Morire nel tempo di una canzone

 

locandina spettacolo desaparecidos
di Flavia Chiarolanza

 
Per generare facili distrazioni, si ricorre spesso all’artificio di un grande evento mediatico che – opportunamente imbastito – esalta le doti organizzative del Paese ospitante. E non si offende mai, un ospite. Lo si ringrazia piuttosto, con l’augurio di ricambiare la cortesia.

E così, mentre gli spalti tremavano e la stampa aveva di che riempire le pagine delle sue cronache calcistiche – durante i mondiali argentini  del ’78 – a nessuno veniva in mente di attribuire l’assenza in campo del famoso Juan Morresi ad una causa diversa dal semplice infortunio.

Si innalzano bandiere variopinte, si intonano inni e dalle tribune partono cori di incitazione alle numerose Nazionali prontamente accorse, nonostante la vaga eco di ciò che stava succedendo da quelle parti. Si applaude infine la vittoriosa Argentina. Ma Juan continua a non esserci.

Questo è uno dei momenti più intensi del meraviglioso testo di Angela Sales “Il tempo di una canzone”, ispirato alle testimonianze raccolte nel corso degli anni successivi alla terribile vicenda dei Desaparecidos. Un testo corale e struggente, che affianca al racconto-confessione di un Ufficiale Pilota della Marina le voci delle madri di Plaza de Mayo, che invocano sommessamente giustizia in una sorta di simbolico girotondo.

Il cerchio non ha vie d’uscita, né punti di arrivo. E chi lo disegna tenendosi per mano, intende marcare un territorio da cui non vuole allontanarsi perché è al suo interno che esplode l’unanime pretesa di ricevere ascolto.

Donne in cerchio. Tutte diverse, a fronte di un identico dolore. E di un’unica fonte che lo alimenta in modo incessante, come le loro litanie che snocciolano nomi di figlie e figli.

Il tempo di una canzone, recita il titolo della pièce. È il tempo che impiega un uomo per morire, in assenza di qualunque verdetto o annuncio. Il tempo di guardare in faccia la morte, prima di essere costretto ad abbracciarla. Il tempo di un volo e del susseguente impatto con le acque di un mare, che non è più fluttuante ma diventa acciaio. E spezza le ossa.

Il mondo ignora. L’Argentina inganna, con i suoi impeccabili Generali che stringono mani ed appuntano medaglie agli sportivi in gara. Tale finzione basta a dimenticare quelle sparizioni improvvise, di cui ogni tanto si parla ma che in fondo non sono così dissimili dalle ordinarie fughe con amanti o denaro illecitamente sottratto. Bottini di oro o carne. Roba di routine. Non sorprende dunque che, all’ansimante richiesta d’aiuto di uno degli attori in scena – gridata oltre oceano nella cornetta del telefono – si risponda con una generica alzata di spalle, da parte di chi prova fastidio per l’incomprensione altrui nei confronti di umane scappatelle e, incalzato dalle urla provenienti dalla stanza del televisore comunitario dove amici e parenti onorano il rito dei Mondiali, conclude rassicurando sul prossimo ritorno all’ovile del fuggitivo di turno. Ed invoca sul finale di esserne  informato, perché è davvero poco elegante sbandierare cotanto disinteresse per colpa della sindrome del pallone calciato su un prato verde.

Chi non vede o pur vedendo non capisce, quale aggravante merita se non quella di aver frettolosamente disimparato la lezione proveniente solo da qualche annetto di storia pregressa? Debole memoria, destinata a vacillare anche in futuro. Che si chiamino Hutu, ebrei, extracomunitari, omosessuali o desaparecidos, uguale è l’entità dell’ignoranza. Lo spessore dell’indifferenza, implacabile e dura come la superficie del mare su cui andavano a schiantarsi corpi inermi.

C’è un punto su cui l’autrice, per bocca dei suoi personaggi, insiste nel richiamare la nostra attenzione: la morte inconsapevole. Ignara. Muta. Invisibile nel momento in cui solleva la sua falce, doppiamente crudele verso chi non può né vederla, né sfidarla, né implorarla. Perché la vede solo un istante prima di esserne colpito. Non c’è tempo per una preghiera, una supplica, un minuto di raccoglimento per ciò che si è detto e fatto in vita. Non è più possibile né rinnegare né rivendicare. Si soccombe, e basta. Con gli arti disarticolati, la vista annebbiata dall’anestetico generosamente iniettato per mano di un medico che invece ha avuto tutto il tempo di rinnegare il giuramento dei giovanili anni della laurea. E poi di pentirsi. O di non pentirsi.

Che morte è quella che non si fronteggia a viso aperto?  Quale uomo vorrebbe restare cieco e inerte dinanzi al commiato dalla propria vita?benda

L’ultimo volo è quello di un giovane che ha l’istinto di aggrapparsi al braccio del suo carnefice. Ne percepisce l’odore, e perfino il cinismo dell’animo quando quel braccio lo strattona ed accompagna nella caduta.

Non ha l’illusione di evitare, ma solo il disperato bisogno di ritardare quella fine per darsi il tempo di comprenderla.

A precedere l’impatto, gli schizzi d’acqua che solleva il corpo precipitato prima del suo, e che lo colpiscono in pieno volto donandogli una sorta di refrigerio in quell’intorpidimento generale.

Lo spettacolo debutta il giorno 29 marzo al teatro Il Primo di Napoli, diretto da Arnolfo Petri. Ho l’occasione di avvicinarlo, prima di scendere in sala. Ci tengo infatti a complimentarmi con lui per aver messo a disposizione di questa intensa commemorazione lo spazio del suo teatro, piccolo e grazioso come un gioiellino, da sempre luogo di fondamentale ritrovo per quanti a Napoli credono nella bellezza della prosa e nella fiducia verso chi fugge o è reso fuggitivo dalle scene convenzionali. Mi risponde che ha sempre amato le sfide, e allora gli comunico il desiderio di approfondire la questione in una apposita intervista.

Poi incontro Angela Sales, artefice di questo meraviglioso esperimento. Ha uno sguardo luminoso e modi affabili, che invogliano ad ascoltare con interesse le ragioni della sua scelta. Audace, oserei dire, perchè è sempre doloroso mettere in scena la banalità del male.

Dalla lettura del testo, si evince una profonda conoscenza non solo degli eventi ma anche dei personaggi che vi hanno dato corso.

 

In che modo ti sei documentata?

I libri, innanzitutto quelli. Autori come Fabrizio e Nicola Valsecchi, Eduardo Luis Duhalde, Pilar Calveno, Italo Moretti. Ho visionato anche materiale di repertorio, e cioè i filmati realizzati durante il periodo della dittatura. E non da ultimi gli atti processuali.

 

È stato difficile rielaborare le informazioni da te raccolte? 

Mi sono lasciata prendere la mano, come si suol dire. Tutto è avvenuto il più naturalmente possibile, senza forzature. Si vede che ho un conto “emotivo” in sospeso con l’Argentina…

 

Da dove nasce l’interesse per un episodio così doloroso della nostra storia contemporanea?

Nasce innanzitutto dalla voglia, o forse l’esigenza, di accendere un piccolo faro su questo terribile capitolo di Storia. Una sorta di “imbuto del nulla”, nel quale sono finite risucchiate oltre 30.000 persone. Ma esiste anche una motivazione di natura personale. Nei primi mesi del ’78 un mio familiare, Costantino Petrakos, è stato vittima della desaparicion insieme alla moglie Maria Eloisa Castellini. Entrambi furono detenuti nella prigione segreta conosciuta col nome di El Pozo de Banfield, situata nella provincia di Buenos Aires. La detenzione si è protratta sino alla definitiva “non più esistenza”.

 

Perché di questo occorre parlare, giusto Angela? Non di semplice scomparsa, come recita uno dei tuoi personaggi. Scomparire significa essere altrove. “Desaparicion” significa invece non esser più, o peggio ancora non essere mai stato.

Il dramma risiede soprattutto in questa semplice parola, la cui errata traduzione non permette di comprendere l’entità della vicenda.

 

Tra le fonti della tua ispirazione compare anche la filmografia. Capolavori come “Garage Olimpo” e “La notte delle matite spezzate” hanno rafforzato il tuo proposito, o sei approdata a questi due film dopo aver già maturato tale decisione?

Si trattava di un appuntamento inevitabile. In particolare, il film “La notte delle matite spezzate” provoca in me – ancora oggi, dopo averlo visto più volte – un grande turbamento. I sequestri, le torture, le uccisioni narrate nel film con crudo realismo: come dimenticare che ad esserne vittime furono studenti di età compresa fra i sedici e i diciotto anni?

 

Hai scelto di affidare la forza della narrazione alle sole parole, al confronto verbale tra due differenti coscienze e stili di vita. È stato difficile rinunciare all’efficacia delle immagini, che vengono solo evocate tramite descrizioni dal grande impatto emotivo?

Piètas e non pathos: questo è l’obiettivo del progetto. Un compito così importante può essere affidato solo alla parola, e quindi al ricordo. Ho voluto che il dolore fosse l’esito del viaggio. Il punto di arrivo, e non di partenza.

 

Una delle scene più forti, e che mi ha maggiormente colpita, è quella del prigioniero trascinato in un vorticoso tango dalla bella Viviana Taurisano proprio mentre sta tangoraccontando le atrocità subite. Perché questa scelta registica?

È semplicemente il simbolo di tutti quelli che hanno deciso di non guardare, e di proseguire nelle loro quotidiane attività. La danza è una di queste, è l’anima del popolo argentino. Ciò che ne perpetua l’immagine nel mondo. Immagine di gioiosa sensualità, che contraddice il dramma vissuto in quegli anni.

 

Parliamo di Scilingo, il protagonista della pièce nonché reale artefice di numerosi voli della morte. Dove hai preso le sue testimonianze?

Scilingo è stato accusato di genocidio, per concorso in 30 assassinii, 93 lesioni, 225 atti di terrorismo, 286 casi di tortura. Attualmente sconta in Spagna una condanna a 640 anni di carcere. In rete ci sono decine e decine di filmati, in cui si lascia intervistare con tranquillità. E racconta ciò che ha inflitto e visto infliggere, proprio come avviene nella pièce.

 

Le sue parole inducono a credere in un reale pentimento, ma tu mi hai raccontato che ascoltando la viva voce è possibile intuire una vena di fastidiosa ipocrisia e viscido compiacimento. Un uomo di grande fascino direi, posto che per fascino si intende anche il lato oscuro delle persone. Quell’anima nera che spinge a penetrare nelle loro menti e indagarne le ragioni.

Certamente. Parliamo di un personaggio molto controverso. La fede cieca e sorda nelle Forze Armate gli ha sempre impedito di fermarsi a riflettere con lucidità sui crimini commessi.

Non sono pochi i suoi tentativi di fare marcia indietro, di affermare e poi affrettarsi a negare. Decisamente antipatico. Infido. Specie quando torna ad esaltarsi, un istante dopo aver lasciato trapelare frasi che accennano ad un pentimento.

rovani
L’attore protagonista – Danilo Rovani – è stato davvero molto bravo, riuscendo perfettamente nella resa di questa ambigua personalità. Come sei riuscita a farlo lavorare sui toni che abbiamo sentito nello spettacolo, così  melliflui e disturbanti?

Beh, c’è da dire innanzitutto che Danilo Rovani è un attore straordinariamente dotato, versatile, e questo ha reso la faccenda meno complicata.

Ci abbiamo lavorato parecchio. Una totale immersione nella vicenda argentina, durata diversi mesi. Uno studio approfondito e meticoloso del personaggio, alla ricerca della gestualità, delle piccole nevrosi: Scilingo non poteva avere una voce “argentina” e gradevole, mentre recitava le sue confessioni. E Danilo in questo è stato abilissimo.

 
E infatti non è sfuggito al pubblico – silenzioso e attento come sempre accade durante una rappresentazione coinvolgente –  il repentino cambiamento non solo di tono ma addirittura di voce quando Rovani abbandona le vesti di Scilingo per esibirsi in un monologo che racconta le ultime ore di vita di un prigioniero. Vittima senza nome, e che dunque potrebbe essere uno qualsiasi dei giovani desaparecidos nominati nel corso dello spettacolo.

Sono d’accordissimo con te. Una grande performance, per un grande attore.

 

Ottima anche la prova di Antonio Buonanno e della cantante Axia Tedeschi, che ha interpretato appassionatamente alcuni brani della tradizione argentina. Come sei buonannoriuscita ad amalgamare, con tanta sapienza, recitazione canto danza – attraverso le sinuose prestazioni di Viviana Taurisano e Rosa Orefice – e l’affascinante chitarra del Maestro Michele Bonè?

La magia degli incontri… Antonio Buonanno innanzitutto, perfetto nel ruolo di chi è costretto a sopportare il peso della memoria storica e della coscienza civile. Viviana Taurisano e Rosa Orefice, bravissime danzatrici, leggere e impeccabili. Il Maestro Michele Bonè, talento e tecnica allo stato puro. Si sono fusi da soli, in virtù dei loro diversi talenti. Ed io, che ho sempre amato la “tecnica mista”, mi sono limitata a metterli in contatto.

 

Quante delle interpreti delle madri di Plaza de Majo –  le splendide Serena Pisa, la stessa Axia Tedeschi e Piera Violante –  lo sono anche nella realtà? Io riuscivo a percepirne la sofferenza, quasi fosse autentica.

Serena Pisa è il volto della rabbia “pasionaria”, ardente e silenziosa; Axia Tedeschi è il canto del cuore, della speranza che rinasce. Quanto a Piera Violante, commovente e coraggiosa madre degli scomparsi Jorge e Raoul, è lei che nella realtà ha due splendidi figli.

 

L’ultimo brano intonato sul palco, “Todo cambia”, vuole essere profetico? Lasciar intravedere insomma uno spiraglio di luce, nonostante il ripetersi ossessivo della storia? O per cambiamento si è voluto intendere la tentazione tipicamente umana di ritorno alla barbarie, in spregio ai diritti acquisiti?

attriceÈ un’apertura alla speranza, alla possibilità che tutti noi abbiamo di cambiare, di far prevalere quello che io chiamo “il fattore U”. In questo caso U sta a indicare Umano, Umanità Uomini. Guai se non ci fosse la possibilità di un varco. Todo cambia, ci voglio credere.

 

Io mi auguro di vedere il tuo spettacolo replicato anche su altri palcoscenici, oltre a quello del Primo ove resterà in scena fino a domenica 1 aprile. Che progetti hai per il futuro?

Sto lavorando allo sviluppo di un altro personaggio controverso e molto discusso, italiano, di qualche anno fa. Vedremo…

 

Bene. Ed io sarò qui, a raccoglierne i primi vagiti…

Ti ringrazio molto. Spero davvero che possa succedere qualcosa di speciale. Abbiamo lavorato tanto e la speranza è di portare questo spettacolo in giro per l’Italia… per continuare a dire, per non dimenticare…

 

Grazie a te, ed al meraviglioso staff che ti accompagna in questa avventura.

Cerchiamo anche noi di scongiurare il pericolo dell’oblio, seconda mannaia che si abbatte sulle vittime di ogni genocidio.

Mi sciolgo nell’avvolgente abbraccio di Angela e mi accorgo dei suoi occhi lucidi. Credo sia soddisfatta del debutto. E ne ha buone ragioni, basta guardare l’espressione commossa sul volto degli spettatori che abbandonano il teatro in silenzio, assorti. Durante la rappresentazione, più volte li ho visti reprimere i loro applausi. Sembrava irrispettoso, nei confronti di un dramma rubato alla realtà e troppo presto dimenticato.

Non mancherò di aggiornarvi in merito alle date di future rappresentazioni. Né di sollecitare Angela, affinché proponga il suo lavoro nelle scuole. Le pagine dei nostri libri sono carenti nel narrare con equità tutte le tragedie di cui l’uomo è testimone e artefice.

Ciao.

E auguri a tutti di doverosi ripassi di storia.

 

 

(Foto di Mario Palumbo)

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One Reply to “Morire nel tempo di una canzone”

  1. Grazie mille, Annamaria! Sia per aver letto l’articolo sia per averlo commentato.

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