Porta o non-porta, dove mi porta?

Gerry – uno che mente sempre, nega tutto, e l’aria da sfigato – non è una simpatica canaglia, lo descrive assai meglio la raffica di appellativi (“buono a nulla, schifoso, fetente, orribile, ripugnante, bugiardo, ipocrita, piscione, fetente2, segaiolo”) usata da Helen, la sua fidanzata.

Non gli basta infatti la sua attuale fiamma, vede ancora la sua ex con cui si intrattiene piacevolmente dopo un periodo, diciamo così, di riflessione.

James è invece la simpatica canaglia per cui viene quasi spontaneo tifare, ma siccome Helen, come si dice a Roma, è de coccio prima di capirlo dovrà ingoiare amari rospi.

Uno dei modi più sfigati che si possano immaginare per avviare una giornata (il licenziamento, un tentato scippo, una ferita al volto, ecc.) rappresenta l’incipit di questa favola romantica, che per un pelo non finisce in tragedia, lasciando spazio finale ad un sospiro di sollievo e a un potenziale happy end.

Ma per arrivare a questa fine cosa non escogita, fra le sudate carte, uno sceneggiatore al suo esordio come regista del grande schermo!

A dirla tutta, è stato realmente uno spavento a supportare l’ideazione, uno scampato pericolo per  il regista inglese, e si sa che certi traumi ti aprono le porte dell’illuminazione divina.

A lui si sono materializzate davanti le sliding doors della metro, e il modello ha generato innumerevoli cloni (porte dell’ascensore, porte agli ingressi degli edifici) davanti ai quali originare situazioni e snodi della trama.

Ma andiamo con ordine.

La graziosa p.r. londinese Helen arriva in ritardo, per l’ennesima volta, a una riunione di lavoro e stavolta non la fa franca. Licenziata, entra in un ascensore, le casca provvidenzialmente un orecchino che qualcuno raccoglie, indi si dirige risoluta nei sotterranei della metro, dove per via di una bambina che le intralcia il passo sta per perdere il treno che la porterà a casa.

Davanti alle porte della metro appena chiuse Helen ha due alternative, operare una forzatura per garantirsi l’accesso o desistere, e aspettare il treno successivo, che quella mattina però non partirà. Dovrà infatti trovare un mezzo alternativo per rientrare.

Da qui si apre la prospettiva parallela che fornisce due diverse linee al suo futuro, la prima con lei che riesce a salire sul treno, arriva a casa e scopre il suo ragazzo in flagranza di reato, da cui consegue un brusco cambiamento nella vita di Helen; la seconda con lei che perde il treno, subisce per strada un tentativo di scippo, si ferisce, arriva in ritardo a casa restando all’oscuro del tradimento di Gerry, anche se in seguito cade preda di sospetti.

La gran parte della critica e degli stessi spettatori ha premiato l’originalità dell’idea di base, la casualità o il destino di certi accadimenti, la logica del ‘se avessi’ e del senno di poi che invariabilmente accomuna tutti.

A me piace pensare invece a una possibile visione alternativa, legata all’esperienza di ‘quasi’ morte generata dall’incidente finale (una caduta per le scale) subito da Helen dopo l’estrema rivelazione dell’insipienza del suo moroso.

L’unica Helen che esiste in questo caso è in fondo quella ingenua e innamorata dell’inizio, che si accorge troppo tardi del tradimento, delle menzogne, dell’egoismo dell’uomo che le sta accanto, e che solo di fronte all’evidenza dei fatti, rischiata la vita e perso il suo bambino, ha finalmente la forza di mandarlo a quel paese, di ricominciare.

In quel lasso di tempo che la priva di coscienza può immaginare non solo ciò che è stato, ma quello che sarebbe potuto essere se quella metro l’avesse presa, con la scoperta della verità.

 

Dicono che quando si sta per – o si rischia di – morire, si assista come al film della propria vita.

Helen può dunque aver assistito allora, come è stato prima per lo spettatore, al suo film alternativo, in cui frequenta James, se ne innamora, lo perde e lo ritrova. Esperienza plausibile perché in fondo la Helen che sopravvive e quella alternativa (dal look modificato) commettono in entrambi i casi le stesse ingenuità (ciò avvalorerebbe la tesi del rimescolamento dei ricordi) – per es., niente mai precauzioni nel fare sesso?

E il ricordo di quell’esperienza immaginaria resta vivido nella memoria (al risveglio dal trauma), al punto da divenire familiare (consentendole alla fine di avere la battuta pronta sui Monty Python).

Che si tratti di universi paralleli generati da ogni nostra azione o inazione, che ci sia lo zampino del caso o del destino, che si possa parlare di esperienza di premorte e in tal caso di déjà vu, sono questi gli aspetti interessanti di una pellicola semplice e digeribile, per alcuni aspetti godibile e ben confezionata, non priva tuttavia di luoghi comuni e tratti prevedibili.

Bravi gli attori, l’ancora acerba, ma adeguata al ruolo, Gwyneth Paltrow, in una Londra invernale che si intravede per lasciare spazio prevalente alle dinamiche fra umani, complicate o stupide quanto basta per vedercisi riflessi o fare il tifo per i protagonisti.

A questo punto siete anche voi davanti a un bivio: lascio a voi decidere se vedere il film o non vederlo.
Di sicuro, se non lo fate, può accadervi di tutto, ma non aspettatevi l’inquisizione spagnola…

 

PS

A proposito di meccanismi di identificazione personaggio-spettatore.
Tutto potete chiedermi, ma mai e poi mai rimetterei al lobo un orecchino caduto per terra.
Partirebbe un allarme immediato che strilla ‘contaminato, pericolo di morte!’.
Non ci credete? Chiedete a mio marito.
In un’altra vita (magari parallela) mi chiamo infatti Linda Maclean.

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=kYma95KpOl0&feature=related

 

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Sliding Doors, Usa/Gran Bretagna, 1997-98, regia di Peter Howitt

Gamy Moore
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