Io lavoro al bar di un albergo a ore…

di Beatrice Nefertiti


Magari, sarebbe meglio. In realtà lavoro da trentotto anni in un ufficio, dove ogni giorno credo di aver raggiunto l’oscuro limite dell’abiezione dell’animo umano, ma non basta. Si continua a scavare.

Ricordo quando varcai la soglia dell’allegro mondo del lavoro, tenera studentessa dell’università bolognese degli anni Settanta. Dagli indiani metropolitani ai lecchini del capufficio, dal femminismo al bacio della pantofola. Ma si doveva pur pagare l’affitto…

Per non impazzire mi sparavo le ferie tutte insieme, un mese nei periodi che non voleva nessuno, marzo, novembre… Sei mesi a vivere di ricordi, altri sei a progettare la fuga successiva. Un anno andai in Nepal. Al ritorno una collega mi chiese “Perché la chiamano bomba al Nepal?”.

“Cosa?” le domandai stupita. “Ma sì, quella che gli americani tiravano in Viet Nam…”. Me la cavai con una spericolata analogia tra la luce dell’alba tra i monti nepalesi (aiutata magari da qualche bongh) e il bagliore accecante della bomba lanciata a distruggere i villaggi nella foresta. Fu, direi, un successone.

Ma quello che mi rovinò fu la televisione. Ogni mattina gli argomenti base erano orientati su due filoni: cucina e faccende domestiche, e i programmi della nascente TV berlusconiana. Sapendo che vivevo sola, mi perdonavano la mancanza d’interesse per le tecniche di stiro e le ricette di cucina, ma vedermi cadere dalle nuvole ogni volta che la discussione su Dallas, Dynasty e Drive In si faceva infuocata, era troppo. Persino il capufficio si sentì in obbligo di intervenire… Ma come, signorina, lei dunque esce tutte le sere? E come fa poi a essere fresca e riposata e dare il meglio di sé sul lavoro? Timidamente, allora, confessai che non uscivo sempre, spesso restavo in casa, ma non avevo la televisione. Per passare il tempo LEGGEVO, la lettura è la mia grande passione fin da quando ho cominciato a distinguere le lettere dell’alfabeto. Credo che se avessi confessato una grande passione per la sodomizzazione di minorenni o la necrofilia, avrei ricevuto una maggiore solidarietà. Ma la lettura no, quella non mi è mai stata perdonata.

In mezzo a un attanagliante racconto in cui qualcuno rivelava che la cognata della nipote del giardiniere dell’amante del primo figlio di secondo letto dell’ereditiera aveva alfine tradito il terzultimo discendente dello Shogun, un momento di silenzio si ergeva come una muraglia e tutti mi guardavano: “Ah già. È vero. LEI non le sa queste cose. LEI LEGGE…”. Un giorno provai a rispondere che qualche volta trombavo anche, ma non fu una bella pensata. Non me la perdonarono mai.

Un’altra magagna che mi distrusse fu l’italiano. Il mio problema è che lo conosco abbastanza bene: non sono Manzoni né Dante, però coi congiuntivi me la cavo. Posso rimanere impassibile quando sento una collega lamentare il suo flusso mestruale così abbondante al punto che “le vengono a fiocchi” ma non ce la faccio a inviare una lettera che comincia con “Gentile signora, l’ha contatto per…” e per queste mie umane debolezze ho rischiato più volte la messa al rogo come eretica e strega.

Col tempo ho cambiato tanti uffici e tante sedi diverse. “Dalla padella nella brace” è un luogo comune assai abusato, ma ancora adatto a descrivere i miei vari trapassi. Credo di aver raggiunto l’apoteosi in un luogo che avevo soprannominato “L’Acquario delle Orche Assassine”. Le colleghe erano tutte donne di stazza elefantiaca, grosse come orche, ma molto, molto più carogne. Decisero subito che non volevano corpi estranei. Il mio corpicino taglia 42, e soprattutto le mie gambe vergognosamente prive di vene varicose, erano un autentico affronto allo spirito di gruppo, pertanto andavo espulsa con la violenza. Facevo il possibile per passare inosservata, non parlavo mai, non alzavo la testa dalla scrivania, ma le abilissime Orche mi tennero sotto stretta sorveglianza per ben due anni, durante i quali si accorsero con sgomento che io sbrigavo in due ore il lavoro che a loro richiedeva almeno sei giorni, e poi… Cosa facevo dopo? Scoprirlo diventò lo scopo della loro vita. Le orche si impegnarono a sorvegliarmi durante tutta la giornata lavorativa, sfinendomi con i racconti delle loro faide familiari, e si armarono di occhi a tentacolo. Finirono per scoprire le mie colpe: una volta finito il mio lavoro, ne facevo di tutti i colori. Scrivevo lettere agli amici, leggevo, preparavo le lezioni per le ripetizioni che davo come secondo lavoro. Ho rischiato il licenziamento.

Alla fine si accontentarono di trasferirmi in un posto dove non mi davano assolutamente niente da fare, ma non potevo fare niente. Né leggere, né scrivere. Solo stare a disposizione. Anni dopo ho imparato che si chiama mobbing, ma allora non lo sapevo, e anche i sindacati mi dicevano che era un diritto del datore di lavoro e che non potevo lamentarmi, perché almeno mi concedevano di stare seduta.

Per un breve periodo ho avuto la fortuna di avere un capufficio molto “strano” per l’ambiente: non considerava lavativi i dipendenti che non erano disposti a tutto per fare carriera, compreso vendere la verginità delle figlie adolescenti, ma assegnava dei lavori da fare e pretendeva che venissero fatti. Il ragionamento mi sembrava così semplice che ce la facevo perfino io a capirlo… io, la reietta dell’ufficio, quella che leggeva, quella che invece di partecipare ai dibattiti su come si stira la camicia perfetta, scriveva lettere in inglese a selvaggi conosciuti in India… Questo nuovo capufficio mi dava dei lavori da fare, io li facevo, se ne discuteva insieme, io gli dicevo il mio parere, lui lo ascoltava, insomma, era come se fossimo stati nella vita reale e non in un film di Fantozzi. È stato bello, per un po’, ma non poteva durare. Il nuovo capufficio è stato costretto alle dimissioni. Anche lui non era adeguato all’ambiente.

Ed eccomi di nuovo qui, a esplorare un giorno dopo l’altro l’insondabile malvagità dell’impiegato medio. La racchia, gelosa del collega carino che non la degna, si vendica fornendo alla moglie di lui le prove dei suoi tradimenti. Le lettere anonime fioccano come aeroplanini a scuola nell’ora di religione. Poi c’è il rito della “confessione” in cui ogni capetto, o presunto tale, va dai “soprastanti” a raccontare tutto ciò che ha saputo di bizzarro e sconveniente in merito al comportamento dei colleghi, che siano la foto in costume da bagno pubblicata su Facebook o un’improvvida sosta al bar durante l’orario di lavoro.

Ultimamente ho saputo che un collega potente vuol farmi trasferire per far posto alla sua amante. Siccome vuol fare un buon lavoro e non gli piace lasciare le cose a metà, mi sta facendo deportare in un posticino di quelli veramente perfetti per chi come me non accetta intromissioni tra il lavoro e la vita personale. Un posto dove non ci sono orari, dove bisogna “spendersi” (come dicono loro), essere disponibili di giorno, di notte, di sabato, di domenica, per l’organizzazione di “eventi” di interesse attanagliante, come l’architettura del ventennio fascista o i gemellaggi col deserto del Saharawi. Un posto in cui, adesso che ho un marito, due gatti e due genitori anziani, la mia vita personale ne uscirebbe calpestata come un purè di patate schiacciate con i piedi e condite con il letame.

Ci ho pensato bene: a cinquantasette anni, con trentotto anni di contributi versati con le lacrime e il sangue, sono vecchia per tutto, ma troppo giovane per la pensione, che i nostri eroi al governo si sono rubata insieme a tutto il resto. E mi è venuto in mente mio nonno, che era un uomo previdente. Durante la guerra ha messo le mani su una grossa quantità di esplosivo tedesco e l’ha conservato come un tesoro, perché, diceva lui, poteva sempre servire. Grande esperto di armi e di ordigni vari, mi ha istruito fin da piccola, e io non intendo deluderlo. Gli dimostrerò che l’allieva ha superato il maestro.

Non è difficile rimanere in questo palazzo durante la notte, e minarne le fondamenta è stata veramente una passeggiata. Alla pensione non ci arriverò mai, perché quando arriverà il mio momento, la sposteranno un po’ più in là, e poi ancora più in là, un altro pochino, come stanno facendo ormai da vent’anni, finché potrò uscire da questo incubo solo con i piedi in avanti. Allora, se così deve essere, lo voglio fare col botto. Oggi ci sono tutti, non è periodo di ferie, non ci sono ponti. Il mio cellulare è pronto, mi basta digitare un numero, un piccolo numero, il mio codice per la libertà. Al mio via, finalmente, si scatenerà l’inferno.

 

 

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6 Replies to “Io lavoro al bar di un albergo a ore…”

  1. Raffaele, lo è. Non ho inventato niente, sono tutte storie di vita vissuta (da me, purtroppo) ed ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente reale. Solo il finale, ANCORA, non si è realizzato, ma non poniamo limiti alla provvidenza

  2. Evviva la gente che legge e che sa parlare anche di altre cose che non siano solo la famiglia, i figli, i lavori domestici…
    Ho sempre pensato che abbiamo una testa per pensare e occhi per guardare un po’ più in là…verso l’orizzonte…magari vedendo cose che nessuno altro ha mai saputo vedere prima. Questo dovremmo insegnare ai nostri figli, ai nostri allievi ai nostri compagni di viaggio. Sempre.

  3. Caro Giovanni, naturalmente lavoro in un incubo, come tutti quelli che non sono riusciti a scappare dall’ “allegro mondo del lavoro” per NON raggiunti limiti di età. In questo lieto parallelo delle miniere di Golconda, i lavoratori (ora detti “collaboratori” nel senso che devono anche collaborare attivamente e portarsi la vaselina da casa) si dividono in due categorie. Quelli che hanno un contratto a tempo indeterminato e gli altri. “Gli altri” sono adibiti alle più abbiette forme di schiavitù fisica e psichica, e li hanno addestrati così bene, fin da piccoli, che non danno nemmeno l’idea di accorgersene. O sono attori fenomenali, o la disperazione ha donato loro una faccia da poker che sbancherebbe Las Vegas, oppure (ma non posso pensare che sia possibile) sono convinti che vada bene così. I “vecchi” che hanno ancora un contratto a tempo indeterminato, e certi “anacronistici privilegi” come le ferie, la malattia pagata, l’orario di lavoro, sono trattati che neanche il porco a novembre, come diceva la mia nonna. Ogni tanto avviene qualche miracolo, tipo scivoli, rottamazioni, esodi, insomma ti pagano per cavarti dai coglioni e prendere al tuo posto un disgraziato senza diritti a 500 euro al mese full optional – ma nell’incubo in cui sono attualmente rinchiusa non succede, devo solo sperare che mi lascino lì a soffrire fino a che l’INPS non mi concederà la piccola (piccolissima….) rendita che ho maturato con tutti i soldi pagati in questi anni. Il sangue e le lacrime sono gratis.

  4. Ma lavori in una ditta o in un incubo?
    Per quanto mi riguarda ricordo due cose delle mie esperienze lavorative che hanno qualcosa in comune con il tuo articolo. Nel lontano 1972 per andare a insegnare partivo col treno alle 5 e tornavo alle 16. Nel viaggio di ritorno incontravo il mio professore di italiano del liceo che diventato preside andava anche lui fuori a tenere un corso. Era stato lui con i suoi voti a convincermi che il mio mestiere era scrivere… questo tema completamente folle e scritto bene rispecchia in pieno la personalità di Merenda… voto 8.
    Non ci vedevamo da tanto tempo e naturalmente vedendoci parlavamo di letteratura… Sciascia, Dante, Calvino…
    Dopo 10 minuti cominciava l’esodo. Tutte le professoresse nello scompartimento, nel treno c’erano solo professori, scappavano verso un altro scompartimento. E io so per certo che alcune erano prof di italiano.
    Altro episodio pochi anni dopo. Viaggiavo in macchina con 2 professoresse. Per tutto il tempo mi angustiavano con quello che facevano i loro figli piccoli… i dentini… la cacchetta. Non ne potevo più. Allora ho cominciato a narrare anche io le storie del mio adorato Ulisse, un intelligentissimo pastore bergamasco. Compreso le sue cacchette. Non l’hanno preso, molto bene ma hanno capito.
    Peccato per la tua pensione che si allontana. Andare in pensione è qualcosa di splendido, continui a fare tante cose, ma le fai quando vuoi tu.

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