Contrabbando (parte I)


di Enzo Buscemi


“Chi si offre?”

E il capo redattore fece seguire, alla domanda, un, lento, giro panoramico del suo freddo, gelido, sguardo.

Aveva appena lanciato la proposta di un servizio, sul protagonismo dell’automobile nell’esportazione di valuta e nel contrabbando di sigarette.

Attività molto praticate in quel periodo, i primi Anni 60, con clamorosi echi in cronaca. Nessuna testata, però, gli aveva, ancora, dedicato un’approfondita inchiesta. Forse per timore degli inevitabili rischi, nella conduzione dell’indagine.

La platea, alquanto spoglia, cinque persone in tutto, non reagì.

Rapidi scambi di occhiate interrogatorie. Ma nessuno si candidò.

L’incosciente voglia di fare, pilotò il mio braccio destro che si erse, reggendo il palmo della mano, aperto, ad accentuare il gesto.

“Ma guarda, il nostro giovane impavido ci umilia”, ironizzò il caporedattore e poi, rivolto a me: “È sicuro?”

A due mesi dal mio ingresso nella redazione del famoso settimanale automobilistico, ero l’unico a cui desse del ‘Lei’. Un modo, secondo lui, per relegarmi a sorta di ospite, non proprio gradito. Ma, avevo imparato a sopportarne l’inspiegabile alterigia.

 

L’antipatico

Solo di una decina d’anni più anziano di me, forse non aveva gradito che per ammettermi nel ‘santuario’ che rivendicava, come dominio personale, il Direttore non avesse chiesto il suo parere.

Indubbiamente era bravo. Ma mi trattava con fastidioso sussiego, e impregnava qualsiasi dialogo, di piccante sarcasmo.

Dopo qualche settimana mi ero imposto di non far più caso al comportamento dello spocchioso. E, seppure violentandomi, gli dimostravo un sorridente, (costosissimo) rispetto.

“Sicurissimo. Una decina di giorni per immedesimarmi nel ruolo, che ho già in mente, e sarò pronto a cominciare”. Risposi con un sorriso sincero.

“D’accordo, dovrò prima sentire il Direttore e l’amministrazione. Dovranno stipulare una polizza per i suoi eredi”, ironizzò con la solita espressione di superiorità da deus ex machina.

“Mi faccia sapere”, replicai, salendo al suo stesso livello, “nel frattempo mi darò da fare con i preparativi, e mi lascerò allungare la barba, per costruire meglio il personaggio”.

Pregustai l’effetto, e ripassai la motivazione della sceneggiata.

 

Cominciò così

Alba degli Anni Sessanta. Novembre. Premetto, che dal profondo sud ero approdato a Milano, da pochi mesi, con la voglia pazza di fare il giornalista.

Le corrispondenze, dalla Sicilia, per le due uniche (e concorrenti) riviste che si occupavano del nascente Kartismo, avevano saldamente confermato la mia vocazione.

E, appena concluso l’impegno universitario, con poche lire (guadagnate presentando serate in varie discoteche, più quelle elargite dai miei genitori), un’elegante valigia di cuoio e in una cuccetta di prima classe (risultata dalla conversione del, costosissimo, biglietto per il vagone letto, offertomi da Papà) partii alla volta del favoloso nord.

Un avvocato, conosciuto durante la precedente estate, mentre era in vacanza dalle mie parti, e contattato in precedenza, mi aiutò a trovare una camera in una pensione. La lasciai dopo qualche giorno, per un’altra molto più accogliente.

Vi si accedeva da corso Lodi. E sfoggiava un’invidiabile finestra, con vista sul piazzale di Porta romana. Quella della canzone di Gaber con: “le ragazzine che te la danno”.

 

Il miracolo

Con grande faccia tosta, cominciai a bussare alle porte dei giornali. Regolarmente, mi liquidavano già in portineria.

Poi il miracolo. Ad uno dei due quotidiani milanesi del pomeriggio. Al portiere, chiesi di parlare con la segreteria di redazione. Me la passò, e osai il massimo.

“Sono E… B……, vorrei parlare con il Direttore”.

La risposta, sognata, fu finalmente cordiale.

“Spero sia possibile”.

Confesso che trattenni il respiro. Passarono secondi, minuti, forse. Mi sembrarono ore.

“Venga pure. Si faccia indicare dal portiere”.

Uscii dall’ascensore, mi attendeva una ragazza, elegante e gentile.

“Il Direttore l’aspetta”. 

Ero quasi in trance. Non tentai il pizzico sul braccio per assicurarmi che fosse reale. Ma ero frastornato.

“S’accomodi” e il Direttore, N….. N…….., mi tese la mano. Mi presentai, sforzandomi di eliminare possibili echi di pesanti cadenze sudiste.

“Che cosa voleva dirmi?” esordì, mentre, praticamente, stavo fotografandolo per assicurarmi che quel signore con capelli brizzolati, tagliati a spazzola, cortissimi, fosse davvero il ‘mitico’ che, con il suo quotidiano, aveva inventato un nuovo modo di fare giornalismo. E, messo in crisi lo strapotere dell’omologo, pomeridiano, del Corrierone.

“Sto cercando lavoro”. E condensai un curriculum, ricco solo di speranza.

“Mio caro”, esordì il Direttore e si alzò venendomi vicino. Mi alzai anch’io.

“Per il nostro mestiere è un brutto periodo. Se per strada vedrà qualcuno che cammina, a testa bassa, è un giornalista che cerca lavoro”.

Le gambe sembrava mi si piegassero.

La magnifica ‘illusione’, era durata pochissimo.

“In cultura generale e con l’italiano, come se la cava?” mi chiese il Direttore, guardandomi fisso negli occhi.

“Credo abbastanza bene. Ho fatto giurisprudenza. Le riviste con le quali collaboro da più di due anni, e qualche quotidiano locale, hanno pubblicato decine di miei articoli senza alcuna, importante, modifica. Per il resto, sin da piccolo, amo leggere molto, e imparo velocemente”.

“Venga con me”. E mi precedette nel corridoio. Fino alla segreteria di redazione. Come appresi dalla targhetta sulla porta.

Attraversammo una sala con diverse scrivanie, tutte occupate da ragazze, fino a un gabbiotto, con le pareti di cristallo, in fondo.

Il Direttore bussò e, senza attendere risposta, spinse la porta ed entrammo.

“Il nostro segretario di redazione “dott…”, me lo presentò, e gli chiese: “Abbiamo trovato il correttore di bozze che ci mancava?”

“No Direttore, sto ancora cercandolo”.

E lui “Bene. Forse potrebbe essere questo giovane collega che cerca lavoro. Mettilo alla prova”. E rivolto a me “Mio caro per il momento ho questo da offrirle. È un lavoro di grande responsabilità. Non mi deluda. Le spiegherà tutto il capo dei correttori quando lo vedrà. Auguri”.

Suggellò il regalo con una vigorosa stretta di mano.

 

Il fascino del piombo

Si cominciava in piena notte. La stanza dei correttori, arredata da un lungo tavolo popolato da una fila di abat-jour, con il paralume di opeline verde e da uno scaffale, affollato da vocabolari e da altre simili pubblicazioni, che copriva tutta la parete di fondo, era separata dalla tipografia da una vetrata.

Fortissimo l’odore (che avrei imparato a conoscere) degli inchiostri, e del piombo che si fondeva in caratteri, nella lunga batteria delle ticchettanti linotypes.

Il capo dei correttori (seppi in seguito che era assistente in una facoltà letteraria alla Statale) molto gentile, lasciava indovinare una cultura mostruosa. Mi rivelò i più importanti segreti del mestiere e, per fortuna, i relativi simboli per identificare le correzioni, ed evitare errori irreparabili.

In pochi giorni, imparai ad essere più riflessivo di quanto avessi mai immaginato.

E andò benissimo. Mi abituai agli orari impossibili, concedendomi solo poche ore di sonno poiché, nel frattempo, ero riuscito a trovare un altro lavoro.

 

Rosso Tiziano’

Con un mio vecchio amico. Ex bancario appena disoccupato, per ovvi motivi e, dietro mio richiamo, fresco di sbarco al nord, fummo ingaggiati da un’agenzia (eravamo piuttosto belli) e sfilammo da indossatori, per una nota casa di confezioni.

Pagavano bene e, in più, dopo ogni ‘passerella’, ci regalavano uno o due, degli abiti che avevamo esibito.

Proprio in quel periodo, insieme al mio amico vissi un aneddoto piuttosto divertente.

I nostri nuovi colleghi, modelli di professione, vivevano in un mondo sicuramente diverso. Al contrario di me e di Enzo (dimenticavo, eravamo omonimi), erano attentissimi all’alimentazione, a letto presto, sauna, palestra, sesso ridotto all’essenziale e, ovviamente né fumo né alcolici.

Frequentavano, ossessivamente, i laboratori di estetica e, in più, usavano tingersi i capelli. Sia bruni che biondi, sceglievano varie gradazioni e ogni sorta di artifici.

Soprattutto i bruni. La tintura, prendeva vita alla luce violenta dei riflettori dei teatri di posa, e sfoggiava riflessi inquietanti. Una tonalità di rosso, che i coiffeur avevano battezzato ‘Tiziano’ e che invece, in foto, da camaleonte, appariva nero.

Ai biondi come me (in quel periodo, specie al mare sembravo Jean Harlow), veniva somministrata una diversa strana miscela che, al momento della massima illuminazione, a quanto dicevano, dava dei riflessi particolari capaci di migliorare l’immagine.

Il trucco (molto efficace, soprattutto nelle riprese in bianco e nero, di impiego quasi universale in quegli anni), era richiesto dall’élite dell’obiettivo, che ci immortalava in studio, e durante le sfilate.

Fu così che noi, i due Enzi, un castano e un biondo, finimmo sulle poltrone del famoso ‘figaro’ di via Marini. La via a sinistra accanto alla Scala, se ricordo bene.


Shampoo, taglio in punta di forbici, continue carezze sempre giustificate “per saggiare la lunghezza dei capelli” ma sospette, e quindi nuovo bagno con una soluzione che sapeva d’ammoniaca e precedeva un leggero stiraggio dei capelli, lasciati più lunghi, sul collo. Concludeva il trattamento l’asciugatura, sotto un rumorosissimo casco. Come due ragazze.

Finalmente, operazione conclusa. Sosta con quasi deliquio (per la tariffa) dalla bellissima cassiera, e uscimmo su Piazza della Scala.

Ci osservammo, attentamente, alla luce del pomeriggio di un sereno novembre meneghino. Ci rassicurammo, a vicenda.

Taglio ottimo, tariffa da infarto, ma tinta degli amati capelli, salvata. Ancora originale e mascolina. La temuta alchimia non aveva avuto effetto.

“E che minchia” commentò Enzo, “temevo ci avesse tinto di rosso”. Fui ovviamente d’accordo, e proposi: “E se programmassimo una bella serata, con le due fanciulle conosciute l’altro ieri alla Rinascente?”

“E certo. Andiamo a chiederglielo. Siamo a due passi. La Rinascente è in Piazza Duomo”. Approvò l’altro Enzo.

 

Rosso ‘vergogna’ 

Rina e Annamaria accettarono con entusiasmo. Lavoravano all’isola dei profumi. Le aspettammo all’uscita.

Passammo da Zucca per un aperitivo, e poi al Biffi. Quello più abbordabile. Solo in seguito, diventato roba da ricchi.

Sedemmo a un tavolo rotondo. Incassato nel sedile che lo circondava, a mezzaluna, e rischiarato da un grande lampadario, simil saloon da western, al centro.

La scelta dell’accoppiamento. Io con Annamaria ed Enzo con Rina, era avvenuta mentre le aspettavamo all’uscita della Rinascente.

Sin dalla nostra antica conoscenza, avevamo deciso di interpretare personaggi diversi.

Fisicamente, ci sia concesso, a quel tempo belli tutti e due. Enzo era lo spregiudicato della coppia, che io equilibravo, atteggiandomi ad angelo timido.

Il duo, così concepito, funzionava a meraviglia.

Le ragazze non lesinarono i complimenti sul nostro aspetto. Li meritavano anche loro. E ricambiammo con entusiasmo.

Avevamo ordinato piatti tradizionali. Noi due i meno costosi, e saltammo i primi.

“Mi passi il sale per favore”, chiesi ad Enzo che mi stava di fronte. Il tavolo era piuttosto grande e, per accontentarmi, dovette, necessariamente allungarsi arrivando con il capo sotto la grande cupola paralume.

Non riuscii a frenarmi: “Sticazzi”, esclamai utilizzando l’ironica espressione romanesca, multifunzione, “Stai bruciando!”

“Chi brucia?”

Mi seguirono, in coro, le ragazze, ovviamente sorprese.

“Ma è incredibile, sei rosso”, replicò Enzo.

Rabbrividii. Per prendere la bottiglietta del sale, anch’io mi ero spinto sotto la lampada. E la visione, scandalosa, dell’avvampare delle nostre chiome, violentate, era diventata reciproca.

Restammo in silenzio. Poi il ‘mestiere’ ci venne in soccorso. Quasi all’unisono.

“Dai Enzo non mangiartela con gli occhi. Rina non sta certo scappando” esclamai fissando il mio amico in modo, inequivocabile, d’intesa.

“È incredibile”, condì la gag Enzo “stavo dicendo la stessa cosa a te”.

E una reciproca occhiata suggellò la scandalosa complicità.

La serata si concluse felicemente a casa di Annamaria.

Solo rientrando (abitavamo insieme), potemmo sfogare la disperazione. Con i capelli ‘rosso Tiziano’ chi cazzo ha il coraggio di andarci in giro.

Lo sconforto era massimo. L’indomani tentammo di cancellare l’onta, con lavaggi a ripetizione. Inutilmente. Subentrò una disperata rassegnazione. E, sperammo, solo, nella ricrescita.

   

E ‘vai’

La mia ricerca, presso i giornali, continuava.

Ero a Milano da quasi un anno. Oltre all’attività di ‘modello’, il notturno, da correttore di bozze, continuava a regalarmi ottime esperienze.

Rimandavo, però, il tentativo alla raffinata casa editrice di diverse testate ma, soprattutto, dei due più diffusi periodici di automobilismo. Un mensile di tecnica e di critica commerciale e un settimanale sportivo.

Erano la meta sognata in partenza. Mi frenava, la quasi certa delusione di un secco rifiuto.

Quella mattina, forse più coraggioso del solito, tentai.

Il tram mi portò alle spalle di piazza Duomo che attraversai a passo di carica. Che meraviglioso indirizzo. Lo sognavo da anni: Via Monte di Pietà. Alle spalle della Scala.

Sensazionale, mi ricevettero. La segretaria mi guidò dal caporedattore del settimanale. Lo spocchioso di cui dicevo prima.

Poco elegantemente, rimase seduto.

Nella stessa stanza, a una piccola scrivania, accanto alla porta, riconobbi il Condirettore. Già abbastanza famoso. Era stato direttore sportivo della Ferrari dei tempi d’oro.

Mi salutò con un sorriso contagioso. Lui più che ‘Con’, era Direttore esecutivo del settimanale. Il Direttore che figurava nel tamburino, era invece un grande tecnico e braccio destro dell’editore. Ma non solo. Aveva inventato, e curava, la complessa struttura per i test sperimentali del grande mensile automobilistico, e del relativo settimanale, in oggetto.

Il Condirettore, romano verace, grande esperienza tecnica, mi ispirò un’istintiva simpatia.

Parlammo a lungo. Mi resi conto che, con diplomazia, stava facendomi un esame di cultura. Non solo automobilistica. A un certo punto, mi assegnò un tema e mi congedò con una vigorosa stretta di mano.

                                          

La trappola

Già ,“L’automobile ideale”. Banale, esageratamente banale. Non all’altezza di quel personaggio.

Ci pensai per tutto il giorno, poi decisi di rischiare.

Un ingenuo avrebbe sicuramente descritto l’automobile ideale, come sorta di vettura da sogno. Linea avveniristica, tecnica e accessori improbabili, replica delle precedenti invenzioni di certi libri di fantascienza. Banale.

E invece? Cominciai a ‘battere’ su una portatile Anni 40, la Balilla. Era stata di mio padre, aveva viaggiato con me sino a Milano, poi a Roma e, dopo più di 60 anni, sta ancora nel mio studio.

Scrissi che, secondo me: “qualsiasi automobile, potrebbe diventare ideale per chi la possieda, se affrancata dai difetti originali, ed esaltandone le caratteristiche migliori”.

Avevo scelto le tre vetture, da innalzare al rango di ideali.

Le più diffuse di allora, i primi Anni 60, le Fiat, Nuova 500 e 1100/103, e la Lancia Flavia. La popolare, quella per il ceto medio e la raffinata.

Presi un tram, e andai a consegnare il pezzo. Il Vicedirettore era a Roma. Lasciai la busta alla centralinista.

Tre giorni dopo, una telefonata alla pensione:

“Il Direttore la vedrebbe oggi alle 16, può venire?”

E come no?

L’ingresso di quel palazzo lo sognavo ogni notte. Accanto a una via senza uscita, parcheggio dell’ACI.

Dal portone si entrava in un piccolo giardino e, in fondo, in cima a una sola rampa di scale, fui nell’ingresso, al tavolo della centralinista.

Tentai di riportare a frequenze meno inquietanti, pulsazioni e respiro, e mi giocai la migliore delle mie espressioni di tranquilla quotidianità.

“Mi ha convocato il Direttore. Sono in orario?” sorrisi.

“Sì certo, le ho telefonato io. L’annuncio”. Rispose la centralinista, receptionist, ora promossa a segretaria. Schiacciò un pulsante, sulla tastiera incastrata nel tavolo.

“C’è il dottor B… Sì certo Direttore”, e a me: “S’accomodi. L’ultima porta a sinistra”.

“Grazie Signora, conosco la strada”, e mi avviai.

La stanza, dalle pareti completamente spoglie, mi sembrò più accogliente.

In fondo, a sinistra, vicino alla  finestra, inchiodato al suo desco, il caporedattore.

Sullo stesso lato alla solita modesta scrivania, non certo calibrata al suo grado, sedeva il Condirettore. 

In fondo a destra, sull’altro lato della stanza, il grafico. Appollaiato su uno sgabello, davanti a un tecnigrafo. Personaggio molto particolare, lo avrei scoperto in seguito, senza dubbio bravo e simpatico, completava la francescana economia. Come in un periodico parrocchiale di provincia.

Ero, invece, nella ‘stanza dei bottoni’ del più importante settimanale sportivo automobilistico d’Italia.

“Come va?” mi accolse il Condirettore, “Mi è piaciuto, molto, il tuo pezzo. Hai scansato il trappolone. D’altro canto non ti smentisci, sei siculo”.

La premessa, con il ‘Tu’, era già presaga di ottime notizie.

“E allora vogliamo passare alle cose serie?” continuò, con il sottile fondo della sua, quasi paterna, ironia che avevo apprezzato dal primo incontro.

“Hai intuito. E, ne capisci d’automobili. Cominciamo subito a lavorare. E attento a non deludermi.

Domattina, entro le 10 sarai alla stazione di Chivasso. Ci troverai Franco … uno dei migliori fotografi del settore. Andrete a Ivrea. A quanto pare, è la città più motorizzata d’Italia. Accertati che sia vero, e non farti ‘ammollare’ notizie false”.

Rimasi più o meno paralizzato. Bocca secca da marcia nel deserto, un diffuso, irrefrenabile tremore, e assoluta mancanza di comunicazione. Sparai la prima cosa che riuscii a formulare, e certo, la più stupida.

“Dov’è Chivasso” sussurrai.

“Che lavoro vuoi fare?” mi smontò il Condirettore.

Mi vergognai dell’ingenuità. Ero appena arrivato dal profondo sud, e Chivasso non poteva essermi nota come Stoccolma. Ma ero ugualmente imperdonabile.

“Mi scusi Direttore. La sua proposta mi ha colto di sorpresa. Non sa quanto sia felice. Però, confesso, di Chivasso non ho mai sentito parlare. Per questa volta mi perdoni”.

“Ma dai”, e sorrise con gusto, “è normale. Dovrai imparare ad essere meno sincero. O qui ti faranno a pezzi”.

Prima di andar via, passa da Adriano, il segretario di redazione. Ti farai conoscere, prenderai l’anticipo e le istruzioni per la trasferta. Ci vedremo martedì prossimo. Torno a Roma per qualche giorno. Buon lavoro”.

Adriano, fu molto gentile. Dal cognome appresi che era anche uno degli autori delle foto del giornale.

La presentazione fu cordiale. Era presente anche un altro signore. Sulla quarantina, con una vistosa cicatrice sul capo. Gli partiva dalla fronte per annegarsi sul cranio, tra i capelli neri e foltissimi. Simpatico, piuttosto rude. Mi si rivolse in una lingua sconosciuta che, più tardi, avrei scoperto quale, strettissimo, dialetto della provincia meneghina.

Si chiamava Egidio, ed era il factotum della redazione. Mentre parlavo con Adriano, passò nella stanza attigua. Tornò, in compagnia di una ragazza bionda con gli occhiali, e una sigaretta che (in seguito) avrei scoperto come sua protesi fumante.

“Questa è Lele, la nostra segretaria”, esordì Egidio, finalmente in italiano “Sa tutto ciò che può servirle. Ha in memoria i telefoni dei personaggi dell’automobilismo internazionale, e degli alberghi intorno alle piste di tutt’Europa. S’incazza facilmente. Ma ancora più facilmente, torna a sorridere. Guai, però, a farle mancare le sigarette. Spara”, e poi, rivolto a Lele “Guarda che bel fiou, che occi!” mi pare dicesse nel suo idioma, incomprensibile, ma che interpretai a mio favore. Stretta di mano anche a Lele, e ringraziamenti ad Adriano. Con l’anticipo, mi fornì l’orario dei treni per Chivasso.

Guadagnai l’uscita, riservandomi l’urlo di felicità. Lo lanciai, appena arrivato sul marciapiedi di via Monte di Pietà.

 

Il debutto

Era stato l’inizio ufficiale, della mia vita da giornalista. Una scultura nella memoria, mai romanzata. Certi particolari, forse, si appannano, e non ho più alcuno che chiarisca i miei dubbi.

Ho provato a rintracciare certi personaggi che vissero accanto a me in quegli anni. Molti prematuramente scomparsi, altri inutilmente cercati, anche nelle miriadi di maglie della rete.

Peccato, ma per fortuna, la maggior parte degli avvenimenti che sto rievocando è meravigliosamente visibile nei gangli della mia, ‘ancora’ encomiabile, memoria.

Il debutto da Ivrea, con le splendide foto di Franco, fu strepitoso. Mentre scrivo (non più sulla ‘Balilla’, né su alcuna delle mie amate Olivetti, le due ‘Lettera 32’, compagne giramondo o l’austera, nobilissima “82” carrello doppio, tutte in mostra permanente in libreria), posso guardare l’ingiallita nobiltà della copertina che il settimanale riservò al mio primo servizio. E ricordare, ancora con emozione, gli spot che l’Editore commissionò a Radio RAI, allora, unica emittente del Paese.

Fu l’inizio della prima entusiasmante avventura che, proprio in quel periodo, mi avrebbe coinvolto in una vicenda diversamente inquietante.

 

Si inizia

A una decina di giorni dalla riunione corale della redazione, mi telefonò il Condirettore.

“Se non hai cambiato idea, è tutto pronto per l’avventura. Ci sarà un contatto permanente con la Guardia di Finanza. È già marciante una polizza ‘milionaria’. Attento a non farlo sapere ai tuoi eredi o ti ammazzeranno subito” sorrise e “ avvertiremo Carabinieri e Polizia della tua ‘ zona d’operazione’, appena ce la farai conoscere. Decidi tutto tu, passa dall’amministrazione a ritirare dei soldi e una particolare macchina fotografica che è stata appena acquistata. Su segnalazione dell’editore, grande appassionato di fotografia. A quanto pare stai diventando importante! Ma telefona prima di arrivare in redazione. Ci sarà un tecnico a spiegartene il funzionamento. Preparo il tappeto rosso. Ciao”.

Nei giorni successivi, mi recai regolarmente al giornale che mi inviò a Monza per seguire certe prove in pista.

Il caporedattore mi aveva assegnato i due servizi importanti. Come fossero regali di compleanno. Incassai con il solito sorriso di compiacenza.

Santi, un collaboratore (ingaggiato dal capo, suo amico) delegato a ‘passare’ i pezzi, non fece altre modifiche che segnare i capoversi e qualche virgola. Ne fui quasi orgoglioso.

Quel collega, poco più anziano, scorbutico e taciturno, era però, bravissimo e pignolo.

Una volta, stava letteralmente riscrivendo, un editoriale del gran capo.

Ero esterrefatto.         

“È del ‘Massimo’. E tu lo rifai?”

“Certo. E che minchia. Lo firma il ‘Numero uno’. Non può fare brutta figura”, rispose Santi col suo, naturalmente ironico, accento catanese. E continuò a nobilitare la sacra scrittura.

     

L’intrigo

Dopo un paio di settimane la barba, per la prima volta, da quando era apparsa sulle mie guance da ragazzino, aveva superato la lunghezza di guardia. Come i capelli che, a quei tempi, bontà loro, mi crescevano, ancora. E molto in fretta.

Una mattina pensai che fosse il momento di trovare la divisa, per quell’avventura che già mi affascinava.

A un mercatino, nei pressi di piazzale Corvetto, acquistai tutto il guardaroba. Di gusto ben diverso dal mio. Due paia di pantaloni di velluto a coste larghe, uno verde e l’altro marrone scuro, delle t-shirt di cotone con draghi, e altre con scritte e immagini ancora più volgari, due maglioni neri, uno col collo alto, l’altro di lana ancora più spessa ma, completamente abbottonato. E ancora, tre camicie, una celeste (unica concessione al mio gradimento), le altre scure. Una pesante cintura di cuoio con una testa di diavolo per fibbia (arrossii scegliendola), un giubbetto di pelle, nero, con fodera felpata, una sciarpa a disegno scozzese, degli anfibi militari, due paia di guanti, e un giaccone usato, dell’esercito tedesco, con una miriade di tasche.

Per concludere, un berretto di lana blu che, all’occorrenza, diventava passamontagna. Quest’ultimo accessorio, ero certo mi avrebbe messo in crisi. Non ho mai sopportato alcun copricapo. Tranne che il casco, per la moto.

Scelsi i pantaloni verdi, la camicia azzurra, il maglione con la lunga sfilza di bottoni e la giacca militare. E cominciai la vestizione con un sincero disgusto.

Prima di tutto, con l’apposita fascia, e dei rinforzi di nastro adesivo, fissai sul torace la Robot. La diabolica macchina fotografica. In quegli anni il non plus ultra, nei sogni degli investigatori. Ne feci correre, lungo il braccio sinistro, la lunga, sottile guaina che conteneva il cavo di comando dell’otturatore.

Dissimulata nella manica della camicia, finiva con un pulsante facilmente azionabile con l’indice o il medio.

Una leggera pressione e, una molla precaricata, faceva partire il motorino della Robot per scattare, silenziosamente e a volontà, tutti o alcuni dei 36 fotogrammi della pellicola ultrasensibile. Di regola l’Ilford HP4. Poi il pulsante tornava a nascondersi nel polsino.

Pregustai l’effetto della nuova uniforme, spazzolai capelli e barba, e fui pronto ad affrontare il giudizio dello specchio.

 

Un coatto

L’immagine era di un tale, sicuramente volgare. Età indefinibile, presumibilmente sui 30 anni. Gli abiti, che avevo scelto di un paio di taglie superiori alla mia, operavano una perfetta metamorfosi umiliando il mio aspetto originale, appena sublimato dalle sfilate da indossatore.

Ero molto soddisfatto.

Il Direttore che, non incontravo da un po’, quando gli fui davanti fece una faccia strana. Sorpreso, senza dubbio, e non si schermì: “Ottimo”, esclamò sorridendo “Sei un coatto, perfetto. Un bullo di borgata. Cominci bene. Da adesso in poi, sta attento alla pelle”.

Il caporedattore conosceva già barba e capelli allungati, ma non certo l’abbigliamento. Suo malgrado, non riuscì a dissimulare lo stupore.

“Grazie Direttore. Ma debbo mostrarle ancora qualcosa”.

Slacciai solo un bottone del golf e, dalla camicia fece capolino un piccolo obiettivo. Con il medio della mano sinistra spinsi il pulsantino, celato nella manica, e feci partire il motorino della Robot.

Qualche giorno prima, il tecnico, convocato dal giornale, mi aveva ‘educato’ al suo funzionamento, e feci la dimostrazione con grande perizia.

L’effetto fu quello che avevo previsto.

Col direttore passammo a discutere del programma per scoprire il più possibile, soprattutto del massiccio trasferimento di valuta, oltre che del contrabbando di sigarette.

Mi avevano fissato un appuntamento con un ufficiale della Guardia di Finanza e con dei suoi collaboratori. Mi avrebbero istruito sul come prendere contatto e comportarmi con i contrabbandieri. E, non ultimo, come chiedere aiuto in caso di necessità.

 

La morosa

L’incontro con la ‘Legge’ avvenne due giorni dopo. Ma non in una caserma come mi sarei aspettato. Mi incontrarono in un appartamento nei pressi di una piazza del Centro.

Un sito talmente elegante da risultare, ovviamente, non da servizi militari. Mi fornirono due numeri telefonici da memorizzare. Uno della Finanza e l’altro dei Carabinieri.

Avrei dovuto chiamare, con più frequenza possibile, ed esclusivamente da telefoni a gettone, per rassicurarli.

Un discorsetto breve ogni volta. Mi avrebbero risposto due voci femminili. Una della mia ‘morosa’. L’altra di una non meglio identificata signora anziana. Se qualcuno dei contrabbandieri si fosse incuriosito, l’avrei spacciata per l’unica mia parente a Milano.

In caso d’emergenza la procedura era diversa. Soltanto una frase particolare e la località della chiamata.

Mi assegnarono un’automobile. Una Mini Cooper di pessimo aspetto ma di ottime prestazioni.

È intestata a un “mio parente di Palermo” – È morto da un pezzo – avrei dovuto ironizzare con i nuovi pericolosi amici – non so come potrei intestarmela. Ma mi fa comodo così. E le multe non arrivano – avrei concluso ‘furbissimo’.

 

Non so fare nulla

La ricerca di un’occupazione ‘senza libretto di lavoro’, nella zona fissata per l’operazione, e suggerita dagli investigatori, mi portò a frequentare una piccola località, sulle sponde del fiume Tresa. Al confine con la Svizzera. Avevo trovato ospitalità, nelle vicinanze, in una pensione molto economica, e iniziato un giro di sondaggi.

Dovevo propormi per un lavoro. Dispiaciuto per non ‘sapere far nulla e, perciò, disposto ad accettare qualsiasi offerta’.

Mi presentai al padrone di una locanda, ricavata in un piccolo casale isolato. Mi era stata segnalata dai finanzieri. Funzionò. Mi offerse qualche ora per fare le pulizie mattutine dell’ingresso, della sala da pranzo e del bar. Accettai con entusiasmo. La banda dei contrabbandieri, già segnalata, alloggiava lì.

Passarono diversi giorni prima che riuscissi a farmi notare da qualcuno della gang. Ci riuscii giostrando con gli orari delle pulizie.

I contrabbandieri, operavano sino a notte fonda, e scendevano a far colazione solo in tarda mattinata. Toccava a me riordinare quella sala e, chiaramente, la lasciavo per ultima.

Mi dimostrai servizievole, e loro mi utilizzarono per piccole commissioni. Acquistavo i dentifrici, delle compresse d’aspirina e di antiacido, un quotidiano e dei settimanali.

Testate principi, le più note di fotoromanzi, più altre due particolari. Una si occupava solo di cronaca nera. Tra le firme c’era quella di un giornalista che, anni dopo, sarebbe diventato famoso da regista di film al limite dell’horror. L’altro, un settimanale, più diffuso, era zeppo solo di foto e articoli hard.

Il massimo concesso all’italietta di quegli anni.

(continua)

                                        

Gamy Moore
Follow me
Latest posts by Gamy Moore (see all)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *