di Flavia Chiarolanza
Personalmente amo molto le rivisitazioni. Hanno in sé qualcosa del tributo – all’opera originaria, che ne viene omaggiata – e del nuovo, inteso come angolo inedito di osservazione.
Se parliamo poi della famiglia de Filippo, e dell’immensa mole di lavori teatrali scaturiti dal loro genio, ci sembra di immergere le mani nell’acqua dell’oceano. Molti sono gli artisti napoletani che decidono di riprendere le opere eduardiane, di rivendicare questo patrimonio comune alla stregua di un’eredità preziosa. Non sorprende dunque che il pubblico accorra numeroso, quando le reti nazionali decidono di offrire in programmazione spettacoli dal vivo o filmati di repertorio. Il tutto in barba a chi pensa che l’assuefazione sia un destino ineluttabile, al pari della schiavitù imposta dai pessimi costumi televisivi.
I lavori di Peppino De Filippo, autore – e non solo attore – prolifero, sono meno conosciuti alle odierne ribalte, meno osannati dalle platee internazionali ma figli altrettanto legittimi di una tradizione che permette a Napoli di primeggiare nel campo del teatro, e di poter contare su un vivace ricambio generazionale.
Oggi parliamo di una compagnia molto attiva nella città campana, o meglio in quelle sue periferie così lontane dal passeggio cittadino – quello in giacca e cravatta e fili di perle – eppure così generose nell’accogliere l’arte. Il nome suscita immediata simpatia, perché delinea all’istante l’immagine un po’ vera e un po’ farsesca a cui il partenopeo deve il suo onore e disonore: Ma.Te.Na, ovvero Mascalzoni teatranti napolitani. Ricorda molto il Mascalzone latino che solca i mari delle gare sportive, nel segno della continuità rispetto alla tradizione che vuole il popolo meridionale irresistibilmente canaglia.
Lo spettacolo, di cui andiamo ad occuparci, è stato portato in scena lo scorso 21 Settembre presso l’Associazione “Figli in famiglia Onlus“, in occasione della rassegna Teatramo. Questi dettagli richiamano alla mente un gruppo di giovani armati di solo talento, e di quella vitalità indispensabile per permettere al teatro di sopravvivere nelle terribili acque in cui vediamo la nostra cultura annaspare da anni. Acque così inquinate da fare pensare alla perseveranza di chi crede nell’arte come a qualcosa di eroico. Arrivo con un po’ di ritardo, ma sono ugualmente felice di poter recensire questo lavoro, che mi è caro sia per il genere sia per la conoscenza con il regista Salvatore Cirillo, precedentemente ammirato in due ottime prove attoriali. Ne apprezzo dunque in primis la versatilità, e la disinvoltura nell’abbandonare un ruolo a vantaggio di un altro.
La farsa in due atti, intitolata “Ma ca’ ‘a scritto mammà?”, è appunto liberamente ispirata alla commedia La lettera di mammà del grande Peppino De Filippo, attore meraviglioso e pieno di una verve tragicomica che ne fa degno antagonista del fratello.
Ricordo ancora la risposta di Salvatore quando, all’indomani del debutto, gli chiesi se fosse soddisfatto del suo lavoro: “volevamo far ridere, e ci siamo riusciti“. Non ho mai immaginato niente di più difficile, sia nei secoli buoni sia in quelli brutti: laddove c’è abbondanza, si pretende un intrattenimento di pari livello; laddove c’è precarietà, si confida nel miracolo della risata consolatrice quasi fosse una manna. Comunque lo si veda, il ruolo del comico costa lacrime di fatica e impegno.
La commedia, come insegnano le farse scarpettiane, lancia alla fine il suo messaggio senza alcun intento moralizzante. Offre un’occasione per riflettere, insomma, dopo averne offerta una per divertirsi all’insegna di quegli intrecci ed equivoci cha non finiscono mai di appassionare.
La piece gioca su uno dei sentimenti più congeniali al romanticismo partenopeo: l’amore filiale, ancora più solenne se nutrito dal maschio verso la madre. Il protagonista Riccardo rischia di compromettere i piani della famiglia, che lo spinge verso il matrimonio con una donna ricca, pur di rispettare le ultime volontà materne.
In una lettera scritta in punto di morte, infatti, la madre gli raccomanda di trattare le donne sempre col massimo rispetto, perché “la donna è una cosa sacra”. Quante tristi pagine di cronaca verrebbero risparmiate, se questo rispetto fosse caro anche agli uomini del nostro tempo.
Il monito della defunta è chiaro, e ricorre quasi ossessivamente tra le pagine della lettera. Riccardo non dovrà mai ripetere i comportamenti del padre, tanto irrispettosi verso la consorte, per evitare di far soffrire ingiustamente altre donne. Un insegnamento prezioso, che gioverebbe ai nostri figli in quest’epoca di femminicidi.
Salvatore, di certo non volevi solo far divertire. Che tipo di messaggio hai inteso trasmettere con il tuo lavoro?
Volevo far riflettere sull’avidità dell’uomo, intesa come attaccamento ai soldi e alle apparenze: titoli, danaro, riconoscimento sociale. Sono questi i valori effimeri a cui le persone si aggrappano per giustificare i loro fallimenti sul piano umano.
Nella commedia si parla di un titolo nobiliare fortemente ambito dalla famiglia protagonista, che non si accontenta del semplice denaro per riscattare la sua posizione. Pretende l’accesso alla nobiltà, intesa come lavacro di ogni bruttura e sporcizia cui la vita comune normalmente condanna. Se volessimo fare un parallelo con i tempi moderni, oggi le persone in cambio di cosa venderebbero se stesse?
In cambio di tutto. O meglio, di tutto quello che non si è in grado di ottenere con il proprio lavoro. Parlo dell’incapacità non di accontentarsi, ma di accettare i risultati resi accessibili dalle nostre sole forze. Usiamo gli altri come una sorta di traino, per arrivare più in fretta dove normalmente si arriva dopo immensi sacrifici. E spesso in cambio di qualcosa che, tutto sommato, non fa per noi. Il prezzo è l’annullamento di noi stessi in nome di un’utopia. Chi possiede la ricchezza, come i protagonisti di questo spettacolo, ambisce al prestigio senza tuttavia averne né il merito né le capacità.
Ieri il matrimonio, come escamotage. Oggi? Vogliamo dire la politica, tanto per essere banali?
La politica, concordo… perché così non hai bisogno del matrimonio. Se un matrimonio finisce, c’è bisogno di mettere in mezzo gli avvocati, no? La politica invece non presenta questi svantaggi, diciamo, di natura burocratica. C’è molta più disinvoltura nel passare da un partner all’altro, mantenendo i medesimi privilegi.
Ti eri già confrontato con altri testi di Peppino De Filippo?
Sì. Per l’esattezza, con un testo intitolato “Miseria bella” che ho rivisitato e portato in scena l’anno scorso. La tematica è più o meno la stessa: la povertà frutto non della malasorte ma dell’egoismo, dell’indolenza di chi – nel volere qualcosa che non può raggiungere – aspetta la manna dal cielo. La morale è che dobbiamo muoverci, perché a restare passivi non finisce né la povertà né il malessere personale. Il discorso può valere anche per chi, desideroso di fare arte, pretende di non mettersi in gioco davanti ad un pubblico.
Ci sono quindi alcune tematiche care a De Filippo?
Indubbiamente c’è una morale di fondo. Io ho scelto Peppino anche perché è un attore. Un attore di teatro, di quelli che interpretano fino in fondo i loro personaggi. Non una maschera fissa. Peppino in scena poteva essere un grande caratterista, oppure l’interprete eccellente di un Molière.
L’allestimento scenografico mostra quinte nere, quasi spoglie, e un tipo di arredamento essenziale. Si è trattato di una scelta meramente estetica, oppure tale essenzialità risponde ad un intento preciso?
Le quinte nere obbligano l’attore a concentrarsi su se stesso, e non sugli oggetti dell’arredamento presente in scena. Se commette un errore, non è tra questi oggetti che può trovare rifugio: deve affidarsi in modo esclusivo alla sua capacità di improvvisazione, ed alla sua nuda fisicità.
Da regista hai voluto scommettere sulla bravura degli attori, che sono riusciti ad esibirsi egregiamente sia con la voce sia con il corpo. I ragazzi che hai portato in scena provengono da altre esperienze di palcoscenico?
Sì e no. Alcuni di loro lavoravano per la prima volta su un palco, e per la prima volta con me. Vittorio Galasso, per esempio, non aveva mai fatto teatro. Eppure l’entusiasmo con cui si è messo alla prova, fin dal suo ingresso in compagnia, ha tratto in inganno gli spettatori…
…compresa me
Tu infatti lo avevi notato subito, e mi avevi addirittura chiesto da quale compagnia provenisse. Altri invece, come Gianluigi Ferrari – interprete di Riccardino – vantano una grande esperienza in ambito teatrale.
Ottimo anche il lavoro sui dettagli: la bravura di un attore risiede nella sua capacità di restare nel personaggio anche quando non partecipa all’azione. In gergo si chiama “controscena”. Come hai imparato questo metodo, e come riesci ad insegnarlo?
Io so solo che gli attori mi guardano di traverso quando provo a spiegarglielo! Tuttavia so anche che – se ami davvero stare davanti a un pubblico, guardare i tuoi compagni recitare dal vivo – è quasi istintivo fare “il controscena”. Non condivido il pensiero eduardiano, che imponeva ai suoi attori di immobilizzarsi quando toccava a lui riempire lo spazio scenico. Gli altri interpreti non devono essere come delle statue, al contrario: devono aiutare a far capire quello che sta succedendo e quello che potrebbe succedere attraverso la mimica.
C’è il rischio che un attore si distragga durante il controscena?
Certo. Ma basta non guardare dietro le quinte…
Parlami del modo in cui sei intervenuto sul testo originale, con riguardo sia alla trama sia al linguaggio.
Ho cercato di fare una pulizia del linguaggio, per renderlo più vicino al parlato dei giorni nostri. Non dimentichiamo che il testo di Peppino risale agli anni ’50, e alcune espressioni dialettali dell’epoca oggi risulterebbero incomprensibili. E poi, come dicevo prima, ho deciso di rendere la scena essenziale affinché non si comprenda l’ambientazione. Come nelle favole: non iniziano forse con “c’era una volta”, senza specificare il tempo? E non è forse questo a renderle così magiche?
L’arte della recitazione cosa rappresenta per te?
Rappresenta l’evasione. Non da quello che ci circonda, ma da noi stessi. Chi vuol fare un buon teatro, deve innanzitutto saper sognare. Io nel sogno mi vedo in scena, allora so – una volta sveglio – come devo raccontarmi sul palco.
Quando ti vedremo di nuovo all’opera?
A Febbraio, per una commedia comico-brillante scritta da un amico, Eduardo Barra, ma da me rivisitata e modificata qua e là. E poi ci sono tanti altri progetti, di cui avremo modo di riparlare.
Un’ultima domanda. Possiamo definire questo testo “femminista”?
Certo. Femminista e dunque rivoluzionario, non solo per l’epoca in cui sono ambientate le vicende ma anche per il nostro tempo. La donna è sempre d’attualità.
Desidero menzionare gli interpreti di questo spettacolo, chiamati al duro confronto con personaggi che abitano ormai a pieno titolo l’immaginario collettivo e vantano numerosi fratellastri dall’accento diverso, come dimostrano in rete i filmati delle messe in scena nelle varie regioni italiane.
Natascia Porri è impegnata su due fronti: come aiuto regista e come interprete del ruolo di Luisa Bentivoglio, irresistibile padrona di casa che cerca di ingentilire i suoi modi per mostrarsi all’altezza del futuro, nobile genero.
Luna Di Perna suscita grande ilarità nell’interpretare il ruolo della cameriera, che si lascia goffamente istruire per compiacere la sua padrona; e non si sottrae a divertenti pantomime, nel tentativo di imitare le movenze di una domestica di lusso, addetta all’accudimento di ben altre case e ben altri signori. A questa simpatica caratterista dobbiamo anche la creazione della locandina.
Federica Ambrosino è tra le confidenti della promessa sposa, pronta a rallegrarsi per la buona sorte dell’amica che presto aggiungerà – alla ricchezza derivante dai commerci paterni – quel titolo nobiliare così ambito per elevarsi socialmente. Con la sua prorompente fisicità Federica si contrappone al bravissimo Vittorio Galasso, che recita traballante e disarticolato come una marionetta. Vittorio offre così – del personaggio di Ernesto – un’interpretazione del tutto singolare, benché non sia un professionista della scena. Onore dunque al talento dell’attore ed alla bravura del regista che lo ha diretto, svelandone le capacità.
Gli altri attori in scena, di eguale bravura, sono: Gina De Franco, Annamaria Di Francesco, Arianna Brunelli, Gaetano Fierro, Gerardo Ferrari, Luca Memoli.
Il tecnico audio/luci è Paolo Di Perna, le acconciature sono opera di Anna Cirillo.
Grazie a questi giovani impegnati nella rinascita culturale di Napoli, e nella narrazione di quella parte di storia che ne fa tuttora oggetto di contesa tra gli amanti del teatro.
Ciao, e auguri a tutti di simpatica devozione verso i lustri del passato.
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