127 ore, un pretesto per vivere e mille ragioni per non morire

25 aprile 2003, venerdì notte. Aron Ralston (James Franco) è un ingegnere meccanico di 28 anni che ama trascorrere i suoi week end fuggendo in solitario dalle civili e selvagge, anguste e dispersive, inquadrate e caotiche metropoli, per rifugiarsi nello spazio sconfinato del Canyonlands National Park dello Utah, nel quale la bellezza dei paesaggi si fonde con il capriccio delle forme e dei colori. Un luogo bizzarro nel quale il mistero della natura sembra sposarsi con divine logiche architettoniche.

Ma che cosa potrebbe spingere un uomo a percorrere da solo il crinale scosceso di un canyon, entrare negli anfratti umidi e bui, calarsi nelle spelonche, tuffarsi in un fiume sotterraneo, scalare pareti, saltare burroni e infine tornare a casa per ritrovare il solito tran tran quotidiano? Semplice: la voglia di sentirsi vivo. Ma come? Per sentirsi vivi ci si deve confrontare con le situazioni estreme? Non sarebbe meglio trascorrere le proprie domeniche avvolti in una calda coperta davanti alla tv? Eh, no! Perché «c’è un’altra strada, io la conosco ed è più eccitante». Ricordate che seguendo le avvertenze non può succedervi mai niente. O quasi mai.

L’adrenalina è una scossa che percorre i corpi addormentati di noi trogloditi costretti a vivere in gabbie di cemento, a dormire in soffici giacigli, a lavorare seduti dietro un blocco di legno squadrato, a coprirci con tessuti intrecciati e a muoverci cavalcando cavalli di ferro che sputano vapore da un tubo posteriore. E quando l’adrenalina scorre noi trogloditi ci sentiamo diversi, le pupille si dilatano, la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa aumentano, respiriamo a pieni polmoni e i nostri muscoli funzionano a meraviglia. Questa reazione è giustificata in natura dalla formula fight or flight secondo la quale, se dovessimo trovarci di fronte a un leone, il nostro corpo dovrebbe darci le risorse necessarie per combatterlo o per fuggire, ma sapendo che sarebbe meglio fuggire e pure molto velocemente, perché reattivi sì ma fessi no.

Insomma, quando lo stress la richiama, l’adrenalina ci fa sentire vivi. E questo non è un motivo da poco per farci scegliere di andare da soli nei canyon. Aggiungiamo la bellezza di luoghi incantati che ci riportano al cospetto del Creatore di tutte le cose e il gioco è fatto. Non è vero che l’uomo trascorre tutta la vita a proteggersi, perché forze di natura opposte tra loro lo spingono ogni giorno a sfidare la vita e, al contempo, a cercare di conservarla.

Ecco perché Aron Ralston fugge dalla città. O forse no. Perché 127 ore, l’ultimo film del regista Danny Boyle, lo lascia soltanto intuire. Ma a noi piace vedere anche quello che il film nasconde dietro quel fascio di luce misterioso, che proietta immagini di fantasia su uno schermo bianco.

Eppure di fantasia qui non ce n’è, perché questa di Aron Ralston è una storia realmente accaduta e per niente bella. Quel giorno, mentre scendeva in un anfratto, un masso si mosse – chissà da dove – e si andò a incastrare tra la parete di roccia e il suo braccio destro, bloccandolo irrimediabilmente per cinque giorni. «Guarda quanto è grande questo. Come cazzo ha fatto ad arrivare qui?».

Con i viveri e l’acqua razionati, l’assenza di telefoni e i pochi attrezzi a disposizione, Aron dovrà dare il meglio di sé per districarsi da quest’odiosa situazione. E non è detto che ci riuscirà. Aiuti? Neanche a parlarne: Aron non ama comunicare mai il luogo nel quale si sta recando, altrimenti che avventura è?

Ma c’è un istinto per il quale ogni animale ferito non si arrende mai. Così come si accetta il rischio della morte, si rifiuta l’idea di perdere la vita. Perché la vita non è un film, staccato il biglietto puoi vedere lo spettacolo per intero, ma non ti puoi allontanare dalla sala per tornare l’indomani e riprendere da dove l’avevi lasciato.

Quanto dura questo film? Troppo per non compromettere le nostre capacità di resistenza negli spazi angusti. Troppo poco per alimentare le nostre speranze che qualcuno si accorga di Aron. Solo 127 ore, compresse in novanta minuti, finite le quali il nostro eroe dovrà decidere quanto varranno le sue ragioni per non morire. Lo aiuteranno forse i ricordi di coloro che ama e che lo amano, anche se finora Aron non ha sentito la mancanza di nessuno: «sto entrando nel canyon, solo io la musica e la notte. Io sono una specie di grande eroe cazzuto e riesco a fare quasi tutto completamente da solo».

Quasi tutto.

Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani

 

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