C’era una volta Quattroruote [2] Raid a Capo Nord


di Raffaele Laurenzi

1976, Raid a Capo Nord
TUTTO QUELLO CHE ACCADDE
E CHE QUATTRORUOTE NON SCRISSE


Più vai a nord, più il paesaggio diventa monotono. Più ti spingi in capo al mondo, meno vedi il sole, meno comprensibile è la lingua, meno ricca la cucina, meno probabile l’incontro con le vestigia di un’antica civiltà.

Considerate queste premesse, viene da chiedersi che cosa spingesse tanti giovani italiani, negli anni Settanta, a intraprendere un viaggio a Capo Nord, cinquemila chilometri verso il freddo e il nulla. Probabilmente ci andavano – in 500, in Vespa, perfino in bicicletta – per il gusto dell’avventura, la più estrema che si potesse concepire in Europa restando al di qua della Cortina di ferro, sebbene di “estremo” avesse soltanto un punto geografico: 71° 10′ 21″ latitudine nord, 25° 47′ 04″ longitudine est, in altre parole l’isola di Magerøya, Norvegia.

Credo però che a pochi italiani, negli anni Settanta, venisse in mente di andarci con una roulotte attaccata al sedere. Beh, a noi di Quattroruote venne in mente.
Ancora una volta la Fiat aveva chiesto a Quattroruote un servizio importante, da copertina, che dimostrasse la robustezza e la versatilità della Fiat 131. Perché la vettura media della Fiat, sul mercato già da un paio di anni, si trovava a fronteggiare avversarie dotate di molte qualità. Due su tutte: la Ford Taunus e la Opel Ascona. Per rendere più spettacolare il servizio, il mio capo Mastrostefano pensò di raddoppiare la posta: in capo al mondo ci saremmo andati non con una, ma con due 131 e due roulotte.

L’impresa comportò la mobilitazione di cinque persone: i due collaudatori Giulio Pusinanti e Gianni Gatti, il fotografo Franco Papetti, il sottoscritto e Clelia d’Onofrio, la penna più brillante della redazione. Ai collaudatori il compito di guidare le 131, a me quello di guidare l’auto di servizio della rivista, una Range Rover bianca che aveva rimpiazzato, con mio disappunto, una splendida Fiat 2300 Station Wagon con cambio al volante e overdrive, che era un piacere guidare. Clelia viaggiava su una o l’altra delle 131, il fotografo con me sulla Range, pronto a individuare una situazione fotogenica e ad appostarsi in attesa del passaggio delle 131. In mancanza dei telefoni cellulari (era il 1976…) ci tenevamo collegati con le ricetrasmittenti CB.
Il viaggio prese subito una piega goliardica. Dato che la maggior parte delle foto le avremmo scattate a nord, dove città e paesaggi sono più caratterizzati, non avevamo altro da fare che guidare, scherzare e giocare con le ricetrasmittenti. Cominciammo col commentare il percorso. Franco osservò che forse, passando per Chiasso, invece che per il Brennero, il servizio avrebbe fatto più “rumore”… Osservò che il paesaggio sarebbe stato più gradevole e si poteva scattare qualche foto, giusto per documentare il nostro passaggio e rimarcare il contrasto tra i borghi pittoreschi affacciati sul lago di Como e il freddo grigiore dei fiordi dell’estremo Nord. Le località citate da Franco cominciarono a solleticare la mia fantasia perversa e a quel punto mi abbandonai a una serie di allusioni, doppi sensi e calembour che diffondevo allegramente nell’etere per divertire i colleghi e, lo ammetto, scandalizzare donna Clelia.

Fu così che l’esclamazione più ricorrente divenne Canzo!, sottinteso in provincia di Como. Io che venivo dall’Umbria e dalla Toscana stavo scoprendo le suggestioni dei nomi celtici del profondo Nord, non ancora leghista. Proponevo quindi programmi alternativi passando da Cazzago, e perfino una puntata a Chiavari, sebbene fosse decisamente fuori rotta… Ma era soprattutto la toponomastica del lago di Como e dintorni a ispirare commenti e battute, che trasmettevo via radio ai colleghi. Insistevo sul legame sensuale tra Lecco e le bellezze che avremmo incontrato in Svezia, commentavo la noia di Menaggio, la forte attrazione di un Bellano, la vita comoda di Bellagio, la solitudine dei pastori del Resegone a confronto con i piaceri di Chiavenna e con il fumo di Erba.

Superata Brescia, “evirammo a manca” e “facemmo rutto” verso nord. All’altezza di Riva del Garda vidi la roulotte di Giulio sfiorare il guard rail ed esclamai: “Torbole!” La forza del gioco mi spinse oltreconfine, perché mi sembrò logico che dopo Chiavenna saremmo arrivati a Stoccolma. Mi improvvisai geologo e discettai sulla tettonica della regione nordica, mi rammaricai di non poter visitare le isole Lofoten. Finalmente ci fermammo a mangiare un boccone. Fine del gioco.

Tra le foto pubblicate, ce n’è una che ci ritrae tutti e cinque all’interno di una roulotte: Gatti davanti ai fornelli, d’Onofrio e Pusinanti a tavola impegnati ad addentare un panino, io seduto sulla dinette mentre verso qualcosa in un bicchiere… Si tratta naturalmente di una messinscena fotografica: in realtà non cucinammo mai nelle roulotte, non ci pranzammo, non ci dormimmo. Non eravamo attrezzati per farlo e soprattutto non potevamo farlo perché non ne avevamo il tempo. Dovevamo per forza mangiare dove capitava e cercare ogni sera un albergo dove dormire. Per cinque! Dovevamo poi fare spesso benzina. Le 131 viaggiavano sempre a tavoletta, l’8V Buik della Range Rover beveva come una spugna, 20 litri ogni 100 km. Ne andavano di soldi e non esisteva la moneta elettronica, o meglio esisteva forse da qualche parte, ma non dove andavamo noi. Perciò si doveva pagare cash. Partimmo imbottiti di marchi tedeschi, così tanti che la polizia, se ci avesse controllato, ci avrebbe presi per banditi in fuga dopo una rapina. Anche perché correvano davvero come dei fuggitivi. Basti dire che io con la Range (8 cilindri, 3,5 litri di cilindrata) facevo fatica, dopo essermi fermato per consentire a Papetti di inquadrare le 131 in corsa nel mirino della sua Hasselblad, a raggiungerle e a superarle per poi appostarci e sparare altre foto. Giulio e Gatti erano sempre al chiodo. Nonostante quegli scatoloni attaccati al sedere, sui lunghi rettilinei nordici le 131 1600 tenevano i 110 all’ora in quarta (in quinta il motore non riusciva a prendere giri). Quando i piloti uscivano in sorpasso, con le roulotte che sobbalzavano di qua e di là, c’erano automobilisti vichinghi che, investiti dallo spostamento d’aria, si spaventavano, lampeggiavano, agitavano la mano fuori del finestrino come per dire “Non siamo in Italia, non si può correre così, siete ubriachi?”

In effetti avevamo bevuto, ma se la polizia ci avesse fermano, avremmo sicuramente superato l’alcoltest. Varcate le Alpi, infatti, avevamo scoperto la birra analcolica. Non era granché, ma pazienza: io e Franco ne scolavamo una lattina dopo l’altra e lanciavamo i vuoti alle nostre spalle, cercando di fare canestro nel vano bagagli della Range.

E Capo Nord? Un sasso nel mare grigio, neppure un kiosk per quelle brodaglie che i nordici chiamano caffè. Però c’eravamo arrivati. In cinque giorni. L’articolo uscì sul numero di luglio 1976. Quello che non raccontammo allora lo scrivo adesso, cinquant’anni dopo.

 

 

 

In copertina: il numero di luglio 1976 di Quattroruote

 

Gamy Moore
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