C’era una volta Quattroruote [10] Sette giorni in Marocco

di Raffaele Laurenzi

Mastrostefano, il mio capo, si avvicinò alla mia scrivania sventolando una busta: “L’ufficio del Turismo del Marocco invita un giornalista di Quattroruote alla Festa del Miele: Marrakech, Agadir, Imouzzer des Ida-Outanane, un’escursione sui monti dell’Atlante… Un bel programma, praticamente una settimana di vacanza. Ci vuoi andare?”
Dissi di sì senza entusiasmo. Non ho mai partecipato volentieri a manifestazioni o prove di nuovi modelli di auto organizzati per la stampa: si viaggia intruppati, si fanno pranzi esagerati, si è prigionieri di un programma che non ti dà scampo. E alla fine devi ricambiare con un articolo benevolo…
Era probabilmente la primavera del 1974. Arrivai a la Gare de Lyon in vagone letto assieme a Mino Vignolo, inviato del Corriere della Sera, col quale feci subito amicizia.
All’aeroporto di Orly, prendemmo l’areo: volo diretto per Marrakech, dove saremmo stati sottoposti al controllo degli agenti marocchini. Frugai nel mio borsone in cerca del passaporto, inutilmente. Controllai di nuovo tutte le tasche nervosamente. Macché, il passaporto non c’era: nel prepararmi a scendere alla Gare de Lyon, l’avevo appoggiato sulla cuccetta e lì era rimasto. E adesso?
Mi salvò Mino Vignolo, che parlava bene il francese. Spiegò all’agente ciò che mi era accaduto, gli mostrò l’invito dell’ufficio del turismo marocchino, gli mostrò il mio tesserino di giornalista, gli disse che, diamine!, rappresentavo Quattroruote. Insomma, seppe perorare la mia causa.
Dopo dieci minuti di suspense, il tempo di fare un paio di telefonate ai superiori, il rigido sistema di sicurezza dei gendarmi marocchini si piegò alla ragion di stato e mi venne rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo: “assolutamente da non perdere”, si raccomandarono. Passai la dogana sotto lo sguardo di biasimo degli agenti, che probabilmente vedevano confermata nel sottoscritto la storica reputazione di negligenza e inaffidabilità che accompagna ovunque noi italiani…
Assieme al buon Vignolo, mi unii alla comitiva dei giornalisti provenienti da Francia e Gran Bretagna. Ci caricarono tutti quanti a bordo delle automobili di servizio e partimmo, scortati e sorvegliati con discrezione dai ragazzoni della sicurezza, tutti belli, tutti in monopetto grigio di buon taglio: autentici gentleman fuori, ma rudi bodyguard dentro. Me ne resi conto quando alcuni giornalisti, me compreso, allungarono alcune monete a un nugolo di ragazzini che avevano circondato le nostre Mercedes per reclamare una mancia. I bodyguard intervennero pesantemente menando su quei bambini colpi di frustino “ndo-cojo-cojo”, un retaggio dell’epoca coloniale che il regime di Hassan II non voleva andasse disperso…

I bambini fuggirono verso le poche case di terra e sassi del villaggio e noi fummo sgridati con urlacci in francese che non avevano bisogno di traduzione.
Davanti a noi si aprì un portale sontuoso, decorato in pietra arabescata. Il corteo delle Mercedes ci s’infilò dentro. Lasciavamo il deserto e come per incanto entravamo in una fiaba delle Mille e una notte. Attraversammo un parco lussureggiante di palme, fiori, stagni e fummo depositati davanti a una villa in stile moresco che, mi disse qualcuno, era proprietà del re.

Ci radunarono nel patio, ci venne offerto il tè, dopodiché ci fecero accucciare attorno a tre grandi tavoli rotondi, dove i camerieri avevano deposto tre “torte” di couscous di almeno un metro di diametro, sufficienti a sfamare l’intero villaggio lasciato pochi chilometri prima. Niente posate, niente piatti: il couscous dovevamo mangiarlo con le mani. Rimasi in pausa, per capire come avrei potuto cavarmela, perché l’idea che tutti affondassero tre dita – pollice indice e medio – nello stesso couscous e se le infilassero in bocca, sinceramente, mi faceva schifo.

I giornalisti britannici, in abiti sahariani, scalavano la montagna di couscous con la disinvoltura dei colonialisti di mestiere, avvezzi per secoli agli usi e costumi delle popolazioni sottomesse. I colleghi francesi mostravano di gradire il pasto cinguettando in continuazione “oui oui très bien, oui oui très bien”.
Vignolo l’avevo perso di vista, non potevo contare sulla sua esperienza di inviato, né sulla sua solidarietà.
Improvvisamente il mio vicino, un giornalista marocchino che aveva notato il mio stato di paresi, affondò le dita nel couscous comunitario, ne estrasse una palla da cui penzolavano frammenti di pollo e tentò di infilarmela in bocca assieme alle sue unghie lunghe unte e sbavate.

Serrai la bocca, mi alzai di scatto e abbandonai la compagnia: pazienza se ciò poteva offendere qualcuno o rivelare la mia provinciale inadeguatezza alla circostanza.
Mi diressi fuori, in giardino, dove intendevo passare il tempo in attesa che il pasto finisse. Macché, un bodyguard marocchino, un costolone di due metri, mi prese per un braccio in modo che non potessi oppormi e mi riaccompagnò al tavolo. Rimasi lì tutto il tempo, cercando di spiegare al mio vicino di non insistere perché non stavo bene di stomaco, cosa che a quel punto era vera. Quando tutti si alzarono, almeno metà del couscous, che ci era stato servito, giaceva abbandonato sui tavoli.

Il nostro soggiorno toccò tutti i principali aspetti geografici e folkloristici del Marocco, dai monti dell’Atlante al deserto, dalle casba alle cariche di cavalli con scariche di fucileria, ma stranamente non assaggiammo neppure un cucchiaino del pregiato miele di cui si festeggiava la raccolta.
Gli ultimi due giorni li passammo al Club Med di Agadir: cenammo sotto le tende, dopodiché fummo lasciati liberi di gestire il nostro tempo come ci pareva.
Fu allora che Mino Vignolo mi parlò di una dritta che gli aveva dato un collega del Corriere. Mesi prima, questi era stato inviato ad Agadir per un servizio sul Fronte del Polisario, in guerra col Marocco per l’indipendenza del Sahara occidentale. Rientrato in via Solferino, aveva raccontato di un night di Agadir dove giovanissime fanciulle dalla pelle ambrata si offrivano ai turisti europei. Naturalmente andammo a verificare.
L’indirizzo era giusto e il locale lo trovammo: un night come tanti, con poche fanciulle e nessuna che si offriva.
Lungo le strade di Agadir ci venivano offerti invece i bambini: dai balconi delle palazzine ricostruite in fretta dopo il terremoto del 1960, uomini anziani mostravano ai turisti di passaggio, con gesti d’invito, il ragazzino che avevano accanto. Caro Mino, gli dissi, il tuo collega ci ha presi per il culo.
La mattina seguente, liberi da impegni, facemmo una passeggiata lungo la spiaggia battuta dalle lunghe onde dell’Oceano. Era immensa, immacolata, si estendeva a perdita d’occhio senza soluzione di continuità col territorio desertico dell’interno. Non c’era anima viva, così almeno credevamo. Dalle dune spuntò un uomo, si avvicinò e ci parlò in francese. “Che vuole?” Domandai a Vignolo, che ormai era il mio interprete ufficiale. E lui: “Ci offre prestazioni sessuali, meglio ignorarlo”. Più avanti, spuntarono altri uomini e ci rendemmo conto che eravamo costantemente osservati da occhi invisibili. Dunque, passeggiata finita e immediato rientro al più rassicurante Club Med.
Era maggio, il sole picchiava forte, andammo a buttarci in piscina e lì, taaac, facemmo amicizia con due ragazze francesi. Una mi piaceva, era di Parigi, si occupava di moda e parlava un po’ d’italiano. Purtroppo sarebbe partita la sera stessa. Mi lasciò l’indirizzo e disse: “Se ti va, fermati a Parigi, ti ospito io”.
Il giorno seguente partimmo anche noi. Ancora una volta il buon Vignolo mi venne in soccorso: all’arrivo a Parigi spiegò al doganiere francese la mia storia: che ero italiano, che avevo perso il passaporto, che dovevo rientrare a Milano. L’agente allargò le braccia: “Andate pure, ma non so come la prenderanno i miei colleghi di Milano: vi ricordo che in Italia c’è allarme terrorismo!”.
Non me ne preoccupai, intanto a Parigi c’ero arrivato ed ero tentato di restarci almeno un altro giorno. In tasca avevo il biglietto aereo per Milano, peccato sciuparlo. Vignolo aveva invece la prenotazione per il treno: il suo Corriere della Sera non gli aveva concesso di più. Gli feci una proposta: prendi il mio biglietto, così fai prima, in treno ci torno io, magari domani: qui ho una pratica da evadere…
Mino comprese e accettò il baratto. Io presi il borsone a tracolla e mi avviai all’indirizzo della ragazza, che era a poche fermate di metró. Lungo la strada, considerai la mia situazione: senza passaporto, senza biglietto aereo, con in mano l’indirizzo di una ragazza di cui sapevo soltanto il nome e che magari si era dimenticata di me: forse stavo facendo l’ennesima cazzata della mia vita, ma mi sentivo libero, in una città frizzante, a cui mi legavano i refrain di tante canzoni e le scene di tanti film cult che avevo visto da ragazzino. Parigi mi eccitava; in quanto al passaporto, “je m’en fiche”, chi se ne frega.
La ragazza francese non si era dimenticata. Abitava in un bilocale arredato con gusto, ma il frigo era vuoto. Mi sentii in dovere di invitarla fuori a cena e lei non se lo fece dire due volte: “Ti porto in un posticino qui vicino, è carino e costa poco” rispose. Per fortuna, perché alla fine del viaggio non potevo permettermi di sprecare i pochi franchi che mi restavano. Dopodiché, in quel piccolo nido, riprendemmo il discorso che a Marrakesh avevamo lasciato in sospeso.
La mattina lei versò il caffè e mi disse: “Resta fino a domani, goditi Parigi, io adesso vado a lavorare, le chiavi sono là, appese alla porta”. Non potevo, non volevo restare: misi il borsone a tracolla e salutai la ragazza con una promessa a cui lei finse di credere. Scesi in fretta le scale e andai dritto alla stazione ferroviaria, deciso a prendere il primo treno per Milano, che sarebbe partito un paio d’ore più tardi.

Sotto le monumentali capriate della Gare de Lyon vedevo arrivare treni locali che spalancavano le porte automatiche e vomitavano fiumane di pendolari: bianchi, neri, asiatici, soprattutto magrebini. “Eccoli i pied-noir” pensai, “ecco il risultato di un secolo di colonialismo. Fortuna che in Italia non abbiamo questo problema…” Che ingenuo.

Mentre passeggiavo, notai un piccolo cartello di ferro smaltato: “Objets trouvés”. Mi affacciai. L’impiegato, un ometto grassottello in divisa, alzò lo sguardo sopra gli occhiali e mi squadrò. Gli allungai il tesserino di giornalista e balbettai: “Bonjour Monsieur, je cherche mon passeport. Italien. Laurenzì”. Quello esaminò il tesserino, poi mi guardò bene in faccia: “Vous êtes un homme chanceux” disse, porgendomi il passaporto che custodiva in un cassetto. E mentre mi allontanavo lo ripetė: “Vous êtes un homme chanceux!”.

 

Gamy Moore
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