Non lasciarmi, sino alla fine del giorno

L’immagine di una vecchia barca in disarmo sulla battigia trasmette il carico dei ricordi del tempo che fu, in modo rispondente e inverso a quella di tre giovani corpi di uomini e donne che non prenderanno mai il largo nell’avventura della vita.

«Sapete che cosa succede ai bambini quando crescono? No, nessuno lo sa. Qualcuno diventerà un attore e andrà in America. Altri lavoreranno in un supermercato. C’è chi diventerà uno sportivo, un conducente di autobus o un pilota automobilistico. Nessuno può sapere cosa faranno loro. Mentre di voi sappiamo tutto. Voi non andrete in America né lavorerete mai in un supermercato. Ognuno di voi non farà nient’altro che vivere la vita che è stata predisposta per lui. Diventerete adulti, ma solo per poco. Prima della vecchiaia, prima ancora di arrivare alla mezza età, inizierete a donare i vostri organi: siete stati creati per questo. E più o meno in concomitanza alla terza o quarta donazione, le vostre brevi vite saranno completate. È giusto che sappiate chi siete e perché siete qui. Solo così potrete vivere una vita dignitosa».

KathyTommy Ruth (Carey Mulligan, AndrewGarfield e Keira Knightley), con i loro amori intrecciati, non hanno speranze: le hanno riposte fin da piccoli quando vennero indottrinati ad Hailsham, un austero collegio nella campagna inglese degli anni centrali del secolo scorso. Ad Hailsham si allevano i cloni di uomini e donne che dovranno servire la causa della cura delle malattie: corpi di bambini e adolescenti creati apposta per divenire, in età adulta, donatori d’organi per la razza umana sovrana. In quest’ambiente ovattato e protetto le giovani gemme imparano l’arte di vivere senza la vita, di crescere senza il domani, di servire senza il piacere di farlo.

 

 

Non manca loro nulla perché tutto verrà loro tolto. Non servono le spiegazioni perché nessuno le vuole rendere, in quest’universo attuale e alternativo, immaginato dallo scrittore Kazuo Ishiguro, l’umanità ha raggiunto un compromesso morale: è cosa buona e giusta avvalersi della scienza per dare la vita. Raggiunta la capacità di farlo, sarà possibile decidere quando e per quale motivo. Perché un fatto è far vivere per amare qualcuno che ancora non è, un altro fatto è far vivere qualcun altro per farlo diventare qualcosa che sarà.

Ma in quest’ultimo caso, come per ogni altro delirio di onnipotenza dell’uomo, la vita non diventa altro che la brutta copia dell’atto miracoloso della creazione. Svuotato di ogni contenuto d’amore, l’atto riproduttivo della creazione diventa meccanico, seriale, scientifico e razionale. E nella serialità manca la magia, gli uomini rappresentano numeri, le vite una casualità, le morti una necessità, le malattie una fatalità, la miseria una circostanza, il delitto un’aberrazione, la creazione stessa un fatto ripetitivo e banale.

Gli uomini però in quello scenario immaginario, lontano ma pericolosamente possibile, non hanno fatto i conti con l’arte, quel prodotto dell’anima capace di svergognare ogni logica contorta e complessa, piegata all’esigenza d’indottrinare le masse. La capacità, cioè, della mente e del cuore di esprimere e portare alla luce concetti che la ragione non potrebbe altrimenti spiegare: sentimenti, speranze, gioie, paure, illusioni.

Così ad Hailsham si tenta un esperimento: pur nella brutalità delle logiche imperanti, si vuole scoprire se questi giovani siano capaci di esprimere l’arte. La sfida consiste nel provare se corpi clonati – dunque sottoprodotti di fabbrica – possano produrre stati d’animo, emozioni e sentimenti, metterli su carta o rappresentarli in finzione.

I giovani bambini e adolescenti vengono incoraggiati a esprimere la loro creatività e le loro opere e disegni sono affidati alla conservazione in una misteriosa galleria d’arte. Nessuno conosce il senso di questa ricerca. Fino a quando divenuti adulti, Kathy, Tommy e Ruth – già donatori o prossimi a farlo – coltivano l’illusione che le capacità artistiche espresse possano comportare un rinvio dei loro destini, l’allontanamento della fine del giorno: una sorta di premio al riconoscimento della loro effettiva appartenenza all’umanità.

Mark Romanek mette in scena il romanzo Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro – il migliore del 2005 secondo Time – determinando così la seconda riduzione cinematografica delle opere dello scrittore anglo-nipponico, dopo Quel che resta del giorno.


Il film, in un’atmosfera di esasperante lentezza che si contrappone al rapido e precoce dissolvimento delle giovani vite, s’interroga e riflette sui confini che l’etica dovrebbe o potrebbe porre alla ricerca eugenetica, finalizzata al miglioramento della razza umana, che tanto ha interessato anche il regime nazista. La sete di conoscenza associata al desiderio dell’uomo d’inquadrare in categorie ben definite il giusto e l’ingiusto, il sano e il malato, il buono e il cattivo, comporta salti d’adeguamento della morale a strappi, sottomettendola di continuo alla tirannide della maggioranza silenziosa e acquiescente.

 

 

Sarà l’arte la chiave per scardinare l’inevitabile e progressivo, democratico e tirannico tentativo d’indottrinamento della morale o occorrerà di più? Saranno sufficienti la carità, la conoscenza, la scienza o occorrerà di più, magari l’amore? Sì, forse ci manca l’amore.

Senza l’amore potremmo distribuire tutti i nostri beni, nutrire tutti i poveri con cibi geneticamente modificati, potremmo curare i malati con pezzi di ricambio coltivati in laboratorio, donare i nostri corpi alla scienza, progredire in ogni cosa, ma non saremmo quasi nulla: più o meno degli uomini. Tali e quali a quelli che vorrebbero una razza perfetta ad ogni costo.

Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani

 

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