Contrabbando (parte II)


di Enzo Buscemi


La banda dei cinque

I contrabbandieri erano in cinque. Carlo, Massimo, Giulio, Gigino e Carmine. Tre lombardi, un napoletano e un calabrese, Carmine, il più litigioso e incline a concedersi all’alcol, sin dal pomeriggio.

Una commissione dopo l’altra, e riuscii a farmi ‘assumere’. Mi accettarono anche alla loro tavola e, nelle attese dell’ora operativa, anche da spettatore, a noiosissime partite a carte.

Giocavano soprattutto a tresette, a briscola e a scopa. Mai a poker. Io, che da sempre, e ancora oggi, ostile a qualsiasi tipo di gioco, ero costretto a subirle. C’era, però, un aspetto positivo. Osservandoli, scoprivo i caratteri dei protagonisti.

Per non ‘svenire’ mi costringevo alle loro stesse letture. Di quei giornali che gli acquistavo ogni mattina e loro, regolarmente, collezionavano su uno scaffale. Nella saletta ormai riservata a loro uso esclusivo.

Le serate erano sempre uguali. Giocavano e bevevano fin oltre le 2 del mattino quando, a turno, qualcuno usciva per un giro misterioso. Per circa tre quarti d’ora. In seguito ne avrei scoperto il motivo.

Nient’altro che una paziente osservazione della riva svizzera del Tresa. Era atteso un segnale luminoso, non certo un colto alfabeto Morse. Solo un bagliore che si accendeva prima in rosso e poi in verde, un semaforo con solo due colori.

Era il segnale che dava il via allo scambio.

Poiché proprio di quello, si trattava.

 

Funziona così

Lo scoprii dopo una ventina di giorni dall’accoglienza nel gruppo. Quando, dopo l’ennesimo, severo indottrinamento, mi ammisero all’uscita operativa. La rivelazione, l’aveva iniziato Carlo, uno dei lombardi e, senza dubbio, il capo ciurma.

Con un lungo giro di rozze metafore, mi aveva rivelato quale fosse la misteriosa attività. Gli altri quattro, partecipavano all’insegnamento, ma in maniera molto subdola. Lanciavano domande, o ipocrite proposte di ingenuo sondaggio, per scoprire eventuali falle nel mio comportamento.

Fui molto bravo. Sudando freddo, mi guadagnai la loro fiducia, e fui accolto nel sodalizio.

La gratifica fu immediata: pensione completa in quella locanda, e l’assegnazione del mio compito.

Semplicissimo. Avrei dovuto solo tirare una cordina, il terminale di un’installazione subacquea. Un cavo d’acciaio, ad anello, sul quale scorrevano dei grossi ganci con chiusura a scatto. Collegato all’altra sponda del fiume, prima dell’uso, giaceva sul fondo.

In assoluto silenzio, e al buio mi toccava tirare in secco dei colli. Arrivavano in sequenza. Sacchi di tela cerata, che grazie a due anelli fissati alle estremità, e bloccati sui grossi ganci dell’anello, scorrevano facilmente sul cavo. Come su una specie di alzabandiera. Mi toccava sganciare i sacchi e passarli agli autisti delle diverse vetture, in ansiosa attesa con i miei capi.

Insieme, si davano un gran daffare a sostituirne il contenuto. Ne estraevano decine di stecche di sigarette. Le sostituivano con misteriosi involucri, squadrati, protetti da sacchetti di plastica nera.

I colli, riconfezionati, tornavano a me. Dovevo riagganciarli alla corda e dopo, il segnale, un leggero strattone al cordino, venivano ritirati dai complici, in attesa sulla sponda svizzera.

Destinazione diversa per le sigarette. Stipate sulle automobili che avevano appena portato quei pacchi non meglio identificati, partivano per la distribuzione al dettaglio. Il mio compito doveva filare con precisione, e ogni notte, guadagnavo 15mila lire. Niente male.

Di giorno, durante le uscite per le commissioni, telefonavo ai militari riferendogli ogni particolare. Non usavo mai lo stesso telefono. Giravo per i bar e parlavo sempre ad alta voce recitando il rito del colloquio con qualcuna delle due donne ‘schermo’. Chissà, qualcuno degli avventori, dei vari locali, forse apparteneva alla banda? Meglio prevedere.

 

La fiducia

Il mio battesimo del fuoco, era avvenuto pochi giorni prima del Natale. Finalmente ero uno di loro. Profittando della fiducia potevo osservare, con tranquillità, le automobili che portavano quegli strani pacchetti che il nostro gruppo inviava in Svizzera. Erano reperti di massimo interesse, me ne resi conto. Milioni di lire, in banconote di grosso taglio.

Importanti industriali, finanzieri e insospettabili commercianti, li affidavano ai contrabbandieri per accumularli nel tradizionale rifugio delle compiacenti, quanto discrete banche elvetiche. Sorta di festival dell’evasione fiscale.

 

I nascondigli

I fagotti milionari, arrivavano dissimulati in anfratti creati nei posti meno intuibili delle vetture. I serbatoi del carburante, per esempio, erano ridimensionati.

Un quarto scarso per la benzina il resto – accessibile da uno sportello – accoglieva diversi di quei pacchetti. Altri nascondigli erano ricavati dietro il cruscotto, sotto il pavimento o all’interno di finte marmitte, dell’impianto di scarico, sdoppiato ad arte. Altra zona prediletta, il vano bagagli. Normalissimo in apparenza, ma con un capace doppio fondo.

Trucco ancora più sofisticato, soprattutto per il trasporto di gioielli, l’interno del pneumatico della ruota di scorta. All’arrivo da noi, la gomma veniva sventrata e il contenuto già confezionato in appositi contenitori, trasferito nei capaci sacchi cerati.

Le mie scoperte diventavano sempre più eccitanti.

La notte, con i miei ‘onorevoli’ colleghi, uno per volta, andavamo a prelevare i pacchetti dalle automobili.

 

Luce fra i denti

Nel massimo silenzio, e al buio. Tranne per gli attimi del prelievo dai vani segreti, che illuminavamo tenendo una piccola torcia a batteria tra i denti. Quel poco di luce, però, era spesso provvidenziale per le mie foto rubate.

Decisiva la sensibilità della pellicola che, in sede di sviluppo, andava ancora specificamente ‘tirata’, per massimizzarne le doti di ripresa.

Quando possibile, aspettavo che il mio predecessore si allontanasse coi suoi pacchetti e, appena svuotato il vano segreto, facevo sbucare l’obiettivo della Robot tra un bottone e l’altro del mio golf. Mantenevo accesa la lampada per una manciata di secondi e facevo partire il motorino della macchina.

Mi ero perfettamente impratichito, tanto da calcolare il numero dei fotogrammi da scattare e far bastare un rullo, per riprendere i trucchi di almeno due automobili. Avevo sperimentato la durata esatta di ogni secondo, declinando, in silenzio ovviamente, “milleuno, milledue, milletre, millequattro, millecinque”.

Per ogni secondo, scattavo quattro o cinque fotogrammi. Ne lasciavo alcuni per immortalare, se possibile, la targa della vettura. A fine operazione, mi facevo i complimenti.

Da solo: ‘Bravissimo!’

 

Il rapporto

Consegnavo le pellicole, durante le mie uscite mattutine, per le commissioni dei contrabbandieri. Uno o due finanzieri, diventavano ‘volontari’ in alcune stazioni di rifornimento.

La scena era normalissima e scontata. Il complice si avvicinava per pulire il parabrezza della mia Mini. E io, insieme alla mancia, gli passavo il rullino. Con lo stesso sistema passando da un’altra stazione di servizio mi rifornivano di pellicole.

Il compenso del nuovo lavoro, sinceramente, mi era molto gradito. Dopo una ventina di nottate lavorative, il gruzzolo era già considerevole e mi aiutava a sopportare gli svantaggi.

 

La sofferenza

Per quanto i miei datori di lavoro cercassero di coinvolgermi, ero riuscito a resistere alle proposte di partecipazione alle infinite partite a carte.

Ne sopportavo stoicamente le interminabili durate, allietato ogni tanto dalle battute di Gigino, il contrabbandiere napoletano, dotato di grande ironia.

Per fini squisitamente statistici e per impiegare il tempo, calcolavo le vincite e le perdite di ognuno. Alla fine, in testa c’era sempre Carmine. Benché mantenessero basse le poste, in due settimane il giro di briscole gli aveva fruttato più di 800.000 lire.

Il calabrese vinceva, attirandosi cori di bestemmie dai suoi amici, indispettiti. Lui rideva e beveva ancora.

A prova del gradimento, con ignorante orgoglio, esibiva disgustose, sonorosissime eruttazioni. E non solo.

 

L’amante “esclusiva”

I discorsi dei giocatori si susseguivano nell’ordine di sempre. In prima pagina gli apprezzamenti su Lucia, la puttana della camera 18, che tutti frequentavano abitualmente.

Con cipiglio da conquistatore, ognuno dei contendenti, tranne Carlo, rivelava la sceneggiatura dei rapporti. Ed esaltava come propria, invidiabile, esclusiva, certe particolari prestazioni ottenute dalla donna.

Da chiacchiere con gli altri dipendenti della locanda, la verità era piuttosto controversa.

Lucia, da esperta professionista, era attenta a sfruttare l’ingenuo narcisismo dei soci e, lusingandoli, li ripuliva pesantemente.

Altre discussioni divagavano sulle ultime rapine avvenute nel milanese, ad opera di delinquenti sconosciuti, ma non troppo. I contrabbandieri, li annoveravano, orgogliosi, tra i loro amici più fedeli.

In coda ai discorsi, tentavano un consuntivo delle loro operazioni. Ma, gli accenni ai rispettivi guadagni erano sempre molto accorti e fumosi. Nessuno si fidava di nessuno. E tutti, erano segretamente convinti di guadagnare di più dei compagni. Così, l’ipocrita segretezza dominava su tutti.

 

Una sera, però

Il diavolo birichino, per una volta, ci mise la coda.

Il ciclo delle partite era andato piuttosto per le lunghe. Per via delle interruzioni. Le solite incruente risse tra bari, e i ritardi nei consueti giri d’osservazione sull’argine.

Sembrava che quella notte, lo scambio Italia-Svizzera non ci sarebbe stato.

I preziosi pacchetti di banconote, già arrivati, giacevano nell’angolo della saletta da gioco, alle spalle di Carlo. Il boss, ogni tanto allungava all’indietro la gamba destra. Con il piede, sfiorava il prezioso accumulo e, rassicurato, sorrideva.

Carmine, anche quella sera, aveva vinto. Non gli erano mancate le solite accuse di aver eseguito qualche trucchetto. Ma lui lasciava correre e, a fine serata, contava soddisfatto le banconote. Regolarmente, le aggiungeva alle altre, tutte raccolte in un grosso, inseparabile rotolo, legato con un anello d’elastico. Lo custodiva nella tasca anteriore, sinistra, dei soliti pantaloni di velluto, di colore ormai indefinibile, per l’evidente mancanza di un caritatevole lavaggio.

Esaurita la sequenza, si concesse un’altra bevuta. Direttamente dall‘ultima, non ancora svuotata delle tante bottiglie, perfettamente allineate, davanti a lui, sul tavolo.

Era un suo vezzo non metterle mai sul pavimento da dove, portarle via, rientrava nei miei compiti.

Rutto d’ordinanza, girò il capo nella mia direzione e mi fissò con uno sguardo carico d’odio.

 

Ma… le mani

“Guardate che mani ha Renato“ (era il mio nome di copertura), “Da signorina. Per questo quando tira il cavo si mette sempre i guanti. E non solo. Beve col contagocce, parla pochissimo, non scorreggia, non bestemmia e non gioca a carte. Che cazzo, questo è uno della ‘pula’ (la polizia nel gergo della malavita lombarda) e ci manda tutti al gabbio!”

Urlava sputacchiando. Il viso paonazzo, pericolosamente gonfie le vene del collo, e agitava la bottiglia come una sciabola.

Intervenne Massimo. Si alzò in piedi e girò intorno al tavolo per avvicinarsi a Carmine.

“Sei davvero un pirla. Se Renato non beve e non gioca, sono cazzi suoi. E poi ‘terrone d’un calabrese’, uno è della Pula solo, perché si mette i guanti?”

Erano in piedi anche Giulio e Gigino. Solo Carlo non si era si era mosso. Con la solita flemma, accennò una battuta:

“Non impari mai. Rimpiangi le pecore del tuo paese. ‘Pistola del cazzo’. Non distingui un poliziotto da un tranviere. Non voglio pensare se incontrassi un’Aringa (carabiniere) che pure ha un odore particolare. Sei davvero un ‘bagolon del luster’, traduco, spari proprio cazzate. Pensa a caricare le ‘bionde’. Sennò resti un bauscia affamato”.

Concluse pacatamente il meneghino.

 

Si mette male

Carmine sbatté con violenza una bottiglia sul bordo del tavolo, e la spezzò. La birra e i frammenti, del vetro, schizzarono dappertutto. Reggendo il moncone, il calabrese fece il giro del tavolo e venne verso di me. Mi imposi di restare calmo.

“Ma dai Carmine, che ti passa per la testa. Ma quale pula. Lavoriamo insieme. Come puoi pensare che sia un infame”.

Sorrisi, sperando di assumere un’espressione più convincente possibile. Ma la mia finta, allegra, cordialità si spense di colpo.

Quel che restava della bottiglia, il moncone affilato, si indirizzò verso il mio viso. Riuscii d’istinto, a tirarmi indietro. Non abbastanza.

Un dolore acuto mi avvertì che quell’arma terribile aveva attinto il mio collo. Urlai e mi alzai di scatto. Carmine e la sua bottiglia, erano ancora pericolosamente vicini.

Un groviglio di braccia, e un coro di bestemmie mi salvarono da un altro attacco. Qualcuno mi tirò indietro. Fu un caos.

 

Porca troia

Mi toccai il collo. La barba era umida. Ritrassi la mano.

Completamente rossa di sangue. Porca troia, e adesso che cosa faccio, e dove vado? Decimi di secondo. Ma capaci di passare in rassegna un turbine di pensieri.

La consueta ironia, miracolosamente, mi suggerì di pensare alla frase che uso spesso per concludere, velocemente, qualche evento fastidioso: “Ciao, buonanotte, arrivederci”.

Col fazzoletto, compressi la zona della ferita nascosta sotto la barba. Cazzo, quanto sangue, adesso svengo, temetti. Resisti Enzo, tanto non fa male.

E, infatti, stranamente, non provavo dolore.

Uscii correndo dalla saletta.

Il personalissimo ‘pilota automatico d’emergenza’ mi guidò, miracolosamente, alla Mini. La misi in moto e partii tipo Gran Premio di Monza. Potevo guidare solo con la mano destra, ma non riuscivo a decidere in quale direzione. Scelsi la di girare a destra. Verso Varese.

Mi serviva un medico.

“Dove cavolo c’è un ospedale. Perché non mi sono documentato prima, che stronzo? E, se l’imbecille ha beccato un’arteria, quanti minuti di autonomia mi rimangono? Porca puttana”.

Mi resi conto di urlare, ma certo non mi scandalizzai.

O, meraviglia, l’indicazione blu: ’Varese’.

E vai, giù con l’acceleratore! La Mini volava, saltellando su ogni piccola asperità dell’asfalto.

“Per forza”, stupidamente, non potei fare a meno di tirare in ballo la mia cultura automobilistica “ha le ruote appena più grandi di quelle della mia amata Vespa. Ma l’ospedale ‘ndò cazzo sta?”

Dopo altri chilometri a quella andatura disperata, altre indicazioni: ‘Varese km 20’, ‘Varese km 10’ e finalmente ‘Carabinieri’ (ci penserò più tardi ), e ‘H’, ‘Ospedale’.

“Ci siamo”, pensai e poco dopo, l’insegna salvatrice ‘Pronto soccorso’.

Parcheggiai su un lato dello spiazzo e, mano sul collo, entrai quasi correndo.

 

C’è qualcuno?

Dal corridoio, alla sala d’attesa. Deserti.

Diverse porte lungo i muri. Mi diressi a quella con due ante-bussola, e parecchio più sporche. Ovvio, la più frequentata. Sicuramente quella giusta. Bussai già spingendo il battente e entrai senza attendere risposta:

“C’è qualcuno?”

 Arrivò un infermiere.

“Prego, prego s’accomodi” e mi guidò in una sala attrezzata. Mi aiutò a togliermi il giubbetto, e mi fece stendere sul lettino che c’era al centro.

“Un momento solo, chiamo il dottore, e uscì da una porta laterale.

Rientrò dopo pochi secondi. Un accurato lavaggio delle mani, e si infilò i guanti d’ordinanza.

“Il dottore arriva subito”, mi rassicurò, “Intanto facciamo pulizia”, e tolse il fazzoletto completamente inzuppato di sangue.

“La barba nasconde la ferita, ma si indovina, ugualmente, un bel panorama“ sorrise, “Stia tranquillo, sistemeremo tutto. Dottore c’è un taglio frastagliato. Ma prima debbo rasarlo. Può tamponare per favore“, chiese al medico appena arrivato.

Un uomo di mezza età sorridente, né troppo alto né troppo basso, viso simpatico, capelli brizzolati, una cinquantina d’anni.

“Come sta? Sono il dottor Arnaldi. Lei si chiama?”

Snocciolai le generalità. Quelle false ovviamente, e: “Sia gentile, stavo lavorando, poi questo pasticcio. Potrebbe chiamare un numero che le darò, così a casa sapranno che sto bene. Se vuol prendere nota”.

E mi accingevo a dargli uno dei numeri memorizzati, mentre l’infermiere, con delle lunghe forbici, cominciava a sfoltirmi la barba.

“Tranquillo signore, prima avvertiamo i carabinieri. Li abbiamo già pronti. C’è un brigadiere nella stanza accanto. Angelo chiamerà sia lui che Marina, una professionale che ci darà una mano. Va’ pure Angelo, lascia la barba”, disse all’infermiere che si avviò velocemente verso la bussola d’ingresso della sala.

“Ha un bel taglio e non mi dica che se lo è provocato sbucciando un’arancia”, ironizzò sorridendo.

“No di certo. Ma è complicato. Non me ne voglia se sarò piuttosto discreto”.

“Non si preoccupi, a me basta curarla nel migliore dei modi. Onestamente le anticipo, che la ferita è brutta. Meno di un centimetro a sinistra, e non ci saremmo mai conosciuti. Ha avuto un gran culo, caro signore. Le bottiglie, in questa zona, di solito, ammazzano subito”. Azzardò, indovinando.

 

La legge

“Buonasera, ha un documento?” chiese qualcuno da dietro la mia testa. Poi, l’autore girò intorno al lettino, ed entrò nel mio campo visivo. Proprio mentre un’infermiera, materializzata dal nulla, mi copriva con un lenzuolo verde.

È arrivato intuii.

“Buonasera, brigadiere? Nessun problema. La faccenda non è semplicissima ma abbastanza normale. Le spiegherò tutto con calma. Nel frattempo se farà una telefonata al numero che le darò saremo più tranquilli. Può scrivere per favore?” E gli dettai il numero dei militari del comando dell’Arma, a conoscenza della mia missione.

“Dovrebbe risponderle una signora, una mia anziana parente, e potrà rassicurarla”.

“Sì, certo, ma il documento mi serve subito”. Obiettò, perentorio, il carabiniere. Per mestiere, molto poco convinto dalla mia spiegazione.

“Come vede, sono piuttosto ‘incartato’. Il portafogli è nella tasca interna di quel giubbetto nero, sull’attaccapanni. Lo prenda pure”.

Per un pelo evitai di rivelargli che quanto avrebbe trovato era falso. Che pasticcio.

Dalla sede di Milano, gli avrebbero spiegato. O forse no? Stavo ancora in zona pericolosa e, appena possibile, mi sarei cimentato in una fuga, ‘nuvolette, nuvolette’, per illustrarla come il grande Jacovitti.

L’infermiera mi aveva steso il lenzuolo verde, con il classico buco sulla zona operatoria, immaginavo, anche sugli occhi. Ero in assoluta balìa dei soccorritori, e dovevo continuare la sceneggiata. Non si sa mai. Intanto, cercavo di sopportare il fastidio della rasatura. Qualcuno, dei tre che mi accudivano, stava eseguendola con un rasoio non proprio affilatissimo. Pazienza fra poco sarebbe stato peggio.

 

Birra tagliente

“Bene, finalmente potremo ammirare, in tutto il suo splendore, l’opera della ‘bottigliata’. Non mi ero sbagliato vero? Ironizzò, ancora, il medico. E la mia replica, giocoforza, confermò la sua ipotesi.

“Sì dottore, ma l’antefatto è più complesso. Potrei usare la solita frase fatta ‘non è come sembra’”. Mi giustificai.

“Uno squarcio. Le confermo la prima diagnosi, un vero colpo di… ‘fortuna’, a un soffio dall’obitorio. Spero che almeno l’inizio della serata sia stato più gradevole”, aggiunse il medico e, cambiando registro: “Adesso caro signore stringa i denti. Le faremo male. Serviranno una pulizia accurata e un bel po’ di punti, interni ed esterni. Eviterò, se possibile, un’anestesia intorno al vulno, che è molto profondo. Il sollievo sarebbe pressoché nullo, ma rischieremmo un’infiammazione. Piuttosto, tenteremo di evitare una cicatrice esagerata. Ho fatto dei corsi di chirurgia estetica e, solitamente, me la cavo bene. Marina, per favore, preparami il filo autodissolvente, e quello per l’esterno, il più sottile, e gli aghi. Angelo, laviamo a spruzzo. Avvicina di più la lampada con la lente e, per favore, occhi aperti. Non vorrei lasciargli dentro dei frammenti di vetro”.

Ascoltavo il medico. Con gli occhi chiusi. Forse era il momento di concentrarmi. Avrei sopportato meglio un dolore, ancora, da valutare.

Non voglio fare il bambino che frigna, pensavo. E non sono riuscito a vedere nemmeno che faccia abbia questa Marina. Intanto, mi ha coperto come fossi già cadavere. Speriamo almeno sia bella. Uffa. Il lenzuolo mi dava proprio fastidio.

“Dottore non potrebbe togliermi questo sudario e restituirmi la vista?” tentai di ironizzare, “mi sembra di vivere la scena di un giallo, con il protagonista bloccato in un obitorio, mentre il cattivo lo cerca per ammazzarlo”.

 

La manina

“Spiacente, ma per il momento deve sopportare il ‘buio’. Il campo operatorio va protetto. Il suo, sta a tre dita dagli occhi. Resista. E tu, Marina, se si lamenta ‘tienigli la manina’ così si rassicura”. Concluse, e mi fece capire che sarebbe stato meglio se non avessi chiesto la luna.

Ah, i cerusici che mascalzoni! Mi venne da ridere ma, al solito, non mollai:

“Signora Marina, mi raccomando la mano. Ho tanta paura”. Osai, con la massima ironia.

“Stia calmo, le starò vicina”. E finalmente sentii la voce della sconosciuta. A mio giudizio la proprietaria poteva essere notevole. Prima o poi l’avrei vista.

 

Cinque millimetri di vita

“Tutto pulito. A lei dottore”, ascoltai l’infermiere che faceva le ‘consegne’. Mi irrigidii aspettando il peggio.

“Perfetto: ‘ferita lacero contusa dai contorni slabbrati, lunghezza dieci centimetri, distanza dalla giugulare 5 millimetri’. Ha preso nota brigadiere? Sia gentile può ricopiare la diagnosi anche sul mio brogliaccio che sta sul tavolo? Grazie. Angelo asciugami un poco questo sangue. Marina, l’ago è già infilato con l’autodissolvente? Ok diamoci da fare, ma prima passami quel flaconcino lì a destra, e una siringa da 2 cc”.

Quasi subito sentii una puntura sul collo. Il medico era passato all’azione.

“Faccio male? Non me ne voglia. Una punturina d’anestetico, la offro ugualmente. Ma in quanto ad effetto, non garantisco. Il campo è troppo vasto e lacerato”. Puntualizzò.

 

Lavori in corso

Adesso lo sentivo armeggiare. Seguendo il dolore, tentavo di figurarmi la sequenza dell’intervento.

Ma non riuscivo. Forse l’anestetico aveva funzionato.

Il dolore c’era, evidente, ma lo percepivo come se la zona operatoria fosse gonfia, a dismisura, e intorpidita. Meglio, pensai, così fa meno male.

“E così lavora da queste parti?”

Indagava, ancora, il medico.

Dovevo inventarmi una risposta plausibile. Facile. In effetti lavoravo alla locanda.

“Faccio un po’ di tutto. In un piccolo albergo qui vicino, in campagna, sul fiume”, replicai tentando di simulare la massima sincerità.

“E la bottigliata?”

Un attimo di riflessione e poi: “Quasi ordinaria amministrazione”, e la mia voce suonò calma da sotto il lenzuolo.

“La sera, certi clienti, si riuniscono, per una partita a briscola, e a bere. Qualche birra. Ogni tanto, capita che litighino. Come stasera. Mi ero messo in mezzo per separare i contendenti, ed ho avuto la peggio. Che vuole, caro dottore, le testa calde ci sono dappertutto. Però è valsa un’occasione per conoscerla”.

“Certo, certo, La ringrazio. Un modo strano per fare amicizia. Poteva passare per un caffè e avremmo fatto, ugualmente, due chiacchiere” concluse, fingendo di credere al mio improbabile racconto.

E, intanto, lavorava alla mia ferita. Ne seguivo i movimenti con la stessa sensazione di qualcosa che mi toccasse il collo, e che sentivo come una sorta di massa, con un dolore di fondo che, in alcuni momenti, si materializzava in frecciate più acute. Come se mi penetrasse un ferro rovente. Ma continuavo a mantenere un ‘decoroso’ silenzio. Mi concedevo soltanto delle contrazioni ‘total body’, per usare un termine da scintigrafia.

“Dottore, a quanti punti stiamo? Mi sto addormentando”, mentii spudoratamente a denti stretti.

“Vede come sono bravo a non farle provare dolore”, replicò il medico. E ne immaginai il sorriso.

“Sto già ricucendo l’interno, poi passeremo alla rifinitura dei bordi esterni. Per stancarmi meno dovrei usare una Singer. La famosa macchina per cucire che usava mia madre”. Intuii il suo sorriso. “Ma in ospedale non c’è. Abbia fiducia, caro amico. Ne avremo ancora per un po’. La prossima volta stia lontano dalla birra. Non si direbbe, ma a quanto pare, può essere anche tagliente”.

E via con un’altra risata.

 

Che dolor

La riparazione continuava e l’anestesia, da quanto provavo, aveva già deciso di abbandonare il campo.

“Caro dottore, sento piuttosto male. Non può aiutarmi?”

“Lo avevo previsto. Prima di cominciare. Ed è andata meglio di quanto avrei sperato. Preferirei non somministrarle altro anestetico. Il campo operatorio è già abbastanza inquietante. Resista”.

“Va bene. Spero che ogni tanto mi concederà una piccola pausa. Per riprendere fiato”.

“D’accordo. Marina la conforterà”.

Assicurò, più ironico che mai.

Una mano, sotto il lenzuolo, si impossessò della mia destra. La beneficenza era iniziata.

Il maneggio del medico andò avanti piuttosto a lungo. Di pari passo con l’aumento del dolore.

Mio malgrado, spesso, stringevo addirittura con violenza, la mano di Marina. L’interessata non protestava. Anzi, ricambiava la stretta con uguale energia. E, miracolosamente, riusciva a tranquillizzarmi.

Finalmente, il tormento finì. Tornai a rivedere la grande lampada che illuminava il campo operatorio, e restai in attesa della rivelazione dell’aspetto di Marina.

“Com’è andata? Si è lamentato poco. Davvero bravo. Soffrirà di dolori postumi. Per qualche giorno. Prenda pure degli analgesici. Intanto, le prescriverò un antibiotico.

Dovrebbe tornare da me fra una settimana, o poco più. Per togliere i punti. Le lascerò un appunto sulle mie presenze. Ci tengo a vedere il risultato. In certo senso, è stata la mia prima sutura, doppia e complessa, con tecnica estetica”.

“Molto gentile dottore. Seguirò i suoi consigli. Sono certo che la sua cesellatura sia stata perfetta”. Conclusi con un sorriso che mi costò una fitta sulla ferita e, forse, mi fece arrossire per la bugia. Perché, ne ero certo: in quell’ospedale, non sarei più tornato.

“Scenda con calma dal lettino, i valori della sua pressione saranno, sicuramente, molto bassi. Meglio scongiurare un capogiro. Marina diamogli una mano”, consigliò il medico. Poi, con l’infermiera mi sorressero, finché non poggiai i piedi sul pavimento, e mi sostenni aggrappandomi ai bordi del lettino.

“Tutto bene? Adesso ‘l’azienda’ le offrirà un caffè doppio e una sedia comoda. Per rimettersi a posto basterà una mezz’oretta. Tanto deve raccontare della ‘birra sanguinaria’ al brigadiere Esposito” ironizzò, implacabile, il medico, “se le servirà qualcosa, sono nello studio qui accanto. Le preparo lo specchietto delle date per togliere i punti”.

“Grazie dottore, vado a confessarmi”. E mi avviai alla ricerca del carabiniere.

 

A domanda, rispondo

Mi aspettava dietro una vecchia Remington, con diversi fogli, alternati ad altri di carta carbone, già infilati nel carrello.

“Cominciamo?” E mi invitò a sedergli di fronte.

Stavo ragionando velocemente. Dovevo decidere quale versione dei fatti avrei usato. Restare nel falso del ‘sottocopertura’, o mettere il militare in contatto con l’ufficio di Milano.

I documenti in dotazione apparivano autentici. A prova di bomba. Improbabile il rischio di essere scoperto. Stavo bene, ed ero in grado di rientrare a Milano, senza alcun aiuto. Nella locanda avevo lasciato solo i quattro stracci del mercatino, ma nulla che potesse identificarmi.

Non volevo, nemmeno, dubitare della correttezza del carabiniere. Però, certe volte, ogni cosa può evolversi in modo diverso. Meglio non rischiare. Non si sa mai. 

 

Quasi vero

“Eccomi brigadiere. Ha già visto i documenti? Patente appena rinnovata, lo avrà notato dalla foto recentissima, e bollo pagato. Le riassumo l’accaduto. Praticamente, ogni sera, nell’alberghetto dove lavoro, certi clienti (sono degli operai che lavorano in zona), scommettono poche lire a briscola o a tresette. Bevono qualche birra di troppo, questo sì ma, certe volte, integrano la bionda con un grappino. E allora sbroccano in qualche lite.

Di solito, niente di particolare. Ma stasera è andata diversamente. A vicenda, si davano del baro. Ed è scoppiata una rissa. Io, ero lì vicino, per raccogliere le ordinazioni e metter via le bottiglie vuote. Incautamente, mi sono messo in mezzo per dividere i contendenti più calorosi. Stavano già affrontandosi. Muniti di bottiglie appositamente, rotte.

Uno dei due, non ho fatto in tempo a vedere chi fosse, ha allungato la mano ‘armata’, e mi ha colpito. Per fortuna sono intervenuti gli altri giocatori a bloccarli, e io sono corso in ospedale. È tutto”.

 

Fidarsi è meglio

“Sì, d’accordo, dove lavorano quei signori?” chiese il brigadiere.

“Sinceramente non lo so. Da qualche discorso ho intuito che non siano degli specializzati. Manodopera di fatica, credo”, replicai, cercando di essere convincente.

“Uomini di fatica?” obbiettò, subito, l’inquisitore. “Ma come possono permettersi di soggiornare in albergo?”

Ahi, ahi. Speriamo bene. Questo è proprio un ‘carabiniere’.

“Ma, dormono in due e in tre per camera. Più che albergo, è una locanda. Costa poche migliaia di lire. Di sicuro, avranno fatto una specie di abbonamento”.

Mi salvai in angolo.

Mi credette, e cominciò a battere, vigorosamente, sui tasti. Copiò i miei dati. Mi restituì patente e portafogli, che rimisi nella tasca interna del giubbetto.

La stesura del verbale non fu rapidissima. Feci in tempo a rilassarmi e a gradire un’altra tazza di caffè, decisamente buono, che Marina mi offrì con un sorriso.

Ah, dimenticavo, non era proprio male. Che peccato dovermi eclissare.

Esposito, finì di scrivere. Sfilò i fogli dalla Remington, rilesse con calma e, con la biro, fece qualche correzione. Me li girò perché li firmassi. Rilessi molto velocemente, sapendo che eventuali imperfezioni, il mio personaggio inesistente, non le avrebbe certo notate.

Firmai, e ringraziai il carabiniere che, a quel punto separò gli originali dalla carta carbone e li ripose con cura, ognuno in una cartella diversa. Una copia la diede a me. Lo ringraziai e puntai allo studio del medico per ‘lo specchietto delle date’.

 

L’argomento ‘deviato’

Al giornale, lasciammo decantare  il pezzo per diversi mesi. Uscì a gennaio dell’anno successivo.

Un grande ‘strillo’ in copertina: “Come sono truccate le auto dei contrabbandieri”.

Il taglio, per evitare pericolose rivalse, era stato necessariamente diverso.

Non c’era alcuna traccia del ruolo da infiltrato, né della ‘birra tagliente’. Erano state aggiunte delle immagini generiche e quelle di un deposito giudiziario dell’hinterland. Se ne occupò un fotografo molto noto. Nel paginone centrale furono immortalati i trucchi.

Avevo puntato soprattutto sul contrabbando di valuta, sulla fantasiosa preparazione delle automobili pirata e sulle particolari manovre per depistare le forze dell’ordine.

           

 

I copioni

Ottima la risonanza. Al punto che almeno tre note testate, della concorrenza, ripresero pari, pari, il mio pezzo e lo ripubblicarono svisandolo appena.

Ognuna, vergognosamente, spacciò la mia inchiesta, come propria.

Il plagio si spinse fino alla ‘calzetta’ (come usa dire nel nostro gergo) delle foto. Ma la riproduzione, ovviamente, risultò rovinata da una evidentissima grana. Con la tecnica di quegli anni, era impossibile evitarlo. L’evidenza del ‘furto’ fu innegabile. Ma, i copioni se ne attribuirono, ugualmente, la paternità.

Nell’ambiente, il ’caso’ fece molto rumore.

Il nostro Editore, rinunciò alle querela di plagio. Ma non solo.

Pochi giorni dopo la pubblicazione, sulla mia scrivania trovai una busta. Sigillata. Conteneva un biglietto dell’Editore. Lusinghiere congratulazioni e un assegno. Molto generoso.

Quasi l’equivalente di un intero anno di stipendio.

Subito, con un piccolo supplemento (dai miei guadagni da infiltrato), lo girai al concessionario dell’Abarth, in cambio di una cattivissima ‘850 Nurburgring’, che feci modificare, spostando il radiatore supplementare, da sotto il pianale, sul muso e con altre raffinatezze.

Che goduria, la notte. Bruciare ai semafori costosissime e superpotenti Ferrari e Jaguar.

Soltanto per  alcune decine di metri. Certo.

Ma vuoi mettere?

 

 

Copyright Enzo Buscemi 2023

 

   

Gamy Moore
Follow me
Latest posts by Gamy Moore (see all)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *