Poche storie: in Italia i racconti non si leggono, punto. È un dato di fatto. Nelle altre culture, in particolar modo in quella anglosassone, i racconti occupano un gradino rilevante nel podio letterario. In Italia, invece, i racconti non si leggono e gli editori li pubblicano sempre meno.
Sarebbe bello poter dire che questo avviene in quanto il lettore italiano è un lettore esigente e, come tale, preferisce immergersi profondamente nella narrazione e conoscere i personaggi gradualmente, come succede con i romanzi.
Probabilmente, invece, i racconti non si leggono perché in Italia c’è una scarsissima educazione alla lettura e si ritiene che un racconto sia una forma letteraria “minore”.
Corsi di scrittura creativa, ormai, se ne trovano in ogni angolo di strada, ma insegnamenti di lettura attiva e partecipativa non se ne vedono.
Ho sentito anche dire che i racconti “non funzionano”, “non vanno”, perché poche pagine non sono sufficienti a catturare un lettore, a immergerlo in quell’atmosfera magica che solo un romanzo è capace di offrire e a spingerlo a voltare le pagine per vedere come finirà. Forse perché, il lettore, avendo in mano due o tre sole paginette, non ha brama di finale perché sa che il suo desiderio sarà comunque presto esaudito.
In sostanza, secondo questo punto di vista, il lettore italiano amerebbe essere tenuto il più possibile col fiato sospeso, prima del finale.
Ma il vero lettore non è quello che deve essere tenuto per mano fino alle ultime due pagine.
Il vero lettore, quello a cui è rivolta la vera letteratura, è un lettore attivo svincolatosi da tempo dalle dinamiche del finale a sorpresa, della storia che segue uno sviluppo classico con una crescita lenta e una fine da bramare.
Un lettore maturo è quello a cui uno scrittore consegna solo la punta dell’iceberg offrendogli gli spunti per scovare un intero ghiacciaio.
In merito a queste riflessioni, all’assurdità del trattamento riservato a quella raffinata forma artistica che è il racconto e a quanto in realtà offre un breve brano, ne ho scelto uno estremamente emblematico che ho trovato in un’antologia di autori vari, pubblicata da un editore minuscolo.
Un racconto di tre pagine, appunto.
Tre pagine che aprono interrogativi per le cui spiegazioni non basterebbero intere enciclopedie.
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Il mio nome è Solitudine – Alberto Gherardi
Vivo da sempre, non morirò mai.
Vivo da sempre, e il mio nome è Solitudine.
Arrivai in questo bar il giorno in cui la campagna terminando battezzava la città nuova – il cielo inerme della sera rifletteva l’artificio dei fuochi colorati e nastri d’asfalto croccante tagliavano i quartieri in fette non più inabitate – ed era estate, stagione di partenze e temporali improvvisi, e così a media notte il primo padrone di quel bar si guardò le lacrime mentre la donna che amava usciva per sempre dal locale.
Mi fermai a osservarli.
Lei senza mai voltarsi s’allontanò nel vento di pioggia che la profilava femmina sotto i lampioni, e l’acqua scendendone il vestito dileguò il ricordo del suo corpo nei tombini della via.
L’uomo abbandonato fissò lei e i rigagnoli di strada finché smise di piovere, poi mi notò, mi fece entrare nel bar, andò al bancone e chiuse la cassa. Fece un caffè, uno solo, come me, poi senza chiedermi nulla me lo offrì.
Mi disse che stava partendo e che da un minuto ero diventato il padrone del locale. Gli chiesi perché.
“Tu lo sai”, mi rispose a sguardo basso.
“E dove andrai?”
“In qualsiasi posto dove un giorno Lei possa arrivare.”
Poi il silenzio trovò la strada delle labbra, e così quelle nostre parole furono le ultime che si sentirono in questo bar ai confini della città nuova, adesso seminuova per i molti anni usati da allora – le prime case ormai glassate dallo smog, molte altre abbattute e fatte rinascere per andare a grattare il cielo, perché vanesio e disperato è il tempo che avanza: deve rendersi vistoso per potersi ancora inorgoglire.
Il mio nome è Solitudine, ovunque uomo nasce io vivo e attendo, non posso morire perché l’Inventore non volle darmi età. Curo questo bar dopo che un uomo triste me lo donò riconoscendosi in me, e lo faccio senza usare compagnia ai simili.
Semino me stesso nella città servendo agli avventori caffè corretto amaro, sapendo che chi ancora non l’ha fatto un giorno qui entrerà – succede a tutti, una volta soltanto o molte altre – e così ognuno sta nel bar il tempo necessario ad ascoltare quel che ha da dire un rimpianto o un rimorso, ad aspettare un’illusione al proprio tavolo o a dar bidone alla speranza che fuori invano attende, e nella mia sala il silenzio accade senza che un cartello appeso al muro l’abbia mai comandato, perché così da sempre è stato.
Il mio nome è Solitudine e nel mio bar non chiedo paga, perché tutti stanno già pagando. Lascio che l’ozio dei ricordi infelici sia il padre dei vizi auspicati, e così a volte capita che nell’isolamento qualcuno riesca ad aprire una fessura sull’anticamera della felicità. E’ solo allora che intervengo: un mio gesto lo invita a uscire per salvaguardare l’inquietudine altrui. Nessuno ha mai protestato, nessuno mai, qui sono tutti soli e la ribellione fiorisce unicamente in moltitudine.
Il mio nome è Solitudine, sono qui da quasi sempre e adesso sto guardando l’uomo mezzogiovane seduto all’ultimo tavolino.
È uno che scrive.
È pericoloso.
Mi chiama a sé, e poi rompe il silenzio costruito dai decenni dichiarando con occhi fermi: “Adesso tu vai via.”
L’avevo servito molte altre volte, nell’ultimo mese. Lui non apriva bocca, proprio come tutti gli altri, soltanto consumava e scriveva, che poi è la stessa cosa, consumava e scriveva e andava via nel capitolo successivo della sua vita. Ma oggi ha rotto l’anestesia del silenzio e ripetendo “Adesso tu vai via” mi mostra la sua opera: è una storia lunga molte pagine, ma lui mi rivela solo l’ultima.
È un foglio pieno di bianco nulla al cui centro vi è una sola parola, in maiuscolo.
E così tutto accade.
Quell’uomo si sbaglia, quell’uomo è un sopravvissuto all’illusione, ma per me è comunque tempo di cedere. Quando qualcuno trova la forza di scrivere senza consumarsi, la sfida è perduta, il silenzio non è più possibile, l’indifferenza si dirada. Non morirò mai proprio perché a volte so perdere.
Così ora questo bar chiude, e lo farà aprendosi a tutti. Non ho paura, non sento tristezza o dolore, solo un velo di malinconia perché anch’io mi affeziono ai miei posti. Ma so che molti altri luoghi del mondo attendono l’assenza che sono io.
Invito i clienti ad andarsene. Qualcuno va spinto fuori. Poi svuoto barattoli e bottiglie e annego i fondi di caffè.
Guardo l’unico uomo rimasto nel locale: ha staccato dal suo libro l’ultima pagina, quella con l’unica parola. La sta bisbigliando al silenzio dei muri.
Così sono gli uomini temerari: ci credono e non urlano mai.
Di colpo capisco chi è.
Lui appende il foglio al vetro della porta. Non posso permetterglielo, non finché sono qui. Mi avvicino a lui, guardo la parola al centro della pagina. Sento un ghigno esplodermi in viso e glielo regalo.
“Amore è il castigo per non aver saputo restare soli”, lo provoco.
“Può darsi”, mi risponde senza guardarmi. “Tu comunque adesso te ne vai.”
“Me ne vado come Lei?”
L’uomo si volta e mi fissa intensamente.
“Molti anni fa, quando arrivai, una donna se ne stava andando”, gli spiego.
“Sì. Era mia madre.”
“Un uomo voleva amarla. Fece bene a scappare.”
“È servito tanto tempo, ma mio padre l’ha ritrovata.”
“Peccato. E lei ha imparato a sopportarne il dolore?”
“Io qui sono risposta”, dice fiero spalancando la porta del bar.
Potrei scrivere ore nel tentativo di sviscerare gli innumerevoli argomenti che Alberto Gherardi ha accennato o per sottolineare alcuni passi che mi hanno particolarmente colpito, per scelta stilistica o per potenza espressiva.
Ma non lo farò. Almeno non in questa sede. Per ora voglio limitarmi a ricordare che bastano poche righe – se la penna è quella giusta – a trasportare il lettore – se il lettore è quello giusto – in un mondo parallelo dove la nostra vita reale è rappresentata con un originalissimo e al contempo preciso tratteggio. Un realismo magico nel quale un barista è la suggestiva figura maschile di Solitudine, al contempo spietato e malinconico regista di un intero mondo alla ricerca d’amore o in fuga da esso, e dove nel silenzio degli anni ogni tanto qualche risposta accade.
Un racconto, emozioni concentrate in “tre paginette”, nulla di più.
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Ringrazio Alberto Gherardi per avermi consentito di pubblicare l’intero racconto e segnalo a chi, come me, lo ha particolarmente gradito, che l’autore ha pubblicato anche una antologia di cinque racconti tutta sua, dal titolo «Cuori d’altopiano» edito da Lubrina Editore. E qui, c’è una bella recensione.
- Le apparizioni di Gesù risorto - 20 Febbraio 2017
- Un vizio capitale: l’invidia - 6 Febbraio 2017
- La melodia dell’amore - 30 Gennaio 2017
Il testo che tu hai proposto, a parer mio, denuncia una certa forzatura, un'ansia di simbolismo, una tensione, cercata a tutti i costi ,che non mi pare lo rendano particolarmente fluido. In me ha suscitato "esercizio" e non abbandono al testo…come quando al liceo ci facevano fare lo strutturalismo applicato a Brecht o Montale. Ma accade che uno scritto susciti impressioni diverse a seconda del momento in cui lo incontri, esattamente come succede per qualunque altra forma d'arte. Ho avuto l'impressione di una perfezione assai rincorsa e non ancora trovata : infatti la si raggiunge quando forse non si ha più necessità di rincorrerla…
Mi spiace non vi siano altri commenti e spero che il mio apra ad un confronto. Il racconto che hai inserito è senz'altro uno di quelli adatti ad un esercizio corale letterario : spunti ce ne sono a iosa. Ma volevo inserire una riflessione. In primis, non ricordo chi disse che lo "scritto" perfetto non è quello che ti fa agognare il finale, bensì quello che di cui godi dal primo all'ultimo rigo, non foss'altro per l'intrinseco piacere di leggerlo. Quindi non farei, per me, distinzioni di genere, bensì di qualità. Uno degli scritti più appassionanti per me è stato "Anna,soror" della Yourcenar (in "Come l'acqua che scorre"), in cui perfetta espressione e appassionante storia si fondono magicamente.