Che importa un nome


di Enzo Buscemi

Roma Anni 70. Interno, tarda sera.

Stanno cenando in un ristorante alla moda in via di Ripetta. Nei pressi di Piazza del popolo.

Bella coppia. Lei, Cristina, giovanissima. Elegante, lunghi capelli neri, occhi grandi, bocca carnosa.

Sicuramente bella. Timida, almeno in apparenza.

Lui, Fabrizio, molto più maturo. Trentenne, o poco più giovane. Biondo, snello, occhi azzurri, elegante. Niente male, anche lui. Espressione, senza dubbio, di innegabile ironia.

Giornalista, autore (segreto) della tesina, sul ‘Feldmaresciallo Radetzky’ che la diciottenne discuterà, fra qualche giorno, all’esame di maturità.

Sono sicuramente di casa, in quel locale. Li serve, esclusivamente, il proprietario. Lui lo chiama, cordialmente, per nome, Paolo.

La sala, come ogni sera, registra il tutto esaurito.

Si riconoscono volti noti, del cinema, del giornalismo, della moda. Alcuni famosi. Ma, nessuno esibisce alterigia. Dai rapporti con il personale, si intuisce che la maggior parte è clientela abituale.

La nostra coppia è al dessert. Lei gusta una fetta di torta al cioccolato, lui, a quanto pare, una crema brûlé.

Dall’altra parte della piccola sala, al tavolo di fronte, siede una ragazza. Un filo di perle ne nobilita il collo sottile, e completa una mise nera. Lei è bionda, molto bella.

Zigomi alti, occhi verdi, chiaramente aggressivi. Grinta arrogante, da diva.

È già la terza volta che alza il bicchiere e offre un evidente brindisi al giovane, in compagnia della ragazzina che, le volta le spalle ed è, teneramente, ignara della sua bieca manovra.

Lui fa finta di niente. Sorride appena. Continua a conversare con la sua giovanissima compagna. Solo all’ennesimo brindisi della diva, muove, con eleganza, la mano destra, come fosse contesto del discorso, poi la fa appena ruotare. Mossa, a doppio effetto, per lanciare il suo subdolo assenso: “A dopo”.

“Paolo, il conto, per favore”.

Saldo, e reciproci saluti. Paolo accompagna la coppia all’uscita. La signora bionda, da esperta, aveva intuito. Al volo.

Anche lei salda il conto. Si alza, e rivela un fisico con ogni particolare calibrato al punto giusto.

Alta, inguainata in un tailleur sartoriale, borsa ultragriffata, tacco sottile, non esagerato, belle gambe.

Con andatura da tigre salgariana, guadagna l’uscita dietro la nostra coppia. Paolo, accompagna il saluto con un inchino, poi chiude la porta.

Il giornalista fa, galantemente, accomodare la bruna liceale, sulla sua Dino. Uno spider, molto esclusivo in quegli anni. È blu Francia.

La capote impedisce a Cristina di osservare il comportamento del suo uomo. E lui, passando dietro la vettura, sfoggia uno dei suoi migliori sorrisi alla diva, in complice attesa, accanto alla sua Alfa coupé. Combinazione, parcheggiata appena dietro la Dino.

“Seguimi” mima in un sussurro. Lei risponde, con un cenno di compiaciuta approvazione, e sale in macchina.

Le due vetture si avviano lentamente.

Da Piazza del Popolo, sul Lungotevere, uscita su via Flaminia, poi a destra verso Piazza Euclide.

La meta è nei pressi del celebre bar. Vi si gustano i migliori tramezzini del mondo, e non solo.

La Dino si ferma davanti a un portone lucente.

Bacio. “Lungo e lascivo”, lo avrebbe definito Henry Miller in Tropico del cancro, commiato alla bruna liceale che si ritira.

Pochi metri più indietro, a luci spente, c’è l’Alfa Romeo. Si rimette in moto, dietro la Dino che fa il giro della piazza e imbocca il viadotto di Corso Francia.

Fabrizio potrebbe scatenarla, come usa di solito, ma preferisce frenarne il generoso ruggito.

Non deve seminare l’Alfa. Il prologo è stato intrigante.

Sarebbe stupido perdersi il seguito.

Le due vetture escono da corso Francia. Imboccano la salita di via Cassia. Un paio di minuti e, la Dino svolta a sinistra in un viale.

C’è una targa di marmo all’ingresso: ‘Via privata Fonte dell’Amore’. L’anticipo è calzante.

La discesa tra due file di alberi.

“Stasera, per fortuna c’è posto. Anche per la sconosciuta” pensò Fabrizio scendendo dallo spider.

Si avvicinò all’Alfa e ne aprì lo sportello.

“Ciao”, prese la mano della diva e l’aiutò a scendere.

“Ciao. Abiti qui. Sembra un parco?”

“Qui davanti c’è una valle, una sorta di bosco. Anni fa, pare ci fosse un piccolo ippodromo. Un’oasi verdissima dentro Roma. L’ho scelto anche per il silenzio e la discrezione. Impagabili. Faccio strada”.

Fabrizio aprì la grande porta di cristallo: “Attenta, qualche mese fa, una anziana inquilina, madre di un attore della più famosa coppia degli ‘spaghetti western’, ci sbatté così violentemente da romperla. I frammenti la ferirono gravemente al volto. Ma ebbe fortuna. Stavo rincasando. La portai all’ospedale, qui vicino. Le misero parecchi punti. Poi la riaccompagnai a casa. Mi fu riconoscente. Ero stato felice d’averla aiutata. Suo figlio non mi ringraziò. Mai. Capita”.

Presero l’ascensore. Fabrizio aprì la porta di casa.

“Prego. Spero tu non sia allergica. Ho un gatto che adoro. Si chiama Fuffi. Eccolo!”

Fuffi, bianchissimo con la coda nera, venne a salutare Fabrizio, che lo prese in braccio e lo baciò. Poi precedette l’ospite nel salone dominato da una grande libreria che sovrastava anche la porta d’accesso.

Completavano l’arredamento, un lungo divano, due particolarissime poltrone di design, due abat-jour su altrettanti tavoli, anch’essi molto esclusivi, e due grandi casse acustiche. Un tavolo in fondo, a seguire la grande vetrata, stretto, variamente popolato da una macchina per scrivere e altro.

La sconosciuta si guardò intorno:

“Ottimo gusto. Hai scelto tutto da solo?”

“Quasi. Poltrone tavoli e lampade sono praticamente esemplari unici. Li ha disegnati C………… il famoso scenografo, è amico di certi miei zii. La libreria, invece, è, opera mia. Bevi qualcosa? Scegli pure”.

E le indicò un bell’assortimento di liquori che affollavano un vano della libreria.

“Vedo del Chivas, di 12 anni! Ottimo. Con un cubetto di ghiaccio. Ma piccolissimo, per non turbarne il gusto”.

“Vado a prendere il ghiaccio”.

Fabrizio, con Fuffi che lo seguiva a coda ritta, si diresse in cucina. Armeggiò, per estrarre il ghiaccio dalle formette, ne mise una manciata nell’apposita tazza di cristallo incastonata in una custodia d’argento, aggiunse le pinze d’ordinanza, e tornò in salone.

L’ospite, aveva spento uno dei due abat-jour, ed era allungata sul divano.

Fabrizio anche se, naturalmente, smaliziato subì, comunque, un attimo di sorpresa.

La sconosciuta aveva davvero un bel corpo. Nessun dubbio. Il tailleur e, quant’altro di lingerie, ci fosse sotto, erano ammucchiati su una poltrona. Aveva mantenuto soltanto le autoreggenti.

“Ho già versato il Chivas. Manca solo il cubetto che ti ho chiesto. Ci pensi tu?”

Fabrizio riguadagnò la consueta ironia. Lasciò cadere il ghiaccio nel bicchiere che la ‘diva desnuda’ gli porgeva.

“Metto un po’ di musica. Hai preferenze?”

“Vedo una montagna di dischi. Mi auguro che ci sia qualcosa delle grandi orchestre americane”.

“Certo e, addirittura, qualcosa di pronto. Ti va Bert Kaempfert? È tedesco, ma compone e dirige da americano purosangue. Vado sul sicuro, con una sequenza già pronta. Il primo brano, che sinceramente adoro, ti calza a meraviglia, Red roses for a blue lady”.

Accese l’amplificatore, lo regolò, e avviò il registratore professionale. Le grandi bobine si misero in moto, la sezione degli archi di Kaempfert invase, dolcemente, il salone.

Fabrizio non fece in tempo a girarsi. Qualcuno. Ma chi, se non l’ospite? Ovvio, erano solo in due! Gli strappò via la giacca.

La donna, gli piombò addosso. Lo cinse con un braccio dietro la schiena, con una forza insospettabile. Con l’altra mano gli prese il capo e lo attirò a sé. Un’altra morsa di ferro. Con i denti gli afferrò le labbra. Fabrizio tentò di divincolarsi. Peggio ancora. Lei gli si strinse ancora di più.

La mano dietro la nuca sembrava volesse staccargli il capo. Tentò, appena, di liberare la bocca, ma l’esaltata aumentò la stretta dei denti. Fabrizio, sentì sapore di sangue, tentò di urlare per il dolore. Gli riuscì solo un mugugno, semistrozzato.

Lei continuava a bloccargli la bocca mordendolo, senza pietà. Lui declinò il tentativo di staccarsi. Ci avrebbe rimesso le labbra.

Fuffi, terrorizzato, era saltato su una delle grandi casse acustiche. Irriconoscibile. Sembrava trasformato in lince.

II pelo enormemente gonfio come la coda, ingrossata di molte misure, lo facevano sembrare almeno tre volte più grande di quanto lo fosse in realtà. Emetteva versi impressionanti. Non più miagolii ma, sorta di ruggiti, terribilmente rauchi.

Fabrizio pensò che, forse, proprio il suo dolce micetto, trasformato in belva, potesse aiutarlo a risolvere quella inquietante situazione.

Riuscì a girarsi verso il gatto, trascinando con sé la donna. L’avrebbe messa al cospetto e, a poca distanza, da quel leone domestico. Sperava che quella vista, l’avrebbe impaurita.

Il dolore aumentava ma, mentre effettuava il movimento, disperato, riuscì a mettere le mani intorno al collo dell’invasata.

Mossa rischiosa. Pur senza volerlo, avrebbe potuto farle molto male. Non era certo un assassino. Ma doveva salvarsi.

Riuscì nella presa e, sebbene impaurito, cominciò a stringere. Mille pensieri lo terrorizzavano. “E se la uccido?”

Il dubbio fu di breve durata, perché la donna, evidentemente intimorita dal leone, di conio casalingo, e dalla stretta al collo, diminuì la morsa dei denti assassini.

Fabrizio aveva la bocca piena di sangue, quel sapore lo disgustava. Incautamente, allentò la presa sul collo della donna.

Lei non gli lasciò il tempo di respirare. Le sue unghie affilate gli squarciarono la camicia e si infissero nella pelle del torace. Le sentì ferirlo con dei solchi infuocati.

A quel punto, non ebbe più scrupoli.

Un manrovescio carico della rabbia e del dolore, arrivò con fragore sul viso della selvaggia che finì lunga sul divano.

“Prendi la tua roba e vattene o ti ammazzo” esagerò Fabrizio, e puntò alla ricerca di qualcosa per tamponare le labbra e il petto che grondavano sangue.

“Non voglio trovarti qui, quanto tornerò. E sarà fra pochissimo. Sei completamente pazza. E attenta non farti rivedere in quel ristorante, perché io continuerò a frequentarlo. Va via, fuori dai coglioni”.

In bagno si tolse quel che restava della bella camicia. Una Pierre Cardin su misura. Gliele forniva, segretamente, un laboratorio romano che, aveva scoperto, le confezionava per l’atelier parigino.

Si ripulì, alla meno peggio, con un asciugamano zuppo d’acqua fredda. Disinfettò le ferite con dell’acqua ossigenata e, ne prese, anche, per sciacquarsi la bocca.

Con delle compresse di garza (resti del corredo di pronto soccorso di qualche sua ex automobile) e del leucoplasto coprì, alla meglio, i profondi graffi sul torace.

“Ma guarda ‘sta zoccola. Colpa mia. Per fare il galletto mi tuffo in queste assurde situazioni. Non imparerò mai. Che cazzo”.

Si medicava. Rifletteva e si rimproverava. Con una carezza, ogni tanto, a Fuffi, tornato normale e in certo senso suo salvatore, che gli stava attaccato.

Sentì lo scatto della porta blindata dell’ingresso. Tornò in salone. La matta era andata via.

Incredibile! Su uno dei tavoli, gli aveva lasciato un biglietto da visita. Fabrizio, temendo di ricadere nell’errore, lo lacerò senza tentare di leggerlo.

“Ma come si chiamava?” si chiese “Non l’ho chiesto. Ma non le ho nemmeno detto il mio nome. Meglio così. E che importanza può avere?”

Sarebbe stato d’accordo anche Shakespeare. Ci tenne a farcelo sapere, anche se tramite Giulietta:

“Che importa un nome, se quella che chiamiamo rosa, serberebbe lo stesso profumo e il colore dei suoi petali, anche se la chiamassimo con un altro nome”.

Non fa una grinza.

Quella, comunque cavolo si chiamasse, resta una pazza.

Oppure………?

 

 

(Immagini tratte dalla rete)

 

 

 

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