e lei mi disse che aveva manifestato ai genitori l’intenzione di lasciarlo, ma se lo avesse fatto non sarebbe mai più uscita di casa, l’avrebbero chiusa a chiave in una stanza a trascorrere tutto il resto della vita come in prigione.
D’altra parte picchiare le mogli, le figlie e le sorelle era prassi comune, se non erano obbedienti e se “rispondevano”. Per evitare le botte bisognava eseguire gli ordini senza fiatare, meglio ancora tenendo gli occhi bassi. Uno dei miei primi ricordi è di un vicino di casa estremamente violento con la moglie, le figlie e anche le nuore. Lo sentivo sempre urlare, lo vedevo picchiare quelle donne e io avevo paura; se mi si avvicinava scappavo e correvo a rifugiarmi in braccio alla nonna e tutti ridevano, non capivano il perché, mi chiedevano sempre “Ma che cosa ti ha fatto Marò?”. Era diventato il gioco del cortile, quello di Marò che veniva verso di me e io che scappavo urlando. A nessuno è mai passato per la testa che una bambina di quattro anni si terrorizzava a vedere un energumeno che urlava come un orco e seminava pugni e calci in giro. I bambini non capiscono, si diceva allora. Ho un ricordo talmente vivo davanti ai miei occhi che è come un film: Marò che insegue la nuora incinta con in mano il coltello per sgozzare i polli, e questa donna col pancione che scappa attraversando la strada di corsa. Il giorno dopo, la nuora ha partorito. Il collegamento l’ho fatto in seconda elementare: la mia compagna di banco mi svelò il grande segreto, i bambini non li porta la cicogna, e io chiesi spiegazioni a mia madre, la quale, molto imbarazzata, mi confessò che era vero: i bambini crescevano nella pancia della mamma. Logicamente le domandai come facevano a uscire, e la risposta fu “Fanno un taglio”. Due spiegazioni in una: ecco perché la mamma portava sempre il costume intero in spiaggia… per non far vedere la cicatrice! Ed ecco perché Marò correva dietro alla nuora incinta: per fare uscire il bambino! Ho continuato per diversi anni a guardare la mia pancia e a pensare che non ero molto disposta a farmela tagliare, da grande.
L’unica figura femminile positiva della mia infanzia è stata la maestra. Che differenza con la mia mamma, grigia, sciatta, sottomessa, e anche con le altre donne del quartiere… La maestra era una donna bellissima, alta, bionda, elegante, sempre truccata, viveva da sola e d’estate andava in vacanza con un’amica. Io l’amavo senza limiti e confini, e da grande volevo diventare come lei. Il suo esempio mi ha salvato la vita perché mi ha aperto un mondo: le donne non erano solo sacchi per le botte, come mia madre e le sue sorelle, ma c’erano anche quelle che non dovevano chiedere niente a nessuno, e per diventare come la mia maestra sentivo di avere una possibilità. Studiare. Ho passato l’infanzia e l’adolescenza sui libri, per essere sempre la prima in tutte le materie e conquistare il diritto all’istruzione che mi avrebbe aperto le porte della galera in cui, nel mio mondo, le donne venivano tenute rinchiuse. Sono stata fortunata perché erano gli anni Sessanta, la Golden Age del Secolo Breve, il lavoro c’era, la società progrediva, e una ragazzina sveglia, fiera e determinata poteva trovare nell’istruzione il grimaldello per forzare la serratura. Non so come me la sarei cavata oggi, con la prospettiva del precariato a vita e con l’impossibilità di rendermi indipendente economicamente; forse sarei diventata una tossica, o mi sarei arresa come mia madre. Ho avuto, per inciso, un’altra fortuna, quella di non avere un fratello maschio: in una famiglia operaia come la mia avrebbero fatto studiare solo lui, anche se fosse stato il più stupido caprone dell’universo. Avevo otto anni quando mio padre pronunci questa frase agghiacciante: “La figlia femmina è una fregatura, uno spende dei soldi per farla studiare e poi lei si sposa e son tutti buttati via”. Discorso fatto davanti a me, naturalmente, tanto i bambini non capiscono. Anche da lì ho tratto un’interessante conclusione, che se da grande non mi sposavo era meglio. Nel dubbio, per convolare a nozze ho aspettato di compiere 50 anni.
Le lotte dell’adolescenza sono state durissime: ogni piccolo spazio personale andava strappato, dalle due ore d’aria la domenica pomeriggio per fare una passeggiata con le amiche, fino al trucco, ai jeans, alla minigonna. E tutto si conquistava a schiaffoni. A volte non capivo nemmeno perché, non era facile seguire certi ragionamenti; per esempio un pomeriggio, rientrando a casa, passai davanti a un gruppo di ragazzini che mi rivolsero qualche commento salace. Io avevo dodici anni e loro pure, succede nella vita. Mio padre mi aggredì come una furia: li conosci? Che cosa gli hai fatto? Io non capivo, non gli avevo fatto niente, tornavo soltanto a casa. Un altro pomeriggio, sempre a dodici anni, ero seduta sui gradini della scala con due coetanei, un maschio e una femmina, e si chiacchierava; mio padre mi spedì in casa prendendomi a calci in mezzo alla strada. Anche lì non ci ho capito molto, ma visti i precedenti ho preso atto. A sette anni giocavo con la sabbia in cortile con un bambinetto della mia età; mio padre spedì a casa il piccolo in malo modo e poi mi apostrofò con questa frase lapidaria “Dici che da grande non ti vuoi sposare e poi giochi con Vanni?”. Credo di averci riflettuto per mesi, ero una bambina intelligente ma il nesso tra il matrimonio e le formine proprio non ce la facevo a coglierlo.
All’ultimo feroce attacco di violenza paterna però ho studiato la vendetta, e mi è riuscita bene. Avevo sedici anni e un piccolo grande amore della mia stessa età, quelle storie brevi e devastanti che rimangono nel cuore per tutta la vita. Il coprifuoco scattava all’ora del rientro di mio padre dalla fabbrica, le sei di sera, e il mio ragazzo mi accompagnava a casa con il vespino. Mio padre ci vide e a casa mi tirò giù dalle scale, facendomi fare due rampe a ruzzoloni mentre mi urlava della puttana e della troia. Sono scappata a casa dei miei zii e da lì ho preso accordi per telefono con una ragazza che teneva un piccolo studio per dipingere. Mi sono fatta lasciare le chiavi sotto lo stuoino. All’una di notte mi sono alzata, ho preso i miei risparmi – cinquemila lire – un cambio di abiti e il vocabolario di latino, perché il giorno dopo c’era compito in classe, ho inforcato la bicicletta e ho attraversato tutta la città per trovare rifugio in quel laboratorio che non era nemmeno riscaldato. Al mattino mi sono lavata la faccia in un bar e sono andata a scuola. Per la strada ho incontrato i miei che mi stavano cercando come disperati; erano andati in stazione, a casa delle mie amiche, avevano fatto un subbuglio indecente, e mio padre disse “Adesso vieni con me che andiamo dal dottore”. Credo che volesse sapere se ero ancora vergine. Gli ho risposto che io andavo a scuola a fare il compito di latino e che avremmo parlato dopo, a casa, ma se mi avesse rimesso le mani addosso anche solo una volta, non mi avrebbe visto mai più.
La minaccia è servita, da allora non mi ha più picchiato, né lui né nessun altro. Non avrei tollerato alcun ulteriore atto di violenza fisica nella mia vita. Ha continuato a urlare e sbraitare, per la sua mentalità è stato molto difficile accettare le mie scelte di vita, poi col tempo si è adeguato. Ho voluto scrivere queste cose non per lamentarmi, anzi, ritengo di essere stata fortunata, sono cresciuta in un’epoca in cui i diritti delle donne e dei lavoratori progredivano; impegnarsi nello studio dava una garanzia di riscatto sociale anche ai figli degli operai, e per merito dell’Età dell’Oro degli anni Sessanta e Settanta sono riuscita a diventare economicamente indipendente molto presto. Però ci tengo a far capire alle ragazze di adesso che nessuno ci ha regalato niente, abbiamo lottato per ogni conquista. In Italia abbiamo il divorzio solo dai primi anni ’70, fino al 1978 l’aborto era un reato, e questo magnifico art. 587 del codice penale, il cosiddetto “delitto d’onore”, che recitava “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”, è stato abrogato solo nel 1981. Praticamente, l’altro ieri.
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sto pensando alla mia collega di stanza, che il giorno dell’8 marzo non riusciva a capire che cosa ci sia tanto da festeggiare.
Ah, son soddisfazioni…
Grazie Miria…tutta una vita insieme lascia il segno! Quasi gemelle siamesi… Cerco di mantenere la leggerezza e l’ironia che sono stati il più bel regalo dell’età anziana. Almeno un piccolo compenso alle rughe e alla vittoria schiacciante della forza di gravità…
Grazie per la delicatezza e al tempo stesso la precisione con cui parli del passato e…del presente.