Riassunto delle puntate precedenti
Beatrice è caduta dentro a uno specchio, dritto dal bagno delle Orche Assassine all’anno 1969. Deve ancora compiere tredici anni, e suo padre ha esagerato con le botte. All’ospedale conosce una poliziotta, Costanza, che le dà il suo biglietto da visita e le regala “Madame Bovary”. Tornata a casa rivede il suo gatto e in mezzo al circo dei parenti pettegoli e curiosi, prende atto di avere le gambe coperte di peli e di non avere più il suo Silkepil.
Quando finalmente i parenti si tolgono dalle palle e riesco a tornare al piano di sopra, mi metto alla ricerca frenetica di una pinzetta per le sopracciglia. Le le mie depilazioni di emergenza le facevo così, in base al detto Con pazienza e vaselina, l’elefante si inculò la formichina. Visto che nel 1969 posso uscire di casa solo per andare a scuola, di tempo ne rimane. È dal piano di sotto che non me ne concedono; agh, dolore, mi chiamano per mangiare. La cucina di mia mamma è una dieta sicura, da lei si è sempre mangiato talmente male che è impossibile diventare grassi. Anzi, mi guardo con occhio critico e mi rendo conto che qui di lavoro da fare ce n’è parecchio. Peserò sì e no quaranta chili, non ho l’ombra di un muscolo, le gambe e le braccia sono così scarne che sembro uscita da un campo di concentramento… E i denti, madonna che schifo. Oltre al male che mi fanno – sono pieni di carie – sembrano le lapidi del cimitero ebraico di Praga, piantati a casaccio dove c’era posto. Colpa mia, che non volevo mai andare dal dentista e rifiutavo l’apparecchio ai denti.
In quel secolo portare l’apparecchio era la garanzia più assoluta di non essere guardata mai, e poi mai, da un ragazzo. Gli occhiali e l’apparecchio ai denti, nel 1969, venivano considerati dal genere maschile qualcosa di così schifoso e repellente da non degnare di uno sguardo la portatrice, nemmeno avesse avuto un corpo da modella. E non era di certo il mio caso, anzi: la natura mi aveva dotato di un fisico da lanciatore di stuzzicadenti, secco come una sardina e completamente privo di tette e culo. Bene, qui siamo capitati e qui vogliamo rimediare. Davanti alla pasta scotta e insipida che mia madre serve in tavola, chiedo di andare dal dentista per curare le carie e mettere l’apparecchio. I miei in un momento come questo non mi negherebbero nulla, e magari danno il merito di questa improvvisa conversione alla botta in testa, così, pur consapevole di avere davanti due anni di sofferenze dentarie, mi faccio forza perché ne vedrò i frutti.
Mi piacerebbe continuare a riflettere in pace sul duro lavoro che devo fare su questo fisico maltrattato da tredici anni di assenza di sport e cure, ma a tavola non è permesso. Il babbo parla, parla e straparla. Oggi è ancora lì che rumina sull’incidente, si scusa, si dispiace tanto, ma vuole sapere che cosa facevamo sulle scale. Forse mi sfugge qualcosa, può darsi che nel 1969 gli adolescenti fossero particolarmente viziosi e si dedicassero al sesso orale sui gradini dei condomini, ma non lo credo proprio possibile. Sono sicura che nessuna di noi, ai tempi, conoscesse il significato di sesso orale. Se voleva dire parlarne, eravamo tutte delle specialiste, ma non si andava al di là della teoria, anzi, delle teorie più fantasiose. Nel 1969 avevo appena imparato che nei maschietti le palle stavano sotto al pisello, e non sopra, come nei disegnini che si facevano sul banco. In seconda superiore ero ancora convinta che il sospensorio fosse un sacchettino in cui gli uomini riponevano i testicoli prima di fare ginnastica, e con un’amica mi chiedevo come facevano a non scambiarseli, finito l’allenamento. Poi ci si era accesa la lampadina… Ci scrivevano il nome sopra! Questo era il nostro livello di cultura. L’unica educazione sessuale impartita da mia madre era stata una frase lapidaria il giorno in cui mi sono venute le prime mestruazioni. Mi ha messo un pannolone da anziano incontinente – i Tampax in quell’epoca e in quella zona geografica erano molto di là da venire – e ha calato la scure: “Ricordati che da adesso puoi rimanere incinta”. Sul come, lei non si è mai pronunciata. È stata la mamma di una mia amica che, istruendo la figlia in modo più scientifico, ci ha iniziato ai magici misteri della riproduzione, anche se fino a sedici anni siamo state vittime di quelle leggende metropolitane in cui una ragazza ci rimaneva usando lo stesso asciugamano dei fratelli, oppure sedendosi su una poltrona del cinema dove un tale si era masturbato durante lo spettacolo precedente. Che a qualcuna venisse in mente che era un po’ improbabile farsi una sega su una poltrona del cinema… No, noi non ci arrivavamo. E a ogni ritardo si moriva di paura anche senza aver combinato niente.
Il pranzo familiare finisce in tragedia, come al solito. Io non ce la faccio a ingollare giù quella mappazza di pasta scotta e insipida, anche se sono consapevole di dover mettere su qualche chilo. Riesco a mandare giù solo pane e stracchino, con la nonna che blatera sulla fame in tempo di guerra e il babbo che si sta visibilmente alterando, come di norma in tutti i pranzi e le cene. Quando si alza in piedi per urlare meglio, gli ricordo la poliziotta Costanza, e l’avvertimento che gli hanno dato in questura. Non che i poliziotti dell’epoca disapprovassero l’uso di picchiare le figlie e le mogli, anzi, pure le sorelle, ma gli avevano consigliato di trattenere i bollenti spiriti per un po’ di tempo; la loro collega zitella e fanatica non solo era sul piede di guerra e per qualche mese l’avrebbe tenuto d’occhio, ma era pure amica della prima donna giudice di Forlì, un abominio secondo i questurini, perché una donna “non può giudicare” a causa del suo “complesso anatomo-fisiologico”, come ci aveva tenuto a precisare nell’Assemblea Costituente un tal onorevole Codacci – nome più che appropriato – diventato famoso per aver sancito che le mestruazioni impediscono alle donne di giudicare con razionalità. Suppongo che Berlusconi tenga sulla scrivania un ritratto di Codacci accanto a quello della Boccassini, ma nel 1969 anche il Berlu è di là da venire. Però la stessa riforma che aveva aperto a Costanza l’accesso in Polizia, aveva permesso a un’altra donna di diventare giudice a Forlì, nel tribunale dei minori, e le due erano diventate subito amiche. Naturalmente erano considerate lesbiche dall’intera questura e tribunale annesso, però avevano un potere conferito loro dalla legge, e il poliziotto medio in genere rispetta l’autorità. Così gli stessi questurini avevano consigliato a mio padre di stare calmo per qualche mese, finché Costanza non avesse avuto altri casi di cui occuparsi. Dopo, avrebbe potuto darmele con gli interessi.
Lascio mio padre a tavola, schiumante di rabbia, prendo in braccio Pallino e mi chiudo nella stanza che devo dividere con mia nonna. La mia prima preoccupazione è la scuola, comincia tra un mese e io non ricordo una sola parola né di latino né di francese né delle altre materie. Raccolgo i libri di testo sul tavolino rachitico che mi dovrebbe fare da scrivania e faccio il punto della situazione. So che studiare è la mia strada verso la libertà. Negli anni Sessanta in Italia, e in Romagna in particolare, la condizione della donna era ancora molto arretrata, però eravamo in un periodo di sviluppo economico, il lavoro c’era, e con un titolo di studio anche le donne potevano migliorare la propria condizione e ottenere l’indipendenza dalla famiglia. Anche nella mia vita passata questo mi era stato ben chiaro; il liceo e l’università mi avevano permesso di liberarmi presto dei miei genitori, almeno economicamente, però dovevo stare molto attenta a non ripetere gli stessi errori che mi avevano condotto nel palazzaccio, altrimenti sarebbe stato inutile cadere per quarantaquattro anni giù da uno specchio, in un’epoca in cui non potevo nemmeno comprarmi un Tampax.
Faccio un piano di lavoro e parto dal latino, che mi è sempre piaciuto. Incredibilmente, macino il libro di testo e gli esercizi come una piccola macchina da guerra. Non me ne devo meravigliare, sono caduta in un corpo col cervello ancora nuovo, agile e perfettamente funzionante; ai tempi della scuola avevo una memoria quasi eidetica e mi era sufficiente stare attenta in classe e leggere una volta il libro di testo per essere preparata. Sono immersa nello studio delle declinazioni quando sento suonare il campanello, e mia mamma mi chiama di nuovo. Stavolta è il momento delle mie amiche.
Sono state carine, sono arrivate tutte e due insieme, e mi hanno portato un po’ di fumetti e Ciao 2001. Ci abbracciamo, ci sediamo sul letto, e dopo qualche convenevole si arriva al dunque. Che cosa facevate sulle scale? Anche loro… Mi verrebbe da descrivere un’acrobatica scena di sesso orale, ma non è giusto prenderle in giro, in fondo loro mi vogliono bene e hanno veramente tredici anni, non hanno mai visto un altro secolo, e mi credono quando racconto che si stava parlando dei miei peli sulle gambe; per fortuna hanno sempre concordato con me che mio padre è matto. Una è figlia di un poliziotto e mi racconta che in questura e in tribunale si è parlato del mio caso, perché nonostante la mentalità dell’epoca – ma anche di questo secolo, direi – consideri giusto picchiare le donne, chiacchierare sulle scale del condominio non è stato ritenuto abbastanza grave per mandare la figlia all’ospedale, priva di coscienza per due giorni. E di questo ho la conferma in quello stesso pomeriggio, perché Costanza torna a trovarmi.
È con un’altra ispettrice, austera con la sua gonna sotto al ginocchio e i capelli raccolti, ma anche lei decisa a proteggermi dalle furie di un pazzo pericoloso. E sono arrivate con una proposta assai allettante, anche perché è una di quelle che mio padre non può rifiutare. Nella palestra di via dell’Appennino, dove va anche lui, comincia un corso di autodifesa per le donne della Polizia, e sono venute a dirmi che mi hanno iscritta d’ufficio. Direi che è il regalo più bello che potevo sperare di ricevere. Le abbraccio come un pitone e mi metto a cantare We are the champions, prima di zittirmi perché i Queen la scriveranno solo nel 1977. Ancora prima di rendermi conto di un’altra novità strabiliante – in questo piano spazio-temporale non sono più stonata, anzi, so cantare e ho pure una bella voce – siamo di sotto da mio padre a comunicargli la proposta che non può rifiutare. Come mi aspettavo, diventa verde e mi nega decisamente il permesso, ma Costanza conosce i suoi polli. Lo avverte con una ferma gentilezza che una ragazza della mia età, così gracile e sottopeso, ha bisogno di fare attività fisica, che il corso è completamente gratuito e prima della mezz’ora di difesa personale si fa un’ora di intensa ginnastica a corpo libero. Che è quello a cui mio padre ha cercato di obbligarmi per anni ma senza successo, perché non si fa della fatica se non c’è un minimo di motivazione.
Inutile dire che Costanza la spunta. È solo una volta la settimana, il sabato pomeriggio, mi verrà a prendere lei con la sua collega, e saranno sempre loro ad accompagnarmi a casa. L’ultima disperata obiezione di mio padre – ho paura che si faccia male – viene stoppata dalle due ispettrici con una smorfia di scherno. Sì, abbiamo visto come ci tiene a che sua figlia non si faccia male… Mio padre sbianca e non può più fare a meno di concedere il suo consenso. Afferro Costanza e la faccio volare in un giro di valzer, prima di rendermi conto che nella mia vita passata non sapevo ballare nemmeno quello.
È dura per Beatrice scontrarsi di nuovo con la mentalità dell’epoca, ma ha davanti un periodo molto impegnativo. Con la pazienza dell’elefante, si vedrà…
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