La baronessa rossa

goodbye my lover

Il commissario Luigi Martino aveva voglia di camminare, così parcheggiò nella parte bassa e, dopo avere ammirato ancora una volta le statue sotto i balconi di Palazzo Cosentino, cominciò a salire verso Ragusa Ibla e le sue 43 chiese.

Di questo numero era stato informato una volta, non ricordava da chi.

Non sapeva se si riferisse ai tempi antichi oppure se tutte esistessero ancora, magari chiuse o in rovina.

Un po’ affaticato e a corto di fiato – eppure non fumava… il problema è che non basta amare le lunghe passeggiate, bisogna pure trovare il tempo di farle – passò davanti al Circolo di Conversazione (che nome splendido!), percorse Piazza Duomo, ammirò pure le statue, sempre sotto i balconi, di Palazzo La Rocca e rivide rincasare, al portone dello stesso palazzo, Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana.

Il cameriere che aprì al commissario Martino era chiaramente indiano. Lo dicevano il suo turbante e la barba nera. Qui si fermava la parte indiana perché indossava una maglietta bianca con la scritta MAKE LOVE NOT WAR con relativo logo e dei jeans sdruciti.

La parte della casa che il commissario attraversò, seguendo l’indiano, era abbastanza disordinata, molta roba messa di qua e di là e la pulizia non era perfetta, su alcuni oggetti si vedeva la polvere; non su tutti, evidentemente l’epoca in cui erano stati collocati, magari provvisoriamente per poi restarci nei secoli a venire, non era eguale per ognuno di loro.

La baronessa Zancla lo aspettava nella biblioteca piena di libri vissuti e non messi lì tanto per far vedere che c’erano.

Su un tavolinetto c’erano dei biscottini da the, otto tazze e quattro teiere.

Il commissario Martino si chiese chi fossero gli altri invitati, anzi si guardò intorno per vedere se ce ne era già qualcuno. La biblioteca era molto grande, piena di angoli e di punti poco illuminati.

La baronessa gli lesse nel pensiero:

“Non verrà nessun altro. Le tazze sono tutte per noi due. La prego, si accomodi.” indicando una grande poltrona, tappezzata di velluto rosso, identica a quella su cui era seduta, posta di fronte a lei.

Le poltrone rosse erano tre; sulla terza, defilata verso il fondo della stanza, riposava languidamente una grande gatta bianca che sembrava appena arrivata dal film Gli Aristogatti.

Teneva gli occhi socchiusi, ma non degnò di uno sguardo il commissario Martino.

“Vorrei chiederle un favore.

Lei sa già che può chiamarmi Alfonsina.

Io se non le spiace vorrei chiamarla Martino, come se fosse un nome e non un cognome. Posso?”

“Certo… Alfonsina.”

“Veniamo al tè. Ho fatto preparare quattro qualità di thr tra quelle che sono riuscita a procurarmi in questo posto lontano dal centro del mondo.” additando le teiere e versando il the, “Questo è Ch’i-Men Mao Feng, un the nero cinese. Poi abbiamo Gyokuro, the verde giapponese. Del the bianco cinese, l’Yin Zhen, che vuol dire Aghi d’argento e infine il Darjeeling, un the nero indiano.”

Il commissario Martino cominciò da quest’ultimo. Aveva un sapore insolito che ricordava le uve moscato e un retrogusto muschiato.

La baronessa lo guardò bere spiando le sue reazioni al gusto del the. Poi fece una risatina.

Il commissario si chiese se prima del suo arrivo non avesse bevuto qualcosa di leggermente più alcolico di una tazza di the.

“In realtà, Martino, non sono poi così fissata sul the come sembrerebbe. Ma non riesco a rassegnarmi alla normalità… ad essere una vecchia signora normale… e così mi sono inventata questa eccentricità… la mia collezione di the… sono un po’ costosi, ma ho ancora abbastanza soldi per permettermi questa… stranezza.

Io trovo la normalità… come posso dire… indecente.

Con tutta probabilità sono una vecchia snob svanita. Eccentrica sono sempre stata agli occhi di tutti.

Si è informata sul mio conto, Martino?”

“Veramente no. Avrei dovuto?”

“Quindi non sa che mi chiamavano la baronessa rossa.

E non alludevano al mio modo di vestire. Pensavano che fossi comunista. A me non dispiaceva che lo pensassero, anche se in realtà non sono mai stata di nessun partito.

Tutto cominciò quando avevo ancora 17 anni, dopo… dopo quella notte di maggio di cui le ho parlato… l’ultima notte che vidi Daniele.

Era il 1939.

Non mi ero mai interessata di politica… per le fanciulle a quel tempo… mio padre invece aveva aderito per interesse al fascismo e a volte al sabato, sbuffando, indossava la camicia nera.

Il tempo dei Gattopardi, ammesso che ci sia mai stato, era finito da tanto.

Mio padre forse non era uno sciacallo o una iena, ma era un uomo meschino e crudele.

Dopo la… ancora oggi non riesco a dire morte, come se non dicendo quella parola… morte… non dicendola fosse possibile…

Dopo la scomparsa di Daniele naturalmente odiavo mio padre e cominciai subito ad odiare pure il fascismo, visto che lui era fascista o perlomeno al fascismo aderiva.

Quando mio padre aveva deciso la morte di Daniele, aveva di certo contato sulla sua amicizia con il federale di Ragusa per bloccare eventuali indagini, che in realtà non ci furono mai.

Ecco, il mio odio per il fascismo che ancora conservo… odio ancora mio padre, probabilmente… ma è un odio che sa di muffa, un odio pieno di ragnatele… mio padre è scomparso da tanto… il fascismo c’è ancora, anche se spesso non viene riconosciuto come tale… il mio odio per il fascismo fu l’unico dono che mi fece Daniele scomparendo.

Mio padre morì nell’agosto del 1943, un mese dopo lo sbarco degli alleati.

Quando lui era ancora vivo avevo nascosto, senza che lui lo sapesse naturalmente, due paracadutisti americani nella casa di Seminara.

Ero già sposata a quei tempi e avevo avuto il mio unico figlio, Goffredo. Avevo sposato il barone Drago come volevano i miei.

Mi ero rassegnata a sposare il barone Drago, sperando di potermi allontanare il più possibile da mio padre.

Sa cosa mi fece decidere alla fine di sposarlo, Martino? La sua bruttezza.

Il barone Drago, poverino, era veramente brutto. Sposare un bell’uomo sarebbe stato tradire ancora di più Daniele.

Naturalmente gli raccontai ogni cosa prima di sposarlo e gli spiegai che, per quanto ne potevo sapere, tutto l’amore che potevo dare ad un uomo, quel tipo di amore, lo avevo già dato a Daniele.

Non fosse morto… forse prima o dopo… quasi tutto può finire… ma lui non c’era più e quindi il nostro amore non poteva finire.

Oddio, sto parlando come si parla nei romanzi rosa… romanzi rosa che non ho mai letto… naturalmente.

Mio marito era una brava persona, una brava, timida, educatissima persona.

Non mi sono mai pentita di averlo sposato. Lui mi amava e io gli ho voluto, col tempo, ragionevolmente bene.

Mai mi ha impedito di fare quello che volevo. Anche quella volta dei paracadutisti nascosti a Seminaro, lui era al corrente e mi ha aiutato.

È stato a Seminaro, Martino?”

“Ci sono stato. Ho visto pure Maria Mazzullo.

Naturalmente lei sa, Alfonsina, che non esiste nessuna possibilità di ritrovare i resti di Daniele Mazzullo.”

“Ha ragione. Del resto dopo tutto questo tempo trovarli, esaminarli, spostarli, sarebbe come turbare un sonno che dura ormai da settant’anni. Che Daniele riposi in pace.

È stato insensato da parte mia chiederle di cercare.

Ma lei capisce, Martino, che la cosa importante, la ragione per cui sono venuta da lei, era parlare, finalmente, di quello che era successo… e parlare con qualcuno che non fosse della mia famiglia.

Lei ha avuto il ruolo del mio confessore, Martino.

E credo che per questo ruolo lei sia portato,” con un sorriso, “dal momento che anche stasera mi viene naturale parlare con lei della mia vita.”

Il commissario Martino, ricambiando il sorriso e assaggiando il Ch’i-Men Mao Feng:

“Ecco, lo avessi saputo tanti anni fa… magari non avrei fatto il poliziotto.”

“Beh, non ho motivi per amare i poliziotti… anzi ho parecchi motivi per non amare le… come dire… forze dell’ordine. Ma sono sicura di non avere molta simpatia neanche per i preti.

Del resto nel dopoguerra, qua in Sicilia, i preti, i poliziotti e i carabinieri facevano parte della stessa squadra.

In Sicilia la guerra vera, forse lei lo sa, cominciò nel 1944.

Da una parte i contadini, i sindacalisti, i disoccupati, la gente affamata… dall’altra le… cosiddette forze dell’ordine, la mafia… i preti e la DC… che allora erano la stessa cosa.

Io stavo con i deboli… sì, lo so, suona retorico… Daniele era un contadino… ma non era soltanto questo… sentivo che era la cosa giusta da fare.

E non mi importava che quelli erano della mia parte… i contadini, mi guardassero, cercando di non farmelo capire, con sospetto…

I contadini non si fidavano di me.

E facevano bene… troppi secoli di sfruttamento dalla gente come me, da parte della mia classe…

Anche qualche comunista… parlo dei dirigenti… non si fidava molto… chissà, forse ero un’infiltrata… una baronessa infiltrata… qualche altro, invece…” con una pausa

intenzionale e un miracoloso sorriso da giovane civetta, “…ci provava.

Giravo per la Sicilia, e girare per la Sicilia a quei tempi non era per niente facile, per partecipare alle proteste annunciate… e spesso mi trovavo anche in quelle spontanee.

La stampa borghese… che parola razionale borghese… quanti concetti dietro una sola parola… la stampa borghese ci dipingeva come facinorosi e delinquenti, mentre noi spesso non volevamo altro che l’applicazione della legge.

Per esempio, nel 1944 il parlamento italiano approvò la legge Gullo sulla divisione dei prodotti agricoli… il 60 per cento doveva andare a chi la terra la lavorava, il 40 ai padroni della terra… beneeeee, un primo passo contro le ingiustizie.

Qua in Sicilia negarono pure che la legge esistesse… era tutta un’invenzione dei comunisti… e i carabinieri e la polizia intervenivano contro chi voleva solo il rispetto della legge… i carabinieri… io ero a Messina il 7 marzo dell’anno di disgrazia 1947… c’era una manifestazione perché i prezzi erano troppo alti e la gente moriva di fame… eravamo in 50.000… e saremmo stati in 80.000 per i funerali un paio di giorni dopo… due morti subito, uno dopo una decina di giorni e tanti feriti… il prefetto rifiutò di ricevere una delegazione… e i carabinieri… i carabinieri ci caricarono gridando AVANTI SAVOIAAvanti Savoia… e l’Italia era una Repubblica già da otto mesi!”

La baronessa rossa si prese una lunga pausa mentre i suoi occhi persi verso il fondo della stanza erano tornati nella Messina del 1947.

Si versò una tazza di Gyokuro e la versò pure al commissario Martino.

“Praticamente ero un’abbonata alle manifestazioni.” ora ironica e calma, “Mi sono persa solo Portella della Ginestra… ero a Palermo allora… ma avevo una… benedetta allergia che stavo curando chiusa in una stanza al Grand Hotel des Palmes… baronessa rossa sì… ma sempre baronessa.

C’ero pure alla marcia del… del… marzo 1956 a Bronte contro Lord Bridport per riavere indietro la Ducea di Bronte che il re Borbone… buono pure quello… aveva donato all’ammiraglio Nelson… a quel Nelson massacratore dei napoletani… dei patrioti napoletani come si scrive sui libri di storia… a Nelson carnefice di Caracciolo, a Nelson che per questi suoi meriti ebbe in dono 7.000 ettari di buona terra e il titolo di Duca di Bronte.”

In quel momento, senza che il commissario Martino avesse notato l’avvicinarsi… ma ai gatti viene naturale comportarsi da gatti… la gattona bianca si materializzò sulle gambe della baronessa e cominciò, con un ronfare che pure il commissario poteva udire, a strofinare la testa contro la mano della baronessa che la accarezzava distrattamente.

“Le è piaciuto il mio ripasso di storia meridionale, Martino?

Non si sa mai… magari domani in classe la interrogano…

Ci resta da assaggiare solo il tè bianco.” versandolo in due tazze, nonostante il commissario Martino, consapevole della sua propensione all’insonnia, non avesse assaggiato neanche il Gyokuro versato prima.

“Sa, spesso, sia quando era vivo mio marito che dopo, ho pensato che sarebbe stato meglio trasferirci al Nord, in una terra più… civile.

Qualche volta avevo pure organizzato tutto per il trasloco.

Mi ricordo di una volta che ho perfino affittato un appartamento a Parigi e poi non ci sono mai andata ad abitare.

Sono rimasta qua e non so nemmeno io perché.

Ma tutto è così complicato, è sempre stato complicato… ti lamenti per come vanno le cose qua… per la gente… e poi resti qua… rimandi partenze che sai perfettamente che non ci saranno.

Aveva ragione Faulkner quando parlava del Sud.

Diceva che il Sud è un privilegio e una maledizione, è grandezza e nello stesso tempo miseria, conflitti interni e fatalità.

Lui parlava del Sud degli Stati Uniti.

Ma tutti i Sud del mondo sono eguali.”

Tornando giù verso la macchina il commissario Martino notò che, come nel centro di Matera e di Tropea, erano poche le finestre illuminate. Poche le case che erano davvero case.

Ma, almeno, c’era parecchia gente per strada. Tra qualche mese, da novembre a marzo, Ragusa Ibla si sarebbe mutata in una grande orsa in letargo.

L’oscurità dava alle statue sotto i balconi dei palazzi, ai suonatori e a i commedianti, un’ambiguità notturna.

In macchina il commissario Martino si trovò ad ascoltare la struggente Goodbye my lover di James Blunt e trovò giusto dedicarla a Daniele Mazzullo per conto della baronessa Alfonsina Zancla.

 


Da LA DANZATRICE DI RAGUSA, opera inedita.

 

 


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Si ringrazia per l’editing Benedetta Volontè

 

 

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One Reply to “La baronessa rossa”

  1. Simpaticissima questa baronessa! Penso anchìio che il giudizio di Faulkner è adattabilissimo al nostro sud.
    Ciao e buon lavoro
    Maria

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