di Margherita Merone
L’argomento che sto per trattare mi ha impressionato molto. Qualche giorno fa ho accompagnato un amico ad un convegno che aveva come tema le donne e la guerra ed è lì che sono venuta a conoscenza di alcuni fatti di cui ero totalmente all’oscuro. Non sono riuscita a rimanere insensibile soprattutto di fronte alla conoscenza di qualcosa di orribile accaduto durante la seconda guerra mondiale in Italia: le violenze dei goumiers sui Monti Aurunci.
La guerra è sempre stata per gli antropologi un campo di studio particolarmente interessante, per capire le varie culture di molte popolazioni e, in particolar modo, i loro sistemi valoriali. Spesso, proprio nel conflitto si rivela quell’identità che rimane nascosta e che affonda i valori, senza pietà, portando violenza devastante e crudeltà inaudita. Mi riferisco agli episodi di violenza fisica e sessuale di massa su persone innocenti, in particolar modo sulle donne, le così dette “marocchinate”, da parte dei goumiers ossia le truppe marocchine reclutate dall’esercito francese durante la seconda guerra mondiale, precisamente nel maggio del 1944. Questi soldati generalmente erano riuniti in gruppi di settanta uomini legati da vincoli di parentela, ben addestrati e pronti a tutto, capaci di sopravvivere anche nelle condizioni più disperate. Il luogo che li vede in scena sono i monti Aurunci, è lì che si è svolta una delle più terribili, sanguinose, crudeli battaglie degli Alleati contro la linea Gustav tedesca. Il generale francese Alphonse Juin, per stimolare e convincere questi soldati marocchini a sfondare, senza pietà, la linea Gustav e ad uccidere tutti i tedeschi senza lasciare neanche un sopravvissuto, promise loro 50 ore di libertà. In un volantino sarebbe stato trascritto il discorso che fece il generale francese, il quale dichiarò che nelle cinquanta ore a disposizione, oltre alla promessa di libertà nelle loro terre, sarebbero stati padroni di tutto ciò che trovavano, donne, case, oro; nessun divieto, tutto era lecito, nessuno avrebbe mai chiesto loro il conto.
I marocchini reclutati non se lo fecero ripetere una seconda volta e in quelle cinquanta ore ebbe luogo ogni forma di crudeltà, dal saccheggio di paesi, case, alle più ignominiose forme di violenze sessuali e fisiche inferte al popolo totalmente inerme. Le donne soprattutto subirono ogni sorta di aggressione, violenze che appartengono alla bestialità, non all’umanità. Ci sono alcune testimonianze che fanno rabbrividire. Stupri di massa davanti ai genitori, ai mariti, ai figli, e quando non c’erano donne a sufficienza violentavano anche gli uomini che cercavano di proteggerle a costo della vita. La stessa sorte fu inflitta a tanti anziani, senza nessuna pietà neanche per i bambini. Molte persone, sia uomini che donne, a seguito degli stupri furono contagiate da malattie infettive che si trasmettono per via sessuale, come la sifilide. Quel luogo fu teatro di una ferocia tale che si è preferito evitare di parlarne; vissuti strazianti cancellati dai libri di storia, il che spiega come mai tanti ignorino i fatti accaduti in quel periodo.
Ho chiesto ad un antropologo qualche spiegazione al riguardo perché, rimasta ulteriormente sconvolta nel leggere tutte le testimonianze a disposizione, ho sentito il bisogno di saperne di più. Ho chiesto soprattutto cosa, nella mente di quei soldati marocchini, possa aver scatenato così tanta violenza, se si tratta di una patologia, del gusto di uccidere, se dipende da un problema religioso, dalla mancanza di una coscienza morale, insomma, una motivazione plausibile. Tra le tante interpretazioni, pare che i goumiers avessero bene in mente l’idea della razzia, dunque, la predazione delle case, dei beni e delle donne dei nemici. La violenza sulle donne per loro non era da considerarsi uno stupro, come per tante altre popolazioni nomadi, per questo gli studiosi parlano di valenze molto complesse, di comportamenti che non sono così ovvi come potremmo comunemente pensare. I berberi avevano nelle battaglie il senso di quello che gli antropologi chiamano “accesso sessuale comune”, cioè di sessualità condivisa con una stessa donna per riconfermare la solidarietà maschile in un momento critico quale è quello della guerra. Si tratta di forme poliandriche che confermano la regola di vita di un gruppo e i valori condivisi – l’appartenenza alla propria terra, il modo di vivere – contro il pericolo della disgregazione della tribù. Questo modo di vivere la sessualità come condivisione origina l’idea della solidarietà, il rendere fertile ciò che rimane ostile ed estraneo; si costituisce un senso spirituale che non può rompersi, che ha bisogno di pratiche rituali in cui è la donna a costituire un elemento simbolico che tiene tutto ben unito. Ci sono testimoni che hanno raccontato alcuni episodi da cui si può comprendere, attraverso dei riti che i berberi compivano, il ruolo forzato di sposa comune, usata sessualmente da tutto il gruppo quando ne aveva voglia e che veniva messo in atto come segno di fratellanza spirituale. Nessun interesse per cosa potesse pensare quella donna, che subiva solamente, con dolore, nel silenzio.
Questa spiegazione culturale, però, non giustifica l’orrore che hanno vissuto tante, troppe donne che non avevano nessuna colpa, violate non solo nel corpo ma nei valori più profondi, nella dignità di essere persone. Senza pensare inoltre al senso di colpa e di vergogna che hanno vissuto molte donne sopravvissute. Non c’è altro da aggiungere, impossibile rimanere indifferenti di fronte al trauma a seguito di una violenza subita, che non è ovviamente solo esterna, che non è possibile dimenticare.
La guerra ci mostra spesso la contraddizione profonda che esiste tra le varie culture o all’interno di una stessa cultura, in tutta la sua possibile drammaticità. Lo scenario contemporaneo non è meno preoccupante, la globalizzazione mescola diverse culture, popoli e valori. Si possono costruire certamente reciproche conoscenze e confronti interessanti, senza alcuna forma di pregiudizio, ma è da mettere in conto anche una certa insofferenza, incomprensione, riluttanza che può arrivare alla violenza anche più efferata. Resta ferma la possibilità che la conoscenza dei valori altrui può, alcune volte, trasformare l’alterità che può essere un pericolo in un’alterità con la quale si possa negoziare una certa vicinanza, ma da tenere comunque sotto controllo.
Quasi ogni giorno leggiamo di casi di violenza contro una donna e questo è davvero molto triste. Se penso ad ogni essere umano creato ad immagine di Dio sento l’anima dilacerata come donna e come creatura di Dio, ma nessuno pensa seriamente a questo, così tutto diventa lecito. Ci sono uomini che per sentirsi importanti devono sopraffare una donna fisicamente o in qualsiasi altro modo. Le proposte sessuali sono all’ordine del giorno e tanti uomini non ci vedono nulla di male.
Una donna di recente mi ha raccontato che al lavoro le sono state fatte proposte sessuali, ma lei ha risposto con fermezza che di fare una rapida carriera a quelle condizioni non le interessava affatto. Per fortuna la storia è finita lì. Dopo averla ascoltata mi sono chiesta come avrei reagito io. Senza neanche perdere tempo a riflettere, avrei prontamente liquidato quell’uomo con poche incisive parole: io sono di Cristo!
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