di Flavia Chiarolanza
Quanta delicatezza ci vuole per descrivere un dramma?
La poesia aiuta, giacché permette di gridare il proprio biasimo in punta di voce e lasciare che l’eco penetri nella mente sotto forma di assillo, per poi divenire memoria. La memoria è quel cassetto che si apre all’improvviso: i ricordi ne vengono fuori, e vanno ad ammonticchiarsi alle nostre spalle costruendo baluardi.
Gennaro Patrone è un drammaturgo capace di conferire una tale forza ai suoi versi teatrali, da dissipare ognuna di quelle ombre che si annidano tra i meandri delle tragedie umane.
Torniamo così all’asprezza di certi terreni, che solo la mano di un poeta riesce ad addolcire con la sua sapienza. Addolcita è la forma, cruda ne rimane l’essenza e feroce lo schiaffo che si riceve in pieno viso.
“Fobia…loghi” è il titolo di un dramma scritto da Patrone e rappresentato a Napoli in due consecutive edizioni del Maggio dei Monumenti. Tiepido è questo mese che più di tutti sa omaggiare ed accogliere la poesia, con il suo fiorente preludio alla bella stagione.
Il dialogo tra pubblico e attori attinge alla sorgente di alcune fobie, per alimentarsi in un crescendo che arriva a tradurre in voce, parole e mimica l’urlo dei suoi protagonisti.
Il dramma rappresentato è tutto umano, nel senso di una nascita e di una morte, di una fine e di una origine, che risiedono unicamente nell’uomo e nella sua caparbietà nel generare sofferenza.
Imma Ferrari e Salvatore Cirillo ne sono i commoventi interpreti, attori prediletti di un regista capace di forgiare parole come fossero cera, e farne seconda pelle con cui rivestirli sulla scena.
Salvatore si presenta al pubblico con abiti lerci, che continua ad insozzare consumando avidamente vino. Ogni parola scorre via con l’alcol, nei cui effluvi spera di perdersi non appena pronunciata: il dramma è così forte da non riuscire a sopportarne il carico senza l’aiuto di questa panacea.
I passi sono strascicati, chiunque in sala può avvertirne la pesantezza: io per prima, come se quell’uomo mi camminasse accanto. Sento sul mio corpo la sua fatica, voce e movimenti sono impastati. La sofferenza che si porta addosso si è trasformata in delirio, e per lui non si prospetta altro rimedio che il ricovero. L’internamento. Tra le mura e i medici, non è dato sapere che sia più sordo.
Con le parole vomitate a piccoli bocconi si mischiano ogni tanto frammenti di vita, e possiamo così ricostruire una parvenza di passato, di quella normalità che un tempo lo aveva reso felice.
Imma ci appare mentre culla una bambola. Sono entrambe spettinate e disordinate. In una parola, sciatte. Diverse dal quadretto rassicurante di una mamma che si prenda cura della figlioletta.
Le braccia che cullano sono accoglienti e respingenti al tempo stesso, la bambola croce e delizia. Viene fuori una storia di abuso infantile, di quelle insopportabili, indigeste, anche quando passano veloci nei titoli dei telegiornali.
Ciò a cui assistiamo è la scioccante alternanza tra la donna che urla per l’infanzia violata e la bimba mai cresciuta con in braccio la sua bambola. Un po’ la dondola un po’ la strattona. Prima le racconta che le azioni umane hanno colori diversi, e gli angeli le portano in cielo come piccoli fagotti variopinti; poi le raccomanda di non schiudere mai a nessuno lo scrigno della sua virtù, perché l’umanità è ladra e basta poco a finire derubati.
Dolore, tanto dolore. Sembra di vederlo mentre scivola dalle labbra degli attori e gocciola in platea.
La location che ospita l’evento è al contrario gioiosa, tanto da richiamare l’attenzione dei passanti, accogliendo gli avventori con una splendida varietà di creazioni artigianali.
Si tratta di un’Associazione che sorge nella più vitale – artisticamente parlando – tra le strade di Napoli, a pochi passi dalla storica Accademia di Belle Arti, tra caffè e bar in cui gli artefici della mondanità partenopea si ritrovano per creare nuovi eventi.
Il nome suona buffo, di quelli che è impossibile non tenere a mente: Ab Ovo, come a dire un ritorno alle origini della bellezza, a quel ventre fecondo che genera arte e cultura nelle sue multiformi espressioni. La bellezza è perennemente gravida, e questa Associazione – sotto la guida del presidente Gianfranco Troccoli – è levatrice esperta.
Con Gennaro c’è già stato un piacevole confronto: il suo carattere è leggero e vivace quanto intensi sono i drammi che porta sulla scena. Parlare con lui significa farsi tante e buone dosi di risate, sempre auspicabili di questi tempi.
La riuscita dello spettacolo – dichiara compiaciuto – è dovuta ad un ottimo lavoro di gruppo, e dunque alla maestria di tutti coloro che hanno prestato il loro talento: Sandra Lagozino, scenografa e costumista nonché artigiana di successo, in grado di realizzare splendidi manufatti; Rosario Ariosto, autore delle musiche originali; Annalisa Barbato, truccatrice di scena.
Mi rivolgo ai due interpreti, complimentandomi innanzitutto per la difficile prova attoriale.
In nome di una mai estinta cavalleria, la prima a rispondere è Imma Ferrari, protagonista di “Maria Addolorata”, il secondo dei Fobia…loghi portati in scena:
Questo è il terzo personaggio che ti vedo interpretare, e devo dire che sono colpita dalla versatilità con cui riesci a calarti in ruoli così diversi. Hai alle spalle un’ottima scuola e un buon pigmalione, oppure possiedi un talento istintuale che ti conduce naturalmente a trasformarti sul palco? Te lo chiedo anche in virtù della tua giovane età.
Ho iniziato a studiare recitazione da piccola, quando avevo appena 12 anni. Molto di quello che ho imparato lo devo al mio insegnante, Antonio Caponigro, e quindi è indubbio che all’origine del mio percorso ci siano gli anni di una buona scuola.
È altrettanto vero che alcune cose mi vengono naturali, non ricordo di averle mai studiate a tavolino: ad esempio, per calarmi nei panni della vecchia nel precedente allestimento di Gennaro Patrone, ho seguito solo il mio istinto poiché si trattava di un ruolo che nessuno mi aveva mai insegnato prima.
Parlando di Gennaro, non posso non annoverarlo tra i miei maestri. D’altronde ritengo che la prima guida di un attore, a parte il proprio talento, sia appunto il regista. Lui ha il dono di modellare il mio istinto, dandomi degli input che poi faccio miei.
Credi sia più difficile gestire un monologo in piena solitudine, oppure interagire con altri personaggi anche a rischio di intralciare o essere intralciata?
Il monologo è indubbiamente più impegnativo a livello emozionale: si tratta di una vera prova d’attore. Tuttavia so anche di poter contare su me stessa, in caso di errore: non sempre gli altri riescono a “tappare i buchi”, cioè ad intervenire laddove io vengo meno.
Puoi descriverci cosa si prova a trovarsi faccia a faccia con un pubblico che non guarda altri che te? Non c’è nessuno che ti faccia da paravento. Sei tu sotto la lente di ingrandimento.
Mi fa paura prima, dietro le quinte. Ma nel momento stesso in cui entro in scena, ogni timore svanisce. Devo dire che mi piace molto esibirmi da sola. È un dato caratteriale: amo stare al centro dell’attenzione. Amo sentirmi dire di essere brava, senza condividere con nessuno questo momento di gratificazione. Vale ovviamente anche per le critiche, che si riversano solo su di me e non su i miei compagni di scena. Insomma, il vantaggio risiede nel fatto che l’unica responsabilità è verso me stessa, nel bene e nel male.
Ti è mai capitato di perdere il filo, di smarrire la memoria per poi ritrovarla più avanti, magari dopo una frase saltata o recitata con parole diverse?
Sì, capita spesso. Ma io non mi attengo solo alle battute: seguo un filo logico che è nella mia testa e si avvolge intorno alla sequenza delle scene, sia come parlato sia come partitura fisica. Una sorta di quadri scenici. Infatti avrei più difficoltà a concentrarmi stando ferma, proprio perché mi baso sulla dinamica delle scene e non sulle parole.
Mi dicevi che sei studentessa in scenografia all’Accademia di Belle Arti: fra i tuoi progetti futuri vi è dunque anche quello di allestire le scene di uno spettacolo? E questa tua ulteriore competenza migliora il rapporto con il palcoscenico, il copione e i colleghi presenti sulla scena?
I miei studi certo mi agevolano, perché in veste di attrice ho acquisito consapevolezza del palco inteso come spazio in cui muovermi e in veste di scenografa ne conosco anche i nomi dal punto di vista tecnico. Questo mi fa sentire più competente e quindi più sicura.
L’idea di un allestimento è ovviamente nei miei programmi. In passato ho studiato pittura: unendo quest’arte alla recitazione viene fuori la scenografia. E la scenografia scissa dalla recitazione non mi darebbe un appagamento totale.
Ora posso dare la parola a Salvatore Cirillo, il primo dei due attori a presentarsi in scena con il fobia…logo “La cura”.
Il personaggio che interpreti si muove e parla in maniera biascicata. Come sei riuscito ad ottenere questo perfetto connubio tra voce e corpo? Chi ti ha ispirato?
Ho lavorato innanzitutto sul corpo, per renderlo espressivo e dargli una voce tutta sua. La mia voce l’ho usata come cornice.
Quanto all’ispirazione, mi ha soccorso l’abilità nel ramo del “furto”: rubare agli altri per portare in scena le loro esperienze, osservare la realtà per trarne profitto. Mio nonno per esempio camminava come il protagonista del monologo che interpreto. Ho ricordato i suoi movimenti ed ho cercato di riprodurli sul palco.
A me che ti ho visto in entrambe le versioni, viene spontaneo chiederti quale genere di ruolo preferisci: comico o drammatico?
Entrambi. Dopotutto siamo buffoni: oggi ti faccio ridere, domani ti faccio piangere. E tu pubblico devi credermi.
Immagino fosse tè la bevanda che sorbivi, per fingere il tuo stato di alterazione alcolica. Mi confermi che non è mai facile bere o mangiare in scena? Quanto diventa arduo compiere sotto i riflettori un gesto tra quelli più semplici che rientrano nella nostra quotidianità?
Sento dire spesso: in teatro devi comportati come nella vita normale. Ma non è affatto così! Quando ti trovi sulla scena contano i tempi, le pause, le sensazioni, i bisbigli che provengono dalla platea: devi essere in grado di gestire tutto questo. Ecco cosa intendevo per “dare voce al corpo”: sentirlo deglutire, scuotersi, magari tossire per un sorso andato di traverso. Ascoltare le sue reazioni, insomma, sia meccaniche sia emotive.
Se la memoria non mi inganna, ti occupi di altro nella vita. Vale dunque anche per te il discorso del talento nudo e crudo, che esplode in tutta la sua istintualità?
Faccio altro, è vero, ma penso continuamente a quello che vorrei portare in scena. Il teatro per me è riposante, quando sono lontano non vedo l’ora di tornarci perché mi lascio tutto alle spalle. Il mio talento è certamente istintivo, ma se posso cerco di studiare e migliorarmi: ho fatto dei corsi ed anche uno stage di biomeccanica, sul movimento del corpo. Spero di farne ancora in futuro.
Ti capita mai di improvvisare mentre sei in scena? E in caso affermativo, se possiedi cioè questa abilità, hai mai pensato di scrivere qualcosa di tuo?
Se improvviso? A volte sono addirittura scostumato! Altre volte si tratta di adrenalina pura, nel senso che agisco a ruota libera sull’onda dell’emotività, non mi accorgo nemmeno di improvvisare: ne prendo coscienza solo perché qualcun altro – per esempio la collega Imma o il regista, Gennaro – me lo vengono a dire.
Al momento non ho in programma di scrivere qualcosa di originale. Quello che mi piace fare soprattutto è lavorare sui testi già esistenti, cucire e scucire, metterci qualcosa di mio. Mi piace anche comporre poesie, e mi è capitato di interpretarle.
Resto in attesa di nuovi inviti, perché se c’è una cosa che amo follemente è il teatro scritto (o ricucito!) dagli attori, da chi su quelle tavole ci vive e soffre. Vita e sofferenza sono sublimi, se ciò che le alimenta è un parto della nostra anima.
Ciao, e auguri a tutti di simpatici fiocchi celesti e rosa da appendere dopo il travaglio!
Foto di Vincenzo Severino e Procolo Lucignano
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