di Margherita Merone
Se qualcuno vuole capire come sia possibile vivere la sofferenza con gioia e serenità, deve conoscere la vita di suor Rafqa (Rebecca) al-Choboq al-Rayès, una monaca libanese maronita, canonizzata il 10 giugno 2001 da papa Giovanni Paolo II, nella basilica di san Pietro a Roma.
Sopportare il dolore fisico non è certamente semplice, quando il corpo soffre è difficile sorridere. Quando accade non può che trattarsi di una vita basata interamente sulla fede in Colui che ha sofferto più di tutti, che ha scelto la morte atroce sulla croce. Conservare poi anche la pace interiore e la speranza è quasi impossibile a meno che non si parli di santità.
Rafqa, orfana e consacrata a Dio nella vita monastica, ha vissuto il martirio per tutta la vita a partire dalla nascita fino alla morte. Ha seguito Cristo partecipando pienamente alla sua sofferenza sulla croce. Ma nessuno ha mai parlato di lei come di una donna triste e sconsolata, piuttosto è riuscita a trasformare la sua sofferenza in una gioia continua.
Rafqa nacque nel 1832 a Himlaya, un villaggio nella montagna libanese, nella zona centrale del Libano, a circa 700 metri di altitudine. Il suo nome di battesimo era Boutrossieh, Piera. Abbiamo pochissime informazioni sulla sua famiglia perché il villaggio fu saccheggiato e molti cristiani e maroniti (membri della comunità cattolica del Libano) furono uccisi. Sua madre morì quando aveva sette anni. Il padre si risposò presto, ma la matrigna non le mostrava alcun affetto. Rafqa, che aveva appreso dalla madre la devozione alla Madonna, si affidò a Lei, pregando sempre, giorno e notte. Durante l’adolescenza si rese conto del fatto che per il Libano erano momenti difficili, di lì a poco infatti scoppiò la guerra civile (1840-1845). La guerra portò miseria così la giovane per aiutare il padre andò a lavorare a Damasco come domestica presso una famiglia benestante. Quando arrivò il tempo in cui il padre voleva che si sposasse – di pretendenti ne aveva tanti, la sua bellezza esteriore era al pari di quella interiore – lei si rifiutò. Pensava alla vita religiosa e non al matrimonio; così quando festeggiò il suo ventunesimo compleanno andò senza esitare al convento della Madonna della Liberazione a Bikfaya, che apparteneva alla Congregazione delle suore maronite del Sacro Cuore di Maria, fondato nel 1853. Nonostante l’ira del padre, Boutrossieh non tornò più a casa, la sua decisione era per sempre. Fu postulante per un anno poi fu ammessa al noviziato e pronunciò la professione religiosa nel 1856 a Ghazir prendendo il nome di Rafqa, quello della madre naturale.
L’episodio che più segnò la sua vita fu quando visse il dramma del genocidio dei Maroniti, nel 1860. In quel periodo si dedicava insieme alle altre suore all’educazione e formazione dei bambini. Le informazioni a disposizione parlano di persecutori che strappavano i bambini dalle braccia delle madri e li uccidevano senza pietà e massacravano gli uomini con martelli e altri strumenti di tortura sulle gambe delle mogli. Rafqa riuscì a salvare un bambino nascondendolo nel suo abito da monaca e lei stessa insieme alle sue consorelle trovarono salvezza in una stalla.
Proseguiva nel suo lavoro di insegnante, le piaceva stare tra i ragazzi, ma arrivò il tempo in cui la sua Congregazione fu dissolta e si trovò sola, disorientata, senza aiuto; non le rimaneva che pregare il Signore e fare la sua volontà. Ispirata, si diresse verso il monastero di san Simone, nel villaggio di Aitou ed è lì che pronunciò i voti solenni il 25 agosto del 1873: con sua grande gioia, finalmente, diceva, era la sposa di Cristo per l’eternità. Dopo essere diventata una suora contemplativa desiderò partecipare alle sofferenze di Cristo. Durante la festa del Rosario pregò il Signore di farle visita con la malattia per stare ancora più vicina a Lui. Quella stessa notte prima di addormentarsi cominciò a sentire un dolore fortissimo alla testa, poi agli occhi e così iniziò la passione di Rafqa. Nessun medico era in grado di alleviare le sue sofferenze, così intervenne il suo superiore che la portò da un dottore americano che si trovava in zona. Era necessario un intervento all’occhio destro, cui fu subito sottoposta. Il medico le disse di sedersi e senza anestesia le introdusse uno scalpello lungo e appuntito nell’occhio e lo tirò verso il petto. L’occhio cadde per terra palpitando ancora e lei si limitò a dire che in quel momento stava in comunione con la passione di Cristo. Le usciva sangue a frotte, il dolore era insopportabile, ma non gridò, le uniche parole servivano per tranquillizzare il medico. Portarono Rafqa in un centro medico più attrezzato, l’orbita dell’occhio spesso sanguinava e anche l’altro occhio le faceva sempre più male. Senza mai lamentarsi e soffrendo dolori atroci divenne in seguito completamente cieca.
Le sofferenze proseguirono: alcuni anni dopo cominciò a soffrire di un dolore forte ai piedi come se una lancia li trafiggesse e poi alle caviglie, come se venissero picchiate. Questa malattia le invase in poco tempo tutto il corpo, cominciò a perdere peso fino a che diventò magrissima; tuttavia, chi stava con lei percepiva la sua grande serenità interiore e una grande pace. Riusciva a sorridere anche nelle condizioni più disperate, era un modello per tutte le suore. Alla fine rimase immobilizzata, le sue membra erano sconnesse ad eccezione delle mani, ma non smetteva di lodare Dio per il dolore.
Spesso le consorelle le domandavano se avesse paura della morte: lei rispondeva che la aspettava, solo quella le avrebbe permesso di ricevere da Dio la vera vita. Quando le fu dato il viatico (la comunione data al fedele gravemente ammalato) chiamò le suore e chiese loro perdono; pochi minuti dopo la sua anima fu innalzata presso il Signore. Non sembrava morta, ma addormentata, immersa in un sonno sereno, il viso era bello e il sorriso quello di sempre, impresso sulle sue labbra. Morì il 23 marzo 1914.
Quando una santa fa dei miracoli o atti prodigiosi, non è lei che li fa, ma è Dio che opera attraverso la persona, grazie alla sua intercessione. Ogni miracolo oltre a mostrare la potenza di Dio manifesta che il suo servitore è stato interamente fedele alla sua vocazione – quale che sia questa vocazione – e diventa modello per tutte le persone che gli sono accanto e che incontra durante la sua vita. Tanti eventi straordinari accaddero durante la vita di Rafqa: sulla sua tomba si verificò lo stesso fenomeno occorso su quella di san Charbel, maronita anche lui. Una luce abbagliante compariva poi spariva, e questo per alcuni giorni. I miracoli si verificavano quando si dava ai malati acqua con dentro sciolta la terra che stava vicina alla sua tomba; o anche quando si prendeva un po’ di terra e la si metteva sulla parte malata del corpo. Alcune sue consorelle guarirono in questo modo e così tanta gente devota di Rafqa. Nell’archivio del monastero si può leggere di tante guarigioni per sua intercessione e da queste possiamo tirar fuori il grande messaggio della santa, quello di imparare a vedere nella sofferenza Cristo. Solo con Lui e attraverso di Lui la croce di ogni giorno e qualsiasi sofferenza diventa gioia. Bisogna abbandonarsi alla Provvidenza divina senza affliggersi.
È un messaggio forte, non è facile seguirlo, ma questo è il cammino per la santità. Questa viene proclamata al mondo intero da tutti i santi, figure meravigliose da prendere come modelli di vita, per andare sempre avanti, senza mai tornare indietro.
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