Noi ragazzi della Piccionaia siamo sempre un po’ turbolenti, ma il 24 aprile di solito oltrepassiamo i limiti della decenza, tanto che il custode si fa portare una cassa extra di vodka e si chiude nel suo bugigattolo, giurando di non volerne sapere più nulla di noi. Il problema è che fa un po’ fatica a sfrattarci. La colpa è sempre di Aurelio, il nostro concittadino più illustre. Ha questa fissa, il 25 aprile si vuole portare la corona da solo. Così tutti gli anni passiamo la vigilia della Festa della Liberazione a razziare i fiori rossi dalle tombe, intrecciamo la corona più grande che riusciamo a fare e a mezzanotte la portiamo in piazza, proprio sotto la sua statua. E ogni volta il Resto del Carlino esce col solito titolo, “Misterioso omaggio all’illustre concittadino…” e bla bla bla. In compenso il 25 dormiamo tutto il giorno; dal Cimitero Monumentale alla piazza ci sono tre chilometri e per le nostre vecchie ossa non è impresa da poco percorrerli tutti senza rovinare la corona.
Invece quest’anno… Che strano. Nessuno della banda che va in giro tra le tombe a rubare rose e garofani. E c’è pure una bella luna, che a noi trapassati piace tanto. Guardare la televisione a casa del custode ci dà fastidio, io l’ho sempre detto, e l’ultimo TG è stato letale. Quest’inverno noi ragazzi ci siamo spaccati le costole per convincere tutti i parenti che era necessario votare per mandare a casa quel nano schifoso, pedofilo, mafioso e piduista che sta rovinando l’Italia da vent’anni, anzi, noi lo vorremmo mandare in galera, o ancor meglio all’inferno, ma ci andava bene anche spedirlo in una delle sue villa ai Caraibi, purché fuori dal paese per il quale tanti di noi si sono fatti ammazzare. E ci sembrava di essere arrivati a buon punto, almeno prima delle votazioni. Poi è crollato tutto. I nostri sforzi, le nostre speranze, il sacrificio che abbiamo fatto per l’Italia… niente. Ancora una volta, non è servito a niente. E l’ultima botta ci ha ammazzato.
Il pallido avanzo del partito che tanti anni fa era dei lavoratori, e che ormai è diventato un’oligarchia in cui ci sono più correnti che militanti, e tutte fanno le coltellate fra loro, ha salvato di nuovo quel culo flaccido e sta preparando un governo con i suoi nani e le sue ballerine, oltre agli spocchiosi dipendenti della finanza che si fanno chiamare “professori”. E non mi riferisco alla Guardia di Finanza che dovrebbe far pagare le tasse agli evasori, oh no… Parlo della finanza che specula sui risparmi della gente, sul loro lavoro, sulla loro vita, e succhia la ricchezza degli altri, peggio dei vampiri. Il partito che fu di Gramsci adesso fa i governi con un delinquente che si è costruito un impero immobiliare coi soldi della mafia, ha messo le mani su tutti i canali televisivi grazie ai politici che si è comprato, e da vent’anni desertifica il poco cervello che è rimasto agli italiani con telenovele, tette, culi, e promesse talmente ridicole che qui da noi, al cimitero, fanno ridere anche gli spiriti più svaniti, e invece di là, nel vostro mondo di cosiddetti vivi, gli fanno vincere le elezioni. Mi chiedo come fate a dividervi un unico neurone in sessanta milioni di abitanti, e spero a questo punto che non vi venga mai una pensata intelligente, perché morirebbe di solitudine.
Intanto che andavo in giro per il cimitero a rimuginare sul solito tragico dilemma, sul che cosa ci siamo fatti ammazzare a fare, sono andato a sbattere proprio contro Aurelio, il nostro concittadino più illustre, un repubblicano di quelli di una volta, uno che ha partecipato alla costituzione delle Repubblica Romana… Oh ragazzi, mica pugnette! Quelli sì che erano avanti. E mi viene spontaneo chiedergli della sua corona. Di solito Aurelio è un gentiluomo compunto, indossa un completo tre pezzi col cravattino, fa il baciamano alle signore… Non mi aspettavo una tale valanga di bestemmie in romagnolo. Mi ha perfino detto dove me la posso mettere, la corona. E dove cacchio va, con quel passo marziale? Non sarebbe la prima volta che gli dobbiamo rimettere a posto il femore nell’anca, dovrebbe avere un po’ più di riguardo per il suo vecchio scheletro.
Ho trovato i ragazzi al solito posto, sotto la quercia grande, dove ci incontriamo per giocare a carte, bere la vodka che rubiamo al custode, discutere, litigare e raccontare storie. Insomma, la solita vita di un centro anziani qualunque, solo che noi siamo già morti. E oggi siamo anche in tanti. I partigiani ci sono tutti, e urlano più forte del solito. Vogliono occupare il cimitero. Chiedo la parola per tentare di spiegare, garbatamente, che noi il cimitero lo abbiamo già occupato da un pezzo, che più in là di qui non andiamo… ma mi zittiscono in malo modo. Come se fosse colpa mia se i fascisti mi hanno ammazzato nel 1941, prima che io potessi dare il mio contributo attivo alla Resistenza. Come se fosse ancora colpa mia se la sinistra, nella quale ho militato, ha sempre messo le sue divisioni davanti all’interesse comune, aiutando il nemico invece di distruggerlo. Mi ricordo bene, quanto ero incazzato dopo l’omicidio Matteotti. Era il momento di abbattere Mussolini e invece i deputati socialisti e comunisti cosa fecero? L’Aventino. Quei cretini. «Ieri l’altro eravamo i vincitori senza quasi saperlo, e quello era il vinto e lo sapeva. Ieri si sono già rinfrancati». Quello non è il nano mafioso pedofilo e piduista di cui sopra, quello è Mussolini, e queste parole le scrisse Filippo Turati ad Anna Kuliscioff nel giugno del 1924, anche se sembrano pronunciate oggi. Proprio come in questo anno di disgrazia 2013, il mostro sembrava destinato a cadere e invece le opposizioni scelsero di ritirarsi dal Parlamento. E in base al principio che gli assenti hanno sempre torto, la scellerata manovra spianò la strada alla dittatura. E poi abbiamo continuato a farci riconoscere, eccome… I comunisti andavano per conto proprio, gli esuli di Giustizia e Libertà a Parigi discutevano se chiamarsi così oppure Libertà e Giustizia, e intanto da noi, ai piani alti, c’erano i corsari della finanza, i capitani d’industria, i faccendieri di grande e piccolo cabotaggio, i lestofanti di varia estrazione, i pescecani arricchiti con le forniture militari a fattura gonfiata o con il mercato nero, i trafficanti di favori, mentre ai piani di sotto un popolo povero era alle prese con la disoccupazione o la sotto-occupazione, con la battaglia quotidiana per la sopravvivenza. Non me ne faccio una ragione, siamo di nuovo a quel punto.
Aurelio fa tacere tutti e alza la mano per prendere la parola. E cos’ha in mano? No, di nuovo quel cazzo di telefonino… Va bene che anche noi trapassati ci siamo tenuti al passo coi tempi, abbiamo l’ADSL per andare in internet – oddio, veramente ce l’hanno gli uffici cimiteriali, ma è sempre lì, mica la portiamo via… – abbiamo i cellulari – va bene, rubati ai parenti in visita, ma tanto c’è gente che cambia modello ogni sei mesi… – però prima delle elezioni ci siamo sfiniti di mail e telefonate, e se questo è il bel risultato, io torno in biblioteca a scrivere quella saga fantasy che mi sta riuscendo tanto bene. “Aurelio, a chi cacchio vuoi telefonare questa volta, ai Caschi Blu?” gli chiedo. Madonnina, se mi ha risposto male… Era meglio quando si faceva la corona da solo, oggi proprio non lo si regge. Dice che l’idea dell’occupazione è buona, ma la vuole realizzare a modo suo. E quando mai al cimitero monumentale non si fanno le cose a modo suo?
Mi porge il suo cellulare nuovo, solo perché lo ha appena rubato a uno sborino che aveva il modello del film di James Bond – Aurelio è un po’ vanesio, se non l’avete capito – e mi ordina di telefonare a mia nipote. “Ma dai” gli dico ridendo “mia nipote Beatrice? Starà occupando una beauty farm…”. Non dovevo dirlo. Aurelio stima molto la mia nipotina e quando vuole realizzare una delle sue pensate, lei gli fa da braccio destro, autista, trovarobe, di tutto un po’. Inutile discutere con quel vecchio pazzo che ha la testa più dura del blocco di marmo in cui fu scolpita la sua statua. Chiamo mia nipote e le passo l’anziano decerebrato, così si mettono d’accordo tra loro. Io non ne voglio sapere e torno al mio manoscritto di dame, cavalieri, armi ed amori, come diceva il Ludovico.
Oh, quando chiama Aurelio, mia nipote corre. La sua macchinina ha fatto non so quanti viaggi in questa vigilia di festa, e ogni volta scaricava roba nel campo abbandonato dietro al cimitero, proprio sul retro della nostra piccionaia. Peccato che di giorno non possiamo aiutarla, questa è una piccola città e farebbe troppo scalpore un via vai di scheletri e cadaveri putrefatti che trasportano pacchi, e chissà La Voce di Romagna che titoli ci tirerebbe fuori. Però al tramonto, pare, c’era tutto. Il vecchio repubblicano di quelli di una volta ha chiamato a raccolta i partigiani, che almeno sono morti giovani e un po’ di ossa buone le hanno ancora, e poi sono i più incazzati di tutti, e si è messo a dirigere i lavori. Io volevo stare rintanato nel mio loculo, poi mi sono detto “Oh ragazzo, cosa fai, l’Aventino anche tu?”, ho chiamato gli amici del circolo e siamo andati a dare una mano. E ne è valsa la pena. Modestamente, come tipografo ero bravo e la composizione dei caratteri è venuta perfetta. Quali caratteri? Ma quelli dello striscione, ovviamente.
La mattina del 25 aprile i visitatori del cimitero monumentale si sono trovati davanti uno spettacolo indimenticabile. Ogni partigiano aveva fatto stampare un poster con la sua foto, sulla quale aveva scritto una dedica, un pensiero, un augurio, una maledizione… Ecco, di quelle ce n’erano proprio tante. Lo striscione rosso era enorme, e la scritta “Ma cosa siamo morti a fare?” si vedeva fin dal casello dell’A14. Ed era necessario, perché così chi ha ancora due soldi per la benzina e va al mare, magari ci fa un pensierino e se lo chiede. Li ho sentiti io stesso, due cretinetti che si domandavano per quale motivo giovedì non c’era scuola. “Boh, dicono che c’è una liberazione…”. Ve la darei io, la liberazione, patate lesse, anzi, la darei ai vostri genitori e ai vostri insegnanti, avessi ancora tutte le ossa come una volta. E poi, i fiori. Rose, garofani, papaveri, di tutto, purché rossi. Un mare di rosso fuori dal cimitero, sul marciapiede, lungo la strada, dal casello dell’A14 fino alla piazza grande. Un oceano di rosso come in città non si era mai visto. E mia nipote è lì fuori dal cancello del Monumentale, con un mazzo di rose rosse tutte per me.
Sono commosso, le chiedo come ha fatto a procurarsi un raccolto simile… Ma quanto ha speso di fiorista? “Niente, nonno. Mi hanno aiutato tutti”. “Ma tutti chi?”. “Tutti quelli che occupano il cimitero con te. Tutti quelli che sono stati mandati a combattere la guerra dei Savoia per annettersi uno sconosciuto pezzo di Austria, tutti quelli che hanno subito il fascismo e la dittatura, tutti quelli che hanno preso le botte dalla Celere per conquistare uno Statuto dei Lavoratori che adesso l’ultimo “erede” del partito che fu di Gramsci definisce “un’anticaglia degli anni ’70”, tutti quelli che non volevano morire sotto Berlusconi ma non ce l’hanno fatta… Insomma nonno, un sacco di gente, qua dentro”. Mi guardo intorno e mi sento prendere per mano. È la professoressa di italiano e storia che mia nipote ha avuto alle medie. “Vedi che spiegare la Resistenza ai ragazzi aveva un senso? Adesso sembra incredibile, ma allora stavano seri e tranquilli quando leggevamo il Diario di Anna Frank”. Sento i sorrisi dei miei amici, dei miei vicini di loculo che hanno passato la notte a raccattare tutti i fiori rossi nel raggio di chilometri. Non li posso vedere, perché noi trapassati di giorno non amiamo esporci alla luce del sole e agli sguardi dei cosiddetti viventi, ma oggi fischia ancora il vento. Lo vedo da come si muovono l’erba e i fiori, una larga onda dolce che non si sottomette, ma vuole avanzare. E canta una canzone dimenticata, ma non sepolta. La canzone delle speranza e della rinascita. La canzone di cui noi, morti di un’altra epoca, ricordiamo ancora le parole.
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