Appunti di scrittura creativa (n. 10)

scrittura creativa

In questo appunto affronteremo il tema della descrizione; prima però vediamo alcune cose da non fare. Nel libro “78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato”, Pat Walsh alla nota n.15 ci allerta sullo scrivere con troppo stile.

Come accorgersi della cosa? È semplice: se proprio non ce la fate a esprimervi con semplicità, se proprio non ce la fate a rimanere nelle regole, se addirittura vi capita di coniare nuove parole o sillogismi, tanto per far capire che siete unici nel vostro stile, allora siete proprio sulla buona strada per scrivere qualcosa di pericolosamente terrificante! Se il vostro scritto è caratterizzato da frasi complicate, incompiute, da parole pompose e siete certi che il vostro stile sia molto simile a quello con il quale è stato scritto il monologo di Molly Bloom, ricordatevi che voi non siete James Joyce e che siamo nel 2010 e se l’Ulisse (il più noto romanzo di Joyce) è stata una vera e propria rivoluzione rispetto alla letteratura dell’Ottocento, oggi, dal punto di vista della novità, non stupirebbe più nessuno.

Il vero stile nasce dall’amore per la letteratura e da un linguaggio che deve sì essere potente e incisivo, ma anche orientato alla massima comprensibilità per il lettore, altrimenti è un trucchetto stilistico fine a se stesso.

Spesso l’esigenza di uno stile ricercato si presenta all’autore proprio quando il soggetto e la narrazione ne richiedono uno semplice. Chi scrive teme di essere preso per uno privo di arte e si cimenta in spericolate picchiate stilistiche, commettendo l’errore di ficcare nella scrittura parole arcaiche, desuete, demodé, solo per darsi un tono.

In questo caso il suggerimento di Pat Walsh è semplice: [se non riuscite a farne a meno] buttatevi dalla finestra!

Ogni parola deve essere messa lì perché è la migliore e più semplice parola che potevate usare. I sinonimi sono fuorvianti e pericolosi, e in letteratura spesso funzionano male.

Un esempio è questo, pensate alla parola casa.

Alcuni sinonimi di casa sono: abitazione, stabile, edificio, appartamento, alloggio. Eppure nessuno di essi è evocativo come la parola casa.

Una cosa è dire “Questa è la mia casa”, un’altra è dire “Questo è il mio alloggio”, non trovate? La casa non è solo un luogo fisico, non si tratta solo di muri e finestre, non è solo un insieme di mobilia, tappeti e quadri. La casa ha a che fare con i sentimenti, i ricordi, il vissuto, i dialoghi. Un alloggio è invece qualcosa di provvisorio, un luogo di transito. Chi parla di alloggio o di appartamento, ha un certo distacco da quel luogo. Di sicuro un appartamento può diventare una casa, ma solo col tempo, con il vissuto e quando le pareti s’impregnano finalmente della nostra vita.

Ecco perché la parola più semplice molto spesso non solo è la migliore che potete usare, ma è anche l’unica che veramente ha senso nel testo che state scrivendo. Non sacrificate la chiarezza in nome dell’arte. Non bisogna commettere l’errore di mettere in secondo piano ciò che volete dire con il come lo state dicendo, il come non può essere più importante del cosa.

Quando ho parlato dell’Ulisse, ho detto che oggi non stupirebbe più, anzi forse sarebbe anche ridondante. Il fatto è che dobbiamo fare i conti con il cinema e la televisione. La letteratura di fine Ottocento e per tutta la prima metà del Novecento, era caratterizzata da ampie descrizioni, ricche di dettagli; oggi le cose funzionano diversamente. Ci troviamo un po’ come quando la pittura fu travolta dalla fotografia e si smise di dipingere in modo verista e si finì per evolvere verso altre forme pittoriche sempre meno “fotografiche” fino ad arrivare all’arido taglio della tela operato da Lucio Fontana.

Anche la letteratura ha subito, a causa del cinema, una trasformazione. La descrizione dovrebbe assomigliare più a una pennellata, che a un’esposizione del tutto. L’errore più frequente è l’elencazione minuziosa delle cose. Ad esempio, provando a descrivere un quadro nella mia stanza, potrei scrivere:

«Nel quadro erano dipinte due teste di cavallo, quella a sinistra, col muso in basso, guardava quella di destra che però era rivolta verso l’alto. Si trattava in realtà di una bozza, un lavoro del pittore Mario Gauthier. La testa a sinistra doveva essere una scultura, quella di destra un cavallo vero».

Ma potrebbe anche essere descritto in modo diverso, scelgo la lente dell’ironia.

«Il quadro doveva essere solo un bozzetto per un lavoro di Mario Gauthier, c’erano due teste di cavallo una di fronte all’altra. Ogni volta che mi soffermavo un po’ di più a guardarlo, non riuscivo a non ridere, non perché fosse fatto male, tutt’altro, mi faceva ridere perché il cavallo di sinistra, tutto impettito, sembrava aver calpestato per sbaglio la zampa di quello di destra che, col muso in alto, appariva urlante e dolorante. L’impressione era che quello di sinistra stesse dicendo: “Oh! Mi scusi!” mentre l’altro, nitrendo di dolore, rispondesse: “iiiiahhhh! E che maniere!”»

Entrambe le descrizioni ci dicono di due teste di cavallo una di fronte all’altra, apprendiamo che il quadro è una bozza di un lavoro del pittore Mario Gauthier. Tuttavia credo che la seconda descrizione sia più evocativa della prima, abbia un impatto emotivo più forte, le sue immagini mettono in moto, nel cervello di chi legge, sensazioni molto diverse, e forse più funzionali alla narrazione, rispetto alla prima descrizione.

Il motivo è che non ci troviamo di fronte a una semplice elencazione di oggetti (due cavalli, ecc.) ma c’è di più. Ai due cavalli viene data una connotazione: il primo è impettito, quasi impacciato, il secondo è urlante, c’è una nota comica e perfino un piccolo dialogo. La descrizione, in taluni casi, può diventare uno spunto per piccole digressioni e approfondimenti diversi.

Uno stesso oggetto, luogo o situazione, può essere descritto in modi sempre diversi. Se avete qualche dubbio, vi consiglio di farvi subito un regalo acquistando “Esercizi di stile” di Raymond Queneau.

Vi riporto qualche esempio.

La situazione iniziale è questa: «Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: “Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito”. Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché».

La stessa situazione Queneau la descrive in 99 modi diversi!

Metaforicamente
«Nel cuore del giorno, gettato in un mucchio di sardine passeggere d’un coleottero dalla grossa corazza biancastra, un pollastro dal gran collo spiumato, di colpo arringò la più placida di quelle, e il suo linguaggio si librò nell’aria, umido di protesta. Poi, attirato da un vuoto, il volatile vi si precipitò. In un triste deserto urbano lo rividi il giorno stesso, che si faceva smoccicar l’arroganza da un qualunque bottone».

Precisazioni
«Alle 12,17 in un autobus della linea S lungo 10 metri, largo 3, alto 3,5, a 3600 metri dal suo capolinea, carico di 48 persone, un individuo umano di sesso maschile, 27 anni, 3 mesi e 8 giorni, alto m 1,62 e pesante 65 chilogrammi, con un cappello (in capo) alto 17 centimetri, la calotta circondata da un nastro di 35 centimetri, interpella un uomo di 48 anni meno 3 giorni, altezza 1,68, peso 77 chilogrammi, a mezzo parole 14 la cui enunciazione dura 5 secondi, facenti allusione a spostamenti involontari di quest’ultimo, su di un arco di millimetri 15-20. Quindi il parlante si reca a sedere metri 2,10 più in là. 108 minuti più tardi lo stesso parlante si trovava a 10 metri dalla Gare Saint-Lazare, entrata banlieue, e passeggiava in lungo e in largo su di un tragitto di metri 30 con un amico di 28 anni, alto 1,70, 57 chilogrammi, che gli consigliava in 15 parole di spostare di centimetri 5 nella direzione dello zenith un bottone d’osso di centimetri 3,5 di diametro».

Comunicato-stampa
«Chi ha detto che il romanzo è morto? In questo nuovo e travolgente racconto l’autore, di cui i lettori ricorderanno l’avvincente «Le scarpe slacciate», fa rivivere con asciutto e toccante realismo dei personaggi a tutto tondo che si muovono in una vicenda di tesa drammaticità, sullo sfondo di lancinanti pulsioni collettive. La trama ci parla di un eroe, allusivamente indicato come il Passeggero, che una mattina s’imbatte in un enigmatico personaggio, a sua volta coinvolto in un duello mortale con uno sconosciuto. Nell’allucinante scena finale, ritroviamo il misterioso personaggio dell’inizio che ascolta con assorta attenzione i consigli di un ambiguo esteta. Un romanzo che è al tempo stesso di azione e di stranite atmosfere, una storia di terso e spietato vigore, un libro che non vi lascerà dormire».

Ogni descrizione – a questo punto dovrebbe essere chiaro – permette di spaziare attraverso spunti e appigli che gli stessi oggetti della descrizione possono fornivi. Nella descrizione il lettore deve continuare a trovare il clima del vostro racconto, ne deve essere parte viva e integrante. Non deve dire tutto, ma solo svelare un po’, senza però imbrogliare il lettore, dargli false aspettative o elementi totalmente inutili.

«Nella gabbia c’è un coniglio bianco» tanto per citare Stephen King. Nella semplice descrizione c’è tutto: il coniglio, il suo colore e la gabbia. Nella vostra mente l’immagine è chiara e nitida. Vi lascio con le parole dello stesso Stephen King, fatene tesoro.

Guardate: qui c’è un tavolo con una tovaglia rossa. Sul tavolo c’è una gabbia grande come un piccolo acquario. Nella gabbia c’è un coniglio bianco con il naso rosa e gli occhi cerchiati di rosa. Nelle zampe anteriori ha un mozzicone di carota che sta sgranocchiando tutto contento. Sulla schiena, chiaramente segnato in inchiostro blu, c’è il numero 8.

Vediamo la stessa cosa? Dovremmo incontrarci e confrontare gli appunti per esserne matematicamente sicuri, ma io credo di sì. Ci saranno inevitabili varianti, si capisce: alcuni riceventi vedranno una tovaglia color rosso robbia, qualcuno la vedrà scarlatta, altri vedranno altre gradazioni. (Per i riceventi daltonici, la tovaglia rossa è del grigio scuro della cenere di sigaro.) Qualcuno vedrà orli merlettati, qualcuno lisci. Gli animi più decorativi vi aggiungeranno un po’ di pizzo… ma per piacere: la mia tovaglia è la vostra tovaglia, sbizzarritevi pure.

La gabbia lascia parimenti ampio spazio all’interpretazione individuale. Per cominciare è descritta in termini di paragone approssimativo, utile solo se voi e io vediamo il mondo e misuriamo le cose con occhi simili. Nel fare paragoni approssimativi è facile essere sbadati, ma l’alternativa è una pignolesca attenzione ai dettagli che toglie tutto il piacere alla scrittura. Che cosa dovrei dire, «sul tavolo c’è una gabbia lunga novantacinque centimetri, larga sessantadue e alta trentacinque»? Questa non è prosa, è un manuale. Il paragrafo non ci dice neppure di che materiale è fatta la gabbia (rete metallica? stecche d’acciaio? vetro?), ma ha importanza? Abbiamo capito tutti che possiamo vederci dentro; oltre a questo, non c’importa. L’elemento più interessante qui non è nemmeno il coniglio che sgranocchia la carota dentro la gabbia, bensì il numero che ha sulla schiena. Non un sei, non un quattro, non un diciannove virgola cinque. È un otto. È questo che stiamo guardando e lo vediamo tutti. Non ve l’ho detto io. Voi non me lo avete chiesto. Io non ho mai aperto bocca e voi non avete aperto la vostra. Non siamo nemmeno nello stesso anno insieme, meno che mai nella stessa stanza… eppure noi siamo insieme. Siamo vicini.

Si sono incontrate le nostre menti.

Alla prossima.

 

Riassunto per punti.

  • Si scrive per raccontare qualcosa.
  • Questo qualcosa deve valere la pena di essere raccontato e poi letto.
  • Evitiamo, ad esempio, le pesantezze stilistiche o i sermoni.
  • Scegliamo un linguaggio immediato, quotidiano e diretto.
  • Impariamo a scrivere tutti i giorni.
  • Scegliamo con attenzione: il luogo, il periodo storico, un personaggio principale, un’idea forte come filo conduttore del nostro romanzo.
  • Caratterizziamo con chiarezza i personaggi principali.
  • Riduciamo al minimo i dialoghi e manteniamoli variegati nello stile.
  • Cerchiamo di essere quanto più veri nella finzione: la verità emotiva.
  • Il lettore vuole leggere di un “conflitto” e vedere come va a finire.
  • Pensate ai dettagli dell’universo che state costruendo.
  • Curate il vostro linguaggio, le parole sono tutto quello che abbiamo.
  • L’incipit è il primo battito del nostro racconto e deve immediatamente sedurre il lettore.
  • Diffidate dalle trame bel congegnate, a meno che non stiate scrivendo un giallo, date margine alla storia di svilupparsi da sola.
  • Le migliori storie nascono da “situazioni” e le situazioni si sviluppano da un “se”: e se un cane idrofobo bloccasse tizio in casa sua?
  • Avere stile è una cosa, essere complicati e confondere il lettore è un’altra cosa. Scegliete sempre la strada più semplice quando scegliete le parole e le forme letterarie nella vostra scrittura.
  • Non fate descrizioni meticolose, dettagliate o peggio elencando tutto; le descrizioni devono essere pennellate, devono evocare piuttosto che raccontare tutto il visibile.
Massimo Petrucci
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