Patriota a chi? (Parte II)

 
partigiani


di Elisabetta Bolzonaro

 

Pedalando lungo la pista ciclabile che costeggia il canale, in mezzo a una natura bellissima e ostinata che ogni anno, al proprio risveglio, tenta di inghiottire questa striscia di terra artificiale per ritornare argine selvaggio, un piccolo rudere appare e scompare tra gli alberi, in balia delle stagioni, la primavera lo nasconde lentamente nel rinfoltimento della vegetazione, mentre l’autunno lo restituisce agli occhi di chi passa.

Da ciò che resta della piccola costruzione, è possibile immaginarla intera, i muri ancora dipinti di un azzurro tenue, le finestrine a un’anta sola con inferriate arrugginite e il perimetro intatto, due su e due giù come si diceva un tempo, una casetta di campagna minimale e priva di comodità ma carica di fascino: ogni volta mi fermo, la guardo e desidero scivolare lungo il breve dislivello per entrarvi ad ascoltare la voce del tempo, immaginandola viva e abitata dalle persone che per anni divisero quel piccolo spazio.

Solo lo scheletro di un’anonima magione?
No, la casa natale di un patriota, un partigiano, uno dei tanti che qui composero la rete di una coraggiosa resistenza, i combattenti dai fantasiosi nomi di battaglia spesso rubati al cinema o ai fumetti, giovani uomini, adolescenti, padri di famiglia, persone semplici che troncarono la propria quotidianità decidendo che la vita da uomini oppressi non valeva la pena di essere vissuta. E proprio da quella casetta partì con un fucile ad armacollo il più leggendario, conosciuto da tutti come “Palat”, un bel ragazzo dallo sguardo azzurro e impenetrabile che divenne celebre per il suo incredibile coraggio. Si narra di cani feroci che, incrociando il suo sguardo, arretravano intimoriti e se ne andavano con la coda tra le gambe e del medico condotto che rifiutò di correre subito a casa di sua madre, la quale era caduta e stava male: Palat non si scompose, gli disse solo che se la madre fosse morta, i morti sarebbero diventati due e se ne andò, ma il padrone di casa, presso cui si trovava il medico, lo ragguagliò sull’identità dell’uomo e quando Palat arrivò a casa, lo trovò già lì.

In questa zona la lotta partigiana fu intensa, nonostante la difficoltà di un terreno pianeggiante che poco aiutava a nascondersi, ma c’era sempre qualche contadino disposto a rischiare mettendo apartigiani B/N disposizione un fienile, un po’ di viveri, le proprie donne come staffette… E quanti chilometri percorsero quelle donne coraggiose su e giù per quelle che allora non erano certo piste ciclabili, ma cavedagne sconnesse e polverose. La polvere, un denominatore comune in quel periodo, polvere da sparo dei fucili, polvere e fumo quando gli alleati inquadravano un bersaglio interessante e sganciavano bombe; polvere che ricopriva biciclette e persone quando la sera folti gruppi di braccianti tornavano dal lavoro nei campi verso le loro case e nel fienile di una di queste era il quartier generale dei patrioti, al centro di una vasta estensione di terreni appartenenti “all’Opera pia dei vergognosi” cioé al Vaticano, i cui confini erano delimitati da due piccoli corsi d’acqua lungo i quali gli uomini scivolavano la notte per tornare alla base.

I tedeschi nei dintorni, fiutando certe presenze, irrompevano nelle case interrogando, cercando, urlando nella loro lingua incomprensibile finché, sicuramente dopo una segnalazione, arrivarono alla casa di un ragazzo che si adoperava come portavoce dei partigiani e, con sadica crudeltà, gli ordinarono di scavarsi la fossa mentre si preparavano ad assassinarlo. Ma un incredibile contrordine gli salvò la vita in extremis: si chiamava Agostino, e quando a guerra finita si deposero le armi per imbracciare di nuovo zappe e badili, egli comprese di non essere incline alla fatica e lo compresero anche i due fratelli i quali, piuttosto seccati, lo vedevano ogni mattina posteggiarsi all’ombra di un grande olmo usando gli attrezzi solo per appoggiarvisi, mentre scrutava pensoso il cielo; e dopo un po’, rassegnati, gli affibbiarono il nomignolo “Mai suda”.

ragazzeDei tanti ragazzi sconosciuti alle cronache ufficiali, che in questa zona lasciarono le giovani vite nella polvere insanguinata, qualcuno è stato ricordato con l’intestazione di una via, di una piazza, di un monumento, come Dino Gotti che dopo un periodo alla macchia, trovandosi nelle vicinanze della sua casa al centro del paese, non resistette al desiderio di salutare la mamma e fu freddato: e al centro del paese è ricordato in una via.

Dei tanti che si riconsegnarono alle meschinità della vita, uno rimescolò coraggiosamente le carte del proprio destino e fu proprio il leggendario “Palat”, il quale si sposò, ebbe una figlia e per anni condusse la vita del padre di famiglia, finché un giorno i suoi gelidi occhi azzurri incrociarono quelli di colei che gli avrebbe stravolto la vita: la “dama rossa”.

 

Negli anni Cinquanta, Giulia Occhini divenne popolare per la travolgente storia d’amore con Fausto Coppi che suscitò grande scandalo e il disprezzo dell’Italia conformista e democristiana, perché la donna volle seguire il suo amore e abbandonò il tetto coniugale, all’epoca un reato penale per il quale scontò un mese di carcere e un successivo periodo di domicilio coatto ad Ancona; questa donna, che infranse gli schemi stereotipati sull’inviolabilità della famiglia tradizionale a scapito dei sentimenti, ancora prima che se ne conoscesse il nome, venne ribattezzata “la dama bianca” da un giornalista francese che si chiedeva chi fosse quella sconosciuta in montgomery bianco vicino al campionissimo.

Una vicenda che intrigò tutta Italia, perciò fu automatico dare un colore a quest’altra dama considerata la rovina di una famiglia, e nel nostro piccolo ci fu da nutrire il gossip per anni; non si poteva immaginare una coppia più improbabile, lui schivo e minimale, lei eccessiva nell’aspetto e ricercata nei modi, inalberava con disinvoltura un palco di capelli inchiodati da una veletta, rossetto vermiglio e calze velate nere anche in piena estate.

La “dama rossa” abitava in una delle dependance del Palazzo, come veniva chiamato il piccolo borgo intorno al palazzotto Venturani Scalzi, era figlia di un vecchio fattore e, forse pensando di essere nata nella culla sbagliata, ebbe sempre l’atteggiamento distaccato della nobile decaduta; incurante di convenzioni e pettegolezzi, visse il suo amore con il partigiano fino alla fine.

Palat, ultranovantenne è sopravvissuto alla prima moglie, alla “dama rossa” e perfino al genero e vive solo e indipendente in un appartamento da queste parti.
Tempra inossidabile di un eroe d’altri tempi.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

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