Ormai credo di avere fatto di tutto per guadagnarmi da vivere, di solito attività odiose in mezzo a colleghi che avrei massacrato volentieri con una motosega, ma qualche lavoro è stato anche divertente, come quello presso l’anagrafe di un piccolo comune romagnolo. Si dice che la propensione a dare ai figli nomi demenziali derivi non solo dalla natura bizzarra dei romagnoli, ma anche dai quattro secoli di dominio pontificio e abbia una data d’inizio, la Rivoluzione francese e l’arrivo di Napoleone, quando la ventata rivoluzionaria si combinò con l’anticlericalismo in una miscela esplosiva di creatività. Ma non vi voglio annoiare con l’ennesimo elenco di Comunardo, Jacobina, Negadio, Anticlera, Risveglio, Ribelle; sui nomi romagnoli sono stati scritti libri a sufficienza. Vorrei cominciare invece col ricordo dei clienti a cui ero più affezionata, i vecchietti che venivano a chiedere il certificato di resistenza in vita. All’epoca l’informatizzazione dei piccoli comuni era molto artigianale, e le comunicazioni con l’INPS si affidavano alla buona volontà dei singoli pensionati, che periodicamente dovevano dimostrare di essere ancora vivi. Da qui, la fila dei nonni all’anagrafe che venivano a chiederci un certificato di esistenza in vita, diventato nella vulgata comune resistenza in vita. Ogni volta che ne dovevo fare uno, mi veniva da fare la ola per il vecchietto resistente, che salutavo sempre con un augurale “arrivederci alla prossima”.
È nato è nato
La scelta del nome da dare al nuovo nato è stata fonte di tante soddisfazioni anche per me che lo dovevo registrare. Nel dubbio, per paura di sbagliare e conoscendo l’eccentricità dei nostri concittadini, facevamo compilare al neopapà un modulo in cui doveva scrivere di suo pugno il nome da appioppare alla creatura appena venuta al mondo, nome che poi noi ricopiavamo fedelmente nell’atto di nascita. Sono sempre riuscita a non fare una piega davanti ai Maicol scritto come si legge e alle Debborah con due b o con l’acca in mezzo – Debhora – ma quando un papà mi scrisse come nome AXL non pensai ad Axl Roses. Mi venne in mente la mia macchina, una Citroen AX, in versione Lusso. Magari AXLS, in versione Lusso Sfrenato. Ci fu anche un tenero papà che nel modulo scrisse ben cinque nomi per il pargoletto e quando gli facemmo notare che la vita del bimbo si sarebbe complicata, lui sorrise e scosse la testa: “Ma nooooooo… Poi da grande sceglie lui!”. Vagli te a spiegare che non funziona così.
Morti e matrimoni
Gli utenti più simpatici erano senza alcun dubbio gli impresari di pompe funebri, che usano fare le denunce di morte per conto dei parenti dell’estinto. Sarà una reazione alla professione, ma erano sempre una miniera di barzellette, preferibilmente sconce, e di pensieri carini. Un becchino che mi era molto affezionato mi regalò i campioncini, piccole casse da morto in miniatura, alcune perfino imbottite e foderate in pizzo, che uso ancora come portagioie. Nel ramo matrimoni invece lo spasso principale era fornito dagli umarells che andavano in vacanza a Cuba e si facevano intortare dalle jineteras desiderose di espatriare. Il muro di Berlino era ancora in piedi e non si era verificata l’invasione di ucraine che ha decimato le pensioni dei nostri vecchi, e in generale per farsi catturare dalla straniera a caccia del permesso di soggiorno bisognava andare sul posto. La pratica era complessa, credo appositamente per scoraggiare la fuga di qualcosa che non era il cervello, ma un bene che evidentemente il regime tendeva a considerare come nazionalizzato, e tornati in patria gli anziani innamorati dovevano penare prima che alla novella sposa fosse concesso di raggiungerli. Ricordo un pensionato, l’Ernesto, che veniva tutti i giorni per sentire come era messa la sua pratica, e alla mia risposta negativa mi chiedeva sempre di telefonare a Cuba. E a chi cacchio, di grazia? A Fidel in persona? Alla fine la bella arrivò, lo convinse a trasferirsi – lui e la sua pensione – a Miami, dai parenti già espatriati, e con quella misera rendita pare che ci dovesse campare un’intera tribù. Povero Ernesto.
Psychiatric help
Quando ci lavoravo io, l’anagrafe di un piccolo comune romagnolo era un incrocio tra un servizio sociale e uno sportello di ascolto, tanto che mi sentivo sempre tentata di appendere la vignetta dei Peanuts con Lucy che fa psychiatric help per 5 cent, ma il romagnolo fa fatica a sapere l’italiano, figuriamoci l’inglese… Però anche in quella sede mettevamo in pratica la massima che ha raggiunto le sue vette di successo nella nostra riviera – Paolo Cevoli docet – ovvero “far felice il cliente prendendolo per il culo”. Da noi i vecchietti, i becchini, i neopapà, si sedevano davanti alla scrivania e mentre ci propinavano barzellette, nomi improponibili e richieste di dimostrare di essere ancora vivi, ci raccontavano anche gli ultimi pettegolezzi della città, e nessuno andava via senza il suo pezzetto di carta stretto tra le dita. A parte l’Ernesto che mi voleva fare telefonare a Fidel, ma anche per un’anagrafe romagnola c’è un limite. Però adesso che mi trovo a soffocare in un palazzaccio in cui devo combattere – dall’interno – contro il delirio della burocrazia più assurda, mi dispiace di non averci provato, ad accontentare l’Ernesto. Chissà, magari con Fidel ci sarei riuscita a parlare veramente.
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