L’immagine che ho davanti a me è in bianco e nero, ma non perché la televisione non era ancora a colori. Proprio perché il ricordo è grigio. Un grigio triste e compatto. L’inquadratura dovrebbe grondare tristezza, come una scena girata in un piovoso giorno autunnale. Mia madre è una figura spenta, con la testa bassa, che cuce a macchina nella cucina squallida di una famiglia povera anche di creatività e di fantasia, da sempre considerate, a casa mia, un lusso per ricchi. Non l’ho mai vista sorridere; da lei emanava una pesante aura di depressione, dagli occhi soprattutto, gli occhi di un cane bastonato. I capelli opachi e sempre in disordine, la figura sciatta e squallida, la bocca piegata all’ingiù, le rughe e la pelle grigiastra, magra come un chiodo, secca e ossuta come gli schiaffoni che mi allungava. Mio padre, perennemente incazzato con la vita e col mondo, la fabbrica, le orchestrine in cui continuò a suonare dal dopoguerra fino all’inizio dei complessi beat che odiò con profonda ferocia, la pretesa di avere tutti a sua disposizione. Ci aggiungiamo la nonna, madre vedova di figlio unico, suocera bisbetica che tiranneggiava mia madre e faceva di tutto per complicarle la vita, e il quadro è completo.
In effetti da ridere non c’era molto, una famiglia operaia in quegli anni non se la passava bene, ma non eravamo gli unici; avevamo parenti e vicini che se la passavano peggio, ma da loro non c’era un’atmosfera così tetra. In casa mia non si sentiva mai una risata, nessuno ci veniva a trovare, i miei non avevano amici. Il ricordo più vivo è quello dei pasti: facce lunghe intorno alla tavola, elenchi di conti da pagare, visite mediche, scarpe da comprare; lo squallore domestico tra mia nonna che brontolava, mio padre che impartiva i suoi ordini e mia madre che diceva sempre di sì, con gli occhi bassi; per me schiaffoni perché non volevo mangiare. Scene di tristezza e di silenzio, intervallate da litigi in cui mio padre faceva tutto da solo; lei non lo contraddiceva mai, per non essere picchiata. Le botte alla moglie erano un’abitudine, una prassi consolidata; ne ho viste tante dai nostri vicini, quando abitavamo in due camere d’affitto a pianterreno, col gabinetto in cortile. Tanto i bambini non capiscono, allora si diceva così, ma io capivo abbastanza da cominciare a sei anni a dire con estrema fermezza “Non mi sposerò mai” e a litigare con mia madre per non avermi fatto nascere maschio.
Lei era una figura veramente agghiacciante. Tiranneggiata dal marito e dalla suocera, oberata di lavoro, la casa e i vestiti per le clienti, eternamente preoccupata per la mia salute che non era un gran che – ma non so se le mie tossi e i miei raffreddori giustificassero tanta paranoia – mi sembrava una vecchia grigia e distrutta ancora prima dei quarant’anni. Stava sempre zitta, e se parlava con me era solo per sgridarmi o per sottopormi a interminabili interrogatori. Due amiche di allora, cresciute in famiglie più povere della mia ma molto più allegre, tuttora riconoscono una persona depressa quando ha gli stessi occhi di mia madre. Pare sia una diagnosi infallibile. Nessuno frequentava la nostra famiglia, a parte le clienti della sartoria casalinga, che però alle sei di sera dovevano sparire perché mio padre usciva dalla fabbrica e non voleva “confusione per casa”. Tutti dovevano sparire, anche le poche amichette ammesse a giocare con me. Poi c’erano le domeniche, il pranzo con il brodo di gallina e l’odiato “lesso” e il pomeriggio che era una tragedia, perché mio padre aveva la fissa della famiglia unita. Voleva dire stare tutti insieme in cucina a non fare niente, guardarci in faccia e romperci i coglioni. Di solito finiva malissimo, perché io praticavo la resistenza passiva, lui s’incazzava e io le prendevo.
L’altra scena familiare era quella dei pomeriggi non festivi: allora si scaldava un’unica stanza, la cucina, dove io facevo i compiti, mia madre lavorava, la nonna dalla sua poltrona controllava tutto come un arcigno supervisore, e le vicine si riunivano per cucire e provare gli abiti. Lì sono venuta a contatto col raccapricciante mondo delle donne, perché tanto, si sa, i bambini non capiscono. Parlavano di tutte le sfighe femminili, figli, mariti, mestruazioni, evento che io non comprendevo e che nessuna mi voleva spiegare; loro ridevano e dicevano “quando sarai grande”, però capivo che quando venivano erano una tragedia e se non venivano era una tragedia ancora più grossa. Ma da dove venivano, e chi le mandava? Aborti fatti in casa, botte, miseria, disoccupazione, pettegolezzi, la figlia della Tale era rimasta incinta, la figlia della Talaltra voleva andare a ballare in quei locali moderni dove le ragazze non si facevano accompagnare dalle mamme, e quella che voleva truccarsi e mettersi la minigonna e le prendeva dal padre e dai fratelli, ah sua figlia è ancora piccola ma da grande le darà tanti pensieri… Che bello crescere con ottimismo. In mezzo a quei discorsi da galline isteriche e sadiche facevo i temi, le equivalenze, studiavo le poesie, la storia, la geografia. Sinceramente non ci badavo neanche tanto, sentivo cose molto macabre ma non facevo una piega; ho solo maturato la convinzione che essere donna era proprio una gran sfiga, soprattutto per quel fatto di rimanere incinta, che a quanto pareva capitava di continuo, ma non sapevo in che modo. Me lo spiegò in seconda media la mia compagna di banco, la cui mamma era convinta che le figlie dovessero conoscere i fatti della vita.
Ricordo volentieri solo due scene di allora. Una era la televisione del lunedì sera, quando non mi mandavano a letto dopo Carosello, ma potevo stare alzata a guardare il film. Trasmettevano tutte le pellicole che i miei avevano visto prima della mia nascita, e per me e la mamma era uno dei pochi momenti piacevoli. Lei è sempre stata appassionata di film, ma dopo la mia nascita i miei non avevano più la possibilità di andare al cinema perché mia nonna, che pure abitava con noi, si rifiutava di “tenermi”, anche se la sera dormivo, perché “l’avete voluta e adesso vi arrangiate”. I film rappresentavano il sogno e l’evasione, per me e per lei. L’altra scena è di quando si andava al mare. Per me era una festa, anche se loro facevano di tutto per rovinarmela. Mio padre si annoiava e mi costringeva a giocare con lui a bocce o con i tamburelli – Dio inculi quello che li ha inventati – con la terribile minaccia di non farmi fare il bagno. Naturalmente di allontanarsi dall’ombrellone non si discuteva, e nemmeno della possibilità di unirsi ai giochi degli altri bambini. Alcuni miracolati potevano addirittura andare da soli al bar a prendere il gelato, ma per i miei i bar erano luoghi di corruzione dove una donna non doveva mettere piede a nessuna età, neanche a otto anni. Quella cosa affascinante chiamata juke-box, poi, era un sogno irraggiungibile, perché oltre a una forma di depravazione morale, erano anche soldi buttati via. Non a caso i ricordi del mare sono a colori, anche se un po’ sbiaditi.
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