di Margherita Merone
Amo molto parlare di san Paolo, l’apostolo delle genti, nato all’incirca nell’anno 8 a Tarso in Cilicia e morto a metà degli anni 60, intorno ai sessant’anni. La figura di Paolo mi ha sempre stimolato quale esempio di totale dedizione a Dio, dell’azione della grazia, di coraggio e fortezza, di missione, di proclamazione del vangelo. Parlare della sua vita è come sfogliare un libro pieno di colpi di scena se si pensa a come era e a quello che è diventato dopo l’evento di Damasco, o meglio dopo l’incontro col Cristo risorto.
All’età di tredici anni, nel momento in cui un bambino ebreo diventava bar mitzvà, ossia figlio del precetto, Paolo lasciò la sua città e andò a Gerusalemme per ricevere gli insegnamenti di Gamaliele, considerato il più stimato dottore della legge (At 5,34), nipote del grande maestro Hillel capo della scuola farisaica nota per l’interpretazione alquanto liberale della legge rispetto a quella rigorista della scuola di Shammai. Questa educazione spiega il suo odio verso i primi cristiani e lo zelo per la legge. Diventa così un feroce persecutore della chiesa di Dio, come scrive in alcune sue lettere, fino a quando, sulla via di Damasco, Dio che lo aveva scelto fin dal seno della madre, rivelandogli il Figlio suo, lo chiama per annunciarlo ai pagani (Gal 1, 15-16). Paolo diventa così l’apostolo dei gentili. Da quel momento inizia la sua attività apostolica con tre viaggi missionari e un quarto che lo vede prigioniero, diretto verso Roma. Per Paolo essere apostolo, ossia “inviato”, non è un incarico circoscritto ai Dodici accanto a Gesù, ma si tratta di essere ambasciatore, colui che porta un messaggio, vuol dire essere un collaboratore di Dio (1Cor 3.9).
Significativo nella sua vita è l’incontro con Pietro a Gerusalemme voluto proprio per conoscere la vita terrena di Gesù risorto. Particolarmente interessanti, poi, sono due episodi che mostrano come Paolo si sentisse libero di fronte a Pietro e a tutti gli altri apostoli: si tratta del Concilio di Gerusalemme (Gal 2, 1-10) e dell’incidente di Antiochia (Gal 2, 11-14). Nella prima situazione il problema era se fosse stato giusto obbligare i pagani che si convertivano a seguire la Legge mosaica, ossia la circoncisione, le purificazioni cultuali, l’osservanza delle norme di purità e di tutte le altre necessarie per essere considerati uomini giusti. Nessuna di queste regole era più valida né necessaria per coloro che avevano scelto di seguire il vangelo di Gesù Cristo, il quale è la nostra unica salvezza. Cristo ci ha liberato da tutto ciò che ci rendeva schiavi. Una libertà da non identificare con il libero arbitrio, ma da intendersi conforme a quella di Cristo, ovvero nell’amore per i fratelli, principalmente per quelli che hanno maggiore bisogno.
Il secondo episodio, noto come l’incidente di Antiochia, riguardava il comportamento più adeguato da avere durante la comunione di mensa tra i credenti di matrice giudaica e i credenti che provenivano dal mondo gentile. Il problema principale, motivo di divisione tra ebrei e gentili, riguardava i cibi puri e quelli impuri. Pietro all’inizio non aveva problemi a condividere la mensa tanto con gli uni che con gli altri, ma nel momento in cui giunsero presso di lui alcuni cristiani di parte giudaica legati a Giacomo, considerato una delle colonne della chiesa di Gerusalemme e “fratello del Signore” (Gal 1,19), evitò qualsiasi contatto con i pagani per non scandalizzare chi seguiva rigorosamente le regole di purità alimentare. Paolo prese molto male questo gesto tanto che accusò Pietro di essere incoerente e ipocrita: “Se tu che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei giudei?” (Gal 2. 14).
Paolo non ha conosciuto Gesù, ma in alcune sue lettere possiamo trovare dei riferimenti al Gesù pre-pasquale, quali la sua discendenza dalla stirpe di Davide (Rm 1,3), l’esistenza di “fratelli” di Gesù (1Cor 15,7), l’Ultima Cena (1Cor 11, 23-27). Ci sono alcune cose che sono riferimenti chiari a ciò che Gesù ha detto e fatto, e tra questi è importante la trasposizione della tradizione pre-pasquale alla situazione che si stabilisce dopo Pasqua.
Continuando a delineare alcuni tratti della vita di san Paolo è importante sottolineare anche la dimensione ecclesiologica, per intenderci, l’insegnamento che egli fa sulla chiesa. Il termine chiesa deriva dalla parola greca ekklesia utilizzata nell’Antico Testamento per indicare l’assemblea del popolo di Israele, riunita da Dio ed in particolare ai piedi del monte Sinai. Questa stessa parola significa ora la comunità di coloro che credono in Gesù Cristo, come assemblea convocata da Dio che si pone davanti a Lui. La chiesa per Paolo è la “Sposa di Cristo” ed il “Corpo di Cristo”. Infatti, il corpo ha diverse membra che hanno una determinata funzione; anche le più piccole che potremmo considerare quasi insignificanti sono estremamente necessarie perché, tutte insieme, permettono al corpo di funzionare bene realizzando il massimo. Inoltre, la chiesa è realmente corpo di Cristo nell’Eucaristia, quando i credenti ricevono il suo Corpo diventando realmente suo corpo. Tutti i battezzati sono uno in Cristo Gesù.
Cristo risorto è il centro, il cuore del pensiero di Paolo. Punto essenziale e realtà centrale della sua cristologia è il kerigma, l’annuncio della morte e resurrezione, insieme momento culmine dell’esistenza terrena di Cristo e fondamento dello sviluppo della fede cristiana. Il Risorto è colui che è stato crocifisso. Si tratta della teologia della croce: è nella Croce, infatti, che si mostra la verità dell’amore di Dio, gratuito e incommensurabile. Un amore che è grazia per tutti, è universale, che Paolo ha vissuto su di sé nel passaggio da persecutore dei cristiani ad apostolo che annuncia Cristo risorto in mezzo ai pagani. Per Paolo la Croce, che per i giudei è scandalo e per i pagani è stoltezza, nel momento in cui sembra essere un totale fallimento e una stupida debolezza diventa espressione della potenza dell’amore sconfinato di Dio. Pertanto san Paolo fa della “parola della Croce” ossia della predicazione di Cristo crocifisso, stoltezza per quelli che non credono, ma per quelli che credono “potenza di Dio” (1Cor 1,18-24), il punto focale del suo apostolato.
Paolo affermava che Cristo morto e risorto sarebbe tornato e in quel momento, nella parusia, nella seconda venuta del Signore, la sua presenza sarebbe stata definitiva. A chi gli chiedeva cosa sarebbe successo rispondeva che il Signore stesso, al suo segnale, alla voce di un arcangelo e allo squillo della tromba sarebbe sceso dal cielo, poi: “Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi che viviamo e che saremo ancora in vita verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto e così saremo sempre con il Signore” (1Tes 4, 16-17). Dietro all’uso di immagini simboliche Paolo trasmette un messaggio semplice ed essenziale, quello che nel futuro saremo per sempre con il Signore Gesù.
L’incontro di Paolo con Cristo risorto ha sconvolto la sua esistenza tanto che perfino la morte era vista da lui come un guadagno, per raggiungerlo e rimanere per sempre con lui. Cristo era diventato dopo Damasco la meta della sua vita, della sua corsa, come scrive quando era prigioniero a Roma e ormai prossimo alla morte: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno” (2Tm 4, 7-8).
Paolo ha vissuto pienamente l’amore di Cristo. Questo mi spinge a riflettere e a chiedermi: come deve essere l’amore cristiano? Un amore responsabile, totale, che nasce direttamente dall’amore di Cristo, che è un amore immenso che ci avvolge, ci tormenta (2Cor 5,11), ci possiede, ci sconvolge, al punto tale da non vivere più per noi stessi, ma per Cristo che è morto e risorto per noi.
In copertina, San Paolo di Mario Venzo (Fratel Venzo), 1975
In basso, San Paolo di Onofrio Bramante, 1985
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