di Elisabetta Bolzonaro
Fuori moda, desueto, antiquato, l’amor di patria sembra un ricordo polveroso, chiuso tra le pagine di un libro di storia, eppure tanti sono morti con questa parola sulle labbra. Ma oggi, nel vaniloquio delirante della politica in cui il “pil” si confonde con il “pilu”, è sempre più difficile provare l’orgoglio dell’appartenenza.
È anche vero che ci piace sempre sputare un po’ nel piatto dove mangiamo, tranne quando gioca la Nazionale e allora sotto con uso e abuso di bandiere, tutti commossi guardando i calciatori che, mano sul cuore intonano, si fa per dire, l’inno di Mameli: qualcuno però, potrebbe spiegare a quei gnoccoloni strapagati che “stringiamoci a corte” non è un’ammucchiata tra nostalgici monarchici, ma è “stringiamci a coorte”, cioè schierati per un fine comune!
Paese bizzarro il nostro che, a 150 anni dall’unità d’Italia, mai veramente unita, per merito di quella gatta sempre incinta partorisce un gruppo di dannati che rinnega “Fratelli d’Italia”, sostituendolo con il “Va, pensiero” di Verdi, e qui l’ignoranza vola libera nel cielo che generoso l’accoglie: Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, scelse proprio l’inno di Mameli, il cui vero nome è Canto degli Italiani e non la Marcia Reale, a simboleggiare la nostra Patria accanto alla Marsigliese e a God Save the Queen, perciò appare ancora più grottesco il simbolico rifiuto di appartenere a uno Stato unitario. In quale altro posto potrebbe succedere questo? Come se un bel giorno metà degli Stati Uniti decidesse di adottare come inno “Oh my darling Clementine” per fare dispetto all’altra metà.
Ognuno è figlio del proprio tempo e i ventenni di oggi, mentre guardano svanire la possibilità di progettare il loro futuro, più che all’amor di patria, pensano all’espatrio: in un immaginario salto temporale, il Mameli di oggi sarebbe un ragazzone disilluso prigioniero della tecnologia, in una cameretta che sembra la Nasa dove sua madre, la marchesa, entrando senza bussare per cazziarlo riguardo l’incostanza negli studi e guardandolo furente, mentre lui solleva indolente da un orecchio la sua “Doctor Dre”, si sentirebbe rispondere: “Scialla mami, non sclerare, sto scrivendo una nuova song che spacca… tranqui, con questa situation il tuo baby diventerà famoso, sono tre giorni che mi sbatto e adesso devo briffare Miki a palla! E telefonando all’amico musicista Michele Novaro: “Bella bro, tre giorni di devasto e finalmente ho finito la song che passerà alla storia, downloadala e sbattici sopra una music da paura, ok bro? Bella zio!”
Questo è l’oggi e il fervore patriottico che alimentava gli ideali di Mameli sembra appartenere a un’epoca lontanissima, ma anche lui aveva solo 20 anni quando nel 1847 compose i versi che, con la musica impetuosa di Michele Novaro, diedero vita al “Canto degli Italiani” che presto risuonò nelle strade; nonostante la salute cagionevole, Goffredo condivise pienamente gli ideali mazziniani e partecipò ai principali fatti d’armi tra il ’47 e il ’49, fino all’ultima battaglia romana in cui, beffato dal destino cadde sotto il “fuoco amico” ferito a una gamba dalla baionetta di un commilitone, morendo in breve tempo divorato dalla cancrena, a soli 22 anni.
Una vita tanto breve quanto intensa, mai sporcata da quella retorica che ingoiò la storia successiva. Nel periodo sabaudo e durante il fascismo l’Inno fu bandito, ma al povero Mameli il destino ha riservato anche una beffa postuma: nel 1946, lo Stato italiano adottò l’Inno con la dicitura “provvisoriamente” e provvisorio rimane a tutt’oggi… un altro primato da esporre nella galleria della follia nazionale!
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