di Margherita Merone
Era il 1943 quando “alcune” persone, indesiderate e ritenute inferiori, braccate come animali dai nazifascisti, furono catturate e deportate nei campi di concentramento. Mi riferisco agli ebrei, sterminati nel periodo della seconda guerra mondiale, precisamente a ciò che tutti conosciamo come Shoah, termine ebraico che significa sterminio, annientamento totale.
A dire il vero, le leggi razziali non li consideravano persone, per questo potevano anche non esistere. Di fatto esistevano, pertanto dovevano essere eliminati, in quanto “inutili”. Si calcola che durante quegli anni gli Ebrei a Roma fossero tantissimi, più di 10.000, alcuni residenti, altri rifugiati, scappati da luoghi dove già da tempo erano perseguitati.
Era il 16 ottobre del 1943 quando fu dato il via alla retata nel ghetto di Roma e furono prese più di 1500 persone, soprattutto donne e bambini; alcuni libri di storia riportano cifre più alte. Poco conta il numero, tanti furono catturati e morirono nelle camere a gas, alcuni sopravvissero. Gli ebrei che riuscirono a sfuggire ai nazisti, attenti a non lasciarne neanche uno vivo, cercarono rifugio a casa di amici, altri in luoghi disabitati, altri ancora in conventi. A Roma la popolazione non restò sorda e grazie alla solidarietà messa in atto senza indugio, un gran numero di perseguitati trovarono comprensione, affetto, salvezza. Si accettò di rischiare la vita per il bene di quelle persone che non avevano alcuna colpa. Conventi e case religiose, mossi da senso cristiano aprirono le porte a tanti bambini che furono costretti a cambiare identità per poter sopravvivere. Non avevano più il loro nome – quello dovevano scordarlo – ma uno nuovo da ripetere più volte in maniera ossessiva per non dimenticarlo, perché gli avrebbe garantito la vita salva. Nessun bambino era pienamente consapevole di quello che stava accadendo, ma obbediva. Recitavano le preghiere cristiane, giocavano, scherzavano con i compagni, mangiavano, dormivano, sognavano cose meravigliose, passavano il tempo indaffarati come tutti i bambini, mentre fuori era solo buio, sofferenza, dolore, pianto, cattiveria, crudeltà, odio. Morte.
Non fu una solidarietà sconsiderata, tutto veniva fatto con la massima prudenza per non destare sospetto: non erano solo gli ebrei a rischiare, pertanto si consigliava ai rifugiati, sia che si trovassero in famiglia, sia che fossero alloggiati presso conventi, di non affacciarsi alle finestre, non stare sui balconi, non camminare per strada e, nel caso fossero stati fermati, recitare quella parte che ormai conoscevano a memoria. Il rischio di essere scoperti era sempre presente, tenere la situazione sotto controllo richiedeva sangue freddo, le spiate non erano infrequenti. C’era una via, tra viale Manzoni e San Giovanni, che ospitava la sede di comando della polizia tedesca, dove alcune stanze erano luogo di sevizie e torture, che per la ferocia non potrei descrivere senza stare male; altre erano organizzate come celle di detenzione.
Ho conosciuto alcuni testimoni che, nonostante la tenera età, non hanno rimosso nulla dalla memoria. Il tempo non sempre aiuta. Tante le mie domande, volevo conoscere, capire. Sorridevano mentre rispondevano, ne seguivo i pensieri, i ricordi, la sofferenza reale. Ma negli occhi era accesa la speranza, quella che non si arrende, una luce debole ma resistente tanto da poter lavorare nel futuro per una società e un mondo migliore, nel quale la persona abbia un valore irriducibile e dove la pace non sia un’idea ma una solida base di vita.
Primo Levi ha scritto: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.
in alto, Marc Chagall, L’ebreo in preghiera (Il rabbino di Vitebsk), 1914
qui accanto, “Hope” by ArteKjara
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