L’eredità di Asia [1]


di Raffaele Laurenzi

«Per dare un seguito, nella memoria di chi mi ha amato, alla mia breve esistenza.»

A mia moglie Rita

Lido di Spina, estate 2019

 

Capitolo I

Il veterinario mi sollevò per la collottola e mi depose sul tavolo da visita. Il metallo freddo sotto i polpastrelli mi dette sollievo, perché faceva un gran caldo quel pomeriggio di luglio del 2019.

I miei padroni restarono in silenzio, per non disturbare, e anch’io me ne stavo lì buona, mentre lo stetoscopio scorreva su e giù sul mio torace. Ero abituata alle visite mediche, conoscevo le procedure: ancora un minuto di pazienza e il veterinario mi avrebbe rimesso a terra. E la mamma, come al solito, mi avrebbe addolcito la bocca con una manciata di croccantini.

Invece, senza dirmi niente, il veterinario mi adagiò su un altro tavolo e cominciò a depilarmi l’addome col rasoio elettrico. In un angolo del tavolo si formò presto una grande soffice matassa bionda. Tutta roba mia… «E adesso? – mi domandai – Quanto ci vorrà perché il pelo ricresca?».

Questa faccenda della depilazione mi seccò molto: non sarei stata a mio agio con quella radura sulla pancia, io che adoravo fare le capriole a zampe per aria, applaudita da tutti. Credevo di aver diritto anch’io a un aspetto dignitoso, sebbene non fossi una Golden Retriever di primo pelo. Pochi giorni prima, avevo compiuto dodici anni, che per un cane come me sono un traguardo rispettabile, ma se avessi detto in giro che ne avevo nove, o persino sette, tutti ci avrebbero creduto.

Avevo conservato il fisico asciutto e un bel mantello liscio; mostravo solo un poco di incanutimento sul muso, che manco si notava sul pelo biondo.

Considerate le circostanze, dovetti farmi una ragione di quella radura. Mi sentivo addosso una grande debolezza, che mi toglieva ogni volontà di resistenza e di protesta. Senza contare che da settimane mi portavo dietro certi dolorini che mi irrigidivano le articolazioni e a volte mi rendevano difficile persino salire un gradino. Però adesso avevo vicino i miei padroni e questo mi dava fiducia.

Ho detto «padroni»? Suona male, lo so, ma è così che si chiamano per la legge coloro che possiedono un cane. Comunque per me «padroni» significava semplicemente mio padre e mia madre: erano loro che mi davano cibo e affetto e in quel particolare momento erano i soli che potevano darmi conforto. Come debba essere interpretato il ruolo del «padrone» è comunque una questione importante e molto controversa. Perciò meriterebbe un approfondimento. Ma io non sono qui per partecipare a un dibattito: io intendo soltanto esporre al riguardo la mia personalissima esperienza. Lo devo a loro, ai miei genitori adottivi, perché questo erano nella realtà. Glielo devo come ringraziamento per ciò che hanno fatto per me e spero di avere tempo abbastanza per raccontarla tutta e dare così un seguito, nella loro memoria, alla mia breve esistenza.

Non avevo scelto io di vivere con loro. Fui scelta. Devo dire, m’è andata bene. Avevo tre mesi, ma ricordo quel giorno di fine primavera quando mi vennero a prendere. Erano in tre, lui, lei e la loro bella figliola Valeria.

Non li avevo mai annusati prima, mi sembravano come tanti altri che capitavano lì, guardavano in giro, mi tenevano un po’ in braccio e se ne andavano, dopodiché tornavo nel mio recinto. Ma intanto, con la scusa del défilé davanti ai clienti, mi godevo qualche minuto di libertà e potevo esplorare quel luogo dove ero nata ed ero stata allattata, conquistando con fatica e, lo ammetto, un po’ di prepotenza, le migliori mammelle della mia mamma biologica. Quando si trattava di conquistare un posto a tavola, ero sempre la prima ad arrivare…
L’allevamento era in collina. Ricordo un’ampia radura erbosa da cui affioravano rocce bianche levigate, macchiate da zolle di muschio. In mezzo c’era una casa e ai margini di quella spianata c’erano due grandi recinti con le gabbie dei cani. A ogni rumore estraneo alla natura del luogo – voci umane, il motore di un’automobile, lo scalpiccìo di gente che si avvicina – si levava dalle gabbie un concerto di abbaiate: «Sentili i Labrador, che coro! Invece i Golden sono più educati» diceva l’allevatrice. Noi Golden Retriever, in effetti, abbaiavamo raramente. Io stessa ho sempre abbaiato lo stretto necessario.

Mi avevano tirato fuori dalla gabbia assieme a un’altra cucciola della mia stessa età. Lei, la signora, diceva che avrebbe adottato quella di noi due che si fosse avvicinata per prima. Erano convinti che sarebbe stata la cucciola a scegliere la famiglia con cui stare. Che sciocchezza, tutti i cuccioli sono pronti a leccare e sbaciucchiare il primo che li prenda in braccio, fosse anche il loro assassino. Perché da cuccioli siamo tutti così, ingenui e pronti a fidarci di chiunque abbia odore umano e ci faccia una carezza.

In realtà io non badai a quelle persone. Ero più interessata alla natura che mi stava attorno e annusavo avidamente il terreno per inebriarmene e arricchire il mio patrimonio olfattivo. Però può darsi che mi fossi avvicinata davvero a quei signori, benché senza intenzione. Fatto sta che la ragazza gridò: «Guarda mamma, viene da noi, vuole stare con noi, è lei il nostro cane».

Non tornai più in gabbia. Mi misero in macchina e partimmo, destinazione la città. Dio mio che viaggio: una serie di curve da vomito che mi centrifugavano lo stomaco e mi sballottavano di qua e di là. Per fortuna il rally durò poco. Prendemmo presto l’autostrada e finalmente mi rilassai sulle ginocchia di Valeria. Ebbi la certezza che presto io e lei saremmo diventate come sorelle.

Durante il viaggio venni battezzata. Ero stata comprata (proprio così: comprata, come un articolo in vetrina) talmente in fretta che i miei padroni, pardon, genitori adottivi, non avevano ancora pensato a un nome. A bordo dell’auto si accese una discussione sull’argomento, solo su una cosa erano tutti d’accordo: il nome doveva essere breve, monosillabico, e cominciare con una consonante dentale, per risultare il richiamo più imperioso e immediato.

Ci fu un rilancio di nomi orrendi, scontati, perfino ridicoli. Finché qualcuno non propose Asia, che al contrario delle premesse comincia per vocale, non è monosillabico ed è più simile a una preghiera che a un ordine. In compenso, mise tutti d’accordo.

A me del nome importava poco. In quel momento avrei preferito che mi avessero dato da mangiare. Nonostante l’automobile mi provocasse nausea, mi era venuta infatti una gran fame, anche perché, risolta la questione del nome, la conversazione si era spostata sulla corretta alimentazione dei cani. E a furia di sentir parlare di crocchette, carni arrosto e biscotti, mi era venuta l’acquolina in bocca.

La mia nuova padroncina mi teneva in braccio, mi accarezzava e mi stringeva per non farmi cadere dal divano dell’auto. Apprezzai quelle attenzioni che giudicavo rassicuranti, perché avevo paura; non ero mai salita su un’automobile prima di allora e mi chiedevo dove mi stessero portando e come mi sarei trovata nella mia nuova casa.

Dalle montagne della Val d’Ossola in due ore arrivammo in una città tutto asfalto e cemento, ma almeno non stavo più in gabbia. Ero eccitatissima per tutte quelle novità: la città in continuo movimento, il rumore dei motori, le scale che non sapevo salire, un grande tappeto dove subito mi accucciai per fare pipì. Tutti mi volevano toccare e prendere in braccio e io li ricambiavo con furiose leccate sugli occhi e sulla bocca.

La casa mi piacque, e dato che non ne avevo mai viste altre, mi sembrò subito adatta a me. I miei nuovi genitori si domandavano preoccupati quanto tempo ci sarebbe voluto perché mi ambientassi. Sciocchi. Quando si va a star meglio, ci si ambienta subito. E io stavo sinceramente bene: non m’importava che la casa fosse piccola o grande, sottosopra oppure ordinata, pulita o impolverata: ciò che mi faceva star bene era la vicinanza dei miei genitori e di mia sorella, in particolare di mia mamma, perché era lei che più di tutti mi faceva compagnia, mi portava ai giardini e mi preparava la pappa mentre papà era al lavoro e mia sorella a scuola.

Arrivò il giorno in cui, per la prima volta, mi lasciarono sola. I miei genitori temettero una catastrofe, invece rimasi buona ad aspettarli, senza patemi, perché ero sicura di rivederli presto e magari ci avrei pure guadagnato un premio, saporito e croccante. Insomma, in quella casa, intendo dire in quella famiglia, stavo benone.

La mia postazione preferita era il divano a giro in soggiorno, precisamente la grande penisola circolare protesa verso il centro della sala. Era una posizione fantastica, perché era panoramica. Da lì dominavo l’intero soggiorno, che era la stanza più vissuta della casa, e potevo tenere d’occhio tutto l’appartamento: porta d’ingresso, corridoio, porte delle camere e soprattutto la cucina, che era il luogo dei miei sogni. Papà mi prendeva in giro: diceva che io ero come il guardiano del carcere panottico di Jeremy Bentham.

Il veterinario strizzò il tubetto del gel sulla mia pancia depilata e cominciò a navigare nelle mie viscere: si fermava, spingeva, si spostava, di nuovo si fermava. Ero stanca, sfinita, ma non riuscivo a chiudere gli occhi: pensavo, ricordavo dettagli che credevo dimenticati. Come la processione di amici e parenti che vennero a conoscermi non appena fui a casa dei miei genitori adottivi. C’era il clima della festa e mi arrivavano un sacco di regali: peluche, ossi che non erano di osso e tante palline da rincorrere, ma il mio gioco preferito, alla fine, era strappare e sminuzzare la carta che avvolgeva i regali. Ne facevo coriandoli e qualcuno lo mangiavo.

Tutti quelli che venivano a conoscermi e mi vedevano giocare con qualcosa da mordere chiedevano alla mia mamma adottiva: «Asia si è già adattata alla sua nuova casa?». Che domanda, certo che mi ero «adattata». Prima vivevo in un recinto: comodo, ma pur sempre un recinto. Altri invece chiedevano: «Dove fa la pipì? Ha imparato a farla sul pannolone?». E poi si vantavano: «Il mio ha imparato subito, non ha mai sporcato in casa…». Mio dio, era un vero «chien-prodige»! Vai a capire, a tre mesi, la differenza tra un tappetino assorbente e un tappeto persiano. Io la differenza la capivo e preferivo il persiano, che sapeva di scarpe, di strada, di vita vissuta. Il tappetino assorbente non sapeva di niente, perciò lì non la facevo.

Ero troppo piccola per capire. Adesso mi rendo conto che detti molto da fare ai miei genitori. In casa era un tourbillon di stracci spugne e detersivi. Una notte mi svegliarono le imprecazioni di mio padre: aveva inzuppato le pantofole in un laghetto di pipì: la mia, naturalmente. A parte questi piccoli incidenti iniziali, in casa credo di essere stata una brava cucciola. Sì, rosicchiai un poco uno spigolo del battiscopa, ma non feci altri danni, diversamente da tanti cuccioli che invece rubano, rompono e raspano. Fui sempre elogiata per il mio comportamento responsabile.

Ma fuori casa no, all’inizio non ero affatto brava. Almeno, si diceva che non lo fossi. Non tolleravo quel coso intorno al collo che mi trascinava dove non volevo andare. Perciò mi impuntavo. Mamma tirava, il babbo spingeva, mia sorella, davanti a tutti, cercava di convincermi allungandomi i croccantini che teneva in mano. In compenso imparai in fretta a farla fuori casa e a scendere dal marciapiedi. Una volta però la feci grossa: approfittai di una distrazione di papà, che si lasciò sfuggire il guinzaglio, e me la diedi a gambe. Mi chiamarono, manco mi voltai. Mi rincorsero, inutilmente. Continuai a correre, svoltai all’angolo e proseguii in volata lungo la via dove abitavo, che sfociava in una strada di grande traffico, pericolosissima. Papà mi chiamava, urlava, mi implorava. Non aveva capito che stavo giocando. Arrivata davanti al portone di casa mi bloccai e rimasi lì ad aspettare mio padre, che arrivò appoggiandosi al muro, senza fiato. Temetti che stramazzasse a terra.

No, non lo sopportavo il guinzaglio e neppure rispondevo al richiamo. Così a qualcuno venne la bella idea di mandarmi a scuola: metodo dolce, a suon di premi chiamati croccantini, perché imparassi a ubbidire. Tempo e soldi buttati: non mi è mai piaciuto ubbidire; se venivo chiamata, semplicemente non ascoltavo. Se venivo chiamata una seconda volta, con più vigore, un vero ordine insomma, a volte prendevo in considerazione la possibilità di ubbidire, ma solo se non avevo di meglio da fare.

Alla fine la scuola servì: non a me, come ho appena detto, ma ai miei genitori. Capirono che per ottenere qualcosa da me dovevano pagare un prezzo: un croccantino per mettermi seduta all’incrocio in attesa del verde, un croccantino per ripartire, un croccantino per indossare l’impermeabile e così via. Per tre croccantini, mi mettevo seduta, davo una zampa, l’altra zampa, infine un bacio sul naso. Capirono anche che all’ora di pranzo non potevano liberarsi di me tanto facilmente. Avevo sentito storie di cani che fin dal primo giorno hanno mangiato soltanto dalla loro ciotola negli orari prestabiliti. Altri che piagnucolavano sotto il tavolo e poi, chiusi in un’altra stanza, abbaiavano, raspavano la porta come impazziti.

Io no, io non ho piagnucolato mai, per nessun motivo. Non ho mai neppure sbraitato o raspato la porta, perché i miei genitori non mi hanno mai cacciata dalla cucina o dalla sala da pranzo. Non gliene ho mai dato motivo, perché me ne stavo zitta e ferma. Semplicemente li guardavo mangiare. Non potevano certo allontanarmi per così poco, sarebbe stata una palese discriminazione.

Loro cercavano di restare indifferenti e io, imperterrita e immobile, continuavo a guardarli, spalancavo su di loro i miei occhioni buoni di cucciola indifesa e bisognosa d’affetto, sbattevo le ciglia lunghe, lasciavo cadere qualche piccola goccia di acquolina… Questa scenetta poteva andare avanti per parecchi minuti. Un tempo lunghissimo, più che sufficiente per far nascere sensi di colpa a un santo con l’aureola. Prima o poi i loro sguardi avrebbero fatalmente incrociato i miei.

A quel punto era fatta: inclinavo la testa da una parte, illanguidivo ancor di più i miei occhioni e finalmente o papà o mamma mi allungavano un pezzetto di carne o di formaggio. A forza di ripetersi, questa «donazione» forzosa divenne un’abitudine e l’abitudine un diritto. Non si poteva più tornare indietro. Finì che i miei genitori aggiunsero un posto a tavola: un piattino di melamina con la mia porzione di ricotta e grissini senza sale, che doveva durare tutto il tempo del pranzo…

Mi viene da scodinzolare divertita quando ripenso a quella volta che, ormai adulta, dovetti farmi sentire… Presi dalla conversazione o forse distratti dal telegiornale, non ricordo bene, papà e mamma lasciarono passare alcuni interminabili minuti senza darmi i bocconcini che avevano preparato sul mio piattino. Alla fine persi la pazienza. Con voce baritonale lanciai un abbaio di protesta che rimbombò fortissimo nella piccola cucina. I miei genitori fecero un salto sulla sedia e all’istante mi allungarono il bocconcino.

Mi resi conto allora che stavo conquistando il potere.

 

Capitolo II

«C’è una macchia sulla milza» disse il veterinario, indicando il monitor. Una macchia? Ci mancava anche questa. Non era abbastanza l’artrosi che mi offendeva le zampe posteriori e mi aveva tolto ogni voglia di correre? Maledizione, come invecchiamo presto noi cani. Il cavallo campa sui 25 anni, l’asino arriva a 40, il pappagallo a cinquanta. Perfino il gatto campa mediamente qualche anno più di noi. Non mi sembra giusto. Ultimamente mi capitava di bloccarmi davanti a una scala: non so se per l’artrosi o per la debolezza, non me la sentivo di salire i gradini. Mio padre capiva e mi prendeva in braccio, che umiliazione. Non volevo che lui si sottoponesse a un tale sforzo: era vecchio come me e faceva fatica, barcollava, era in affanno già dopo la prima rampa. Temevo che inciampasse e perdesse l’equilibrio. Se fosse caduto, io gli sarei caduta sopra. Sai che frittata!

Mi sono sempre molto preoccupata della salute di mio padre, da quella mattina che lui non si alzò dal letto perché non stava bene e anche la mamma era preoccupata. Arrivarono dei signori in divisa arancione con due valigette e in fretta e furia gli attaccarono gli elettrodi al torace. Ero giovane, non avevo mai visto una scena del genere, ero molto impressionata: mi piazzai vicino al letto e non volli assolutamente esserne allontanata. Se il cardiogramma l’avessero fatto a me, in quel momento, mi avrebbero ricoverata.

Quando quei signori se ne andarono, mi avvicinai a papà, appoggiai il muso al letto e lo fissai. Lui mi accarezzò, mi strapazzò il muso, mi strinse a sé e a poco a poco mi tranquillizzai. Non era stato nulla di grave, ma c’era mancato poco.

Purtroppo ero molto sensibile. Bastava che papà e mamma discutessero con voce un poco alterata perché io mi preoccupassi, bastava un’imprecazione perché mi allarmassi. Non tolleravo che si alzasse la voce: quando succedeva, mi sedevo davanti a mio padre, che di solito se ne stava in poltrona, e lo fissavo in silenzio. Potevo restare così immobile tutto il tempo che volevo, ma non era necessario: lui capiva che lo stavo rimproverando e che pretendevo scuse formali. Allora mi prendeva il muso, lo appoggiava alle sue ginocchia e io restavo così a farmi stropicciare. Avrei voluto che non finisse mai.
I miei genitori non avevano segreti per me. Ne percepivo ogni variazione d’umore, l’allegria e la tristezza, il piacere e la sofferenza, la serenità e l’ansia. Quel giorno, sul lettino del veterinario, capivo chiaramente che pure loro stavano male, anche se non potevo guardarli negli occhi, anche se loro facevano di tutto per dissimulare con i silenzi o con toni di voce ben controllati l’angoscia che li corrodeva. Forse stava a me trovare gli sguardi giusti per confortarli, perché mi dispiaceva che fossero in pena, ma nelle condizioni in cui ero, non riuscivo neppure a fare il muso di circostanza. Stava succedendo tutto in fretta, troppo in fretta. Fino a due giorni prima, facevo passeggiate sulla spiaggia la mattina presto, mi scavavo la cuccia sotto l’ombrellone, facevo la mia solita vita. A occhi chiusi ripassavo i giorni della mia giovinezza, quando giocavo come una pazza con gli amici cani. Alcuni di loro erano molto più grandi di me e un giorno la foga del gioco mi causò un forte dolore a una spalla. Tornai dalla mamma zoppicando e naturalmente fui portata dal veterinario. La sentenza fu severa: «Asia sta crescendo in fretta, le cartilagini sono delicate, non deve correre, non deve giocare con cani di grossa taglia, riposo assoluto fino a quando non è completato lo sviluppo».

Mi toccò subire due mesi di noiosissime passeggiate, ma non potevano mica tenermi legata! Così, anche nel piccolo spazio domestico riuscivo a inventarmi giochi dinamici, come quello di prendere la rincorsa lungo il corridoio, saltare sulla penisola del divano a giro, farmi scivolare sullo schienale curvo come sulla Parabolica di Monza e atterrare all’altro capo del divano. I cuscini volavano, gli elementi che componevano il divano si separavano e una volta mancò poco che si ribaltassero. Nonostante ciò, la spalla andò a posto.

Mi chiedo se mio padre e mia madre conserveranno questi ricordi e se avranno voglia di rievocarli durante le loro conversazioni, perché ho capito che loro sono destinati a sopravvivermi, così ha stabilito Madre Natura, ma se mi ricorderanno vorrà dire che gli anni passati insieme hanno significato molto anche per loro e io continuerò a vivere nella loro memoria.

Certo, il giorno che mi portarono a casa, non immaginavo che ci saremmo amati tanto. Che ne sapevo di quanto potesse essere stretto e profondo il legame che si stringe col tempo tra un cane e un uomo! Solo oggi mi rendo conto dell’importanza di quel primo giorno, che segnò l’inizio del nostro rapporto, fatto di silenziose intese e di sguardi, di abitudini quotidiane che probabilmente ai miei genitori costavano qualche sacrificio, ma a me erano necessarie, perché facevano parte della mia indole abitudinaria.

Ho sentito raccontare tante storie di cani abbandonati perché i genitori (in questo caso, «genitori» tra virgolette) scoprivano di non sopportare i sacrifici che la compagnia di un cane impone. A me è andata bene: sono sempre stata al centro delle attenzioni dei miei genitori. Ogni loro scelta o azione ha tenuto conto della mia presenza e del mio benessere. Lo ammetto, mi viziavano, e io godevo in pieno della mia condizione di figlia unica adottiva.

Fu così fino al 3 luglio di due anni fa – ricordo perfettamente la data – quando mio padre, l’unico uomo della mia vita, mi tradì. Proprio così, dopo dieci anni di vita insieme! Quel giorno portò in casa nostra una Golden Retriever: bella, bionda e, ahimé, giovanissima. Scoprii in seguito che la storia andava avanti da un mese.

Eravamo al mare, in vacanza. Verso mezzogiorno entrarono in giardino due signori, moglie e marito, con una cucciola di due mesi in braccio. Io, che me ne stavo beata al fresco, sotto il portico, gli andai incontro, come facevo sempre quando veniva qualcuno a farci visita, per buona educazione e perché sapevo, per antica esperienza, che chi ha un cane ha spesso qualcosa di buono in tasca. Perciò mi piazzavo davanti a lui, alzavo una zampa e ci rimediavo qualcosa da mettere sotto i denti.

Le cose stavano diversamente e fui davvero ingenua a non capirlo subito. Mio padre prese la cucciola in braccio, entrò in casa e disse a mia madre: «Ti ho fatto un regalo, si chiama Sofia, ma se non ti va la restituisco a questi signori».

Ma come si fa, dico io, a regalare un cane alla moglie? La mia mamma – pensavo – avrebbe sicuramente preferito un gioiello o un bel vestito. Mi sbagliavo, il regalo fu gradito. Eccome se fu gradito. Mia madre strinse quel batuffolo che le slinguazzava la faccia e pianse di gioia, mancò poco che mi commuovessi anch’io. Non ce l’avevo con lei perché aveva accettato il dono: che altro poteva fare? Il mio rancore era tutto per mio padre, che aveva concepito quella mossa da tempo e un mese prima, con una scusa, era partito per un paesino del Veneto dove era nata una cucciolata di Golden Retriever.
In quel momento capii molte cose. Che non gli bastavo più, che da quel giorno avrei dovuto condividere con un’altra i miei peluche, che un’altra avrebbe avuto accesso, senza alcuna fatica, a tutti i diritti che io invece avevo conquistato dopo una lunga e paziente opera di persuasione, a cominciare dal diritto di salire sul letto o dall’istituto del biscotto-premio a ogni occasione, oppure alla tradizione di partecipare col mio piatto, che presto sarebbe diventato «nostro», ai loro tre pasti quotidiani.

Quando gli allevatori se ne andarono e lasciarono Sofia nel mio giardino, persi ogni illusione. Il mondo, il mio piccolo mondo di cane, mi crollò addosso: mi sentivo inutile, messa da parte, profondamente umiliata. Che cosa avevo fatto per meritarlo? Arrivai a odiare mio padre, giurai che non l’avrei più guardato in faccia.

In pochi minuti, quel demonio di cucciolo tritò tutti i fiori che mia madre aveva piantato soltanto un’ora prima. La furia devastatrice di quella creatura si spostò poi sui rami bassi del gelsomino, sullo stuoino di gomma, sui sandali, sul tubo della grondaia, sulla ringhiera delle scale verniciata un mese prima. E a fine estate sarebbe continuata a Milano: sui vestiti lasciati su una sedia, su un divano, su una poltrona, sui suoi stessi guinzagli. I giochi non le duravano niente e, distrutti i suoi, azzannava i miei. Fece danni incalcolabili quella piccola delinquente e causò accese discussioni in famiglia. Una volta la mamma, con le braccia tutte insanguinate per aver subito i suoi assalti furiosi, le gridò: «Vattene, Pitbull!».

Due mesi più tardi, appena tornati a Milano dalle vacanze, i nostri genitori ci lasciarono sole per andare al supermercato. All’inizio Sofia se ne stette buona buona sul pavimento, poi si trasferì nella camera da letto. Due ore più tardi i nostri genitori tornarono. Papà entrò in camera e vide il letto matrimoniale completamente lacerato: rivestimento in microfibra, fodera interna, imbottitura. Sul pavimento centinaia di frammenti di tessuto. Si voltò verso la mamma e disse calmo: «È meglio che non entri… Intanto stai tranquilla, a tutto c’è rimedio.» Aveva ragione, ma il conto del tappezziere fu salato.

Era evidente che i miei genitori si erano tirati addosso una bella grana. «Vi sta bene la lezione!» pensai, «Credevate che tutti i Golden fossero come me? Credevate che anche Sofia sarebbe stata beneducata e civile come me? Ingenui, sono io l’eccezione e adesso dovete darmene atto.»

Ma anch’io ebbi una bella lezione. Imparai che gli uomini sono mascalzoni. Eppure non seppi portare rancore a mio padre. Perché lui conosceva il mio lato debole e seppe farsi perdonare.

Bisogna sapere che, prima dell’arrivo di Sofia, la sera lui passava sempre a salutarmi: si abbassava sulla mia cuccia, mi stropicciava sulle cosce e sul petto, mi sussurrava qualcosa di carino nell’orecchio, un complimento oppure i versi di una vecchia canzone, tipo quelli famosi di Alan Sorrenti «Tu sei l’unica donna per me» (che in seguito sarebbero suonati clamorosamente falsi). Dopodiché mi addormentavo.

Quel rito serale durava soltanto un paio di minuti, ma io lo aspettavo tutte le sere come si aspettano gli avanzi dell’arrosto e dalla mia cuccia seguivo con gli occhi tutti i movimenti di mio padre in attesa di quei due minuti di intimità.

Il giorno che arrivò Sofia, me ne andai a dormire molto presto, perché non ne potevo più delle esibizioni di quella smorfiosetta sfacciata, tanto nessuno avrebbe notato la mia assenza. Sapevo che da quella sera papà non avrebbe più avuto né tempo né voglia di darmi la buonanotte. Meglio così: avevo detto che non lo avrei più guardato in faccia e volevo essere coerente fino in fondo.

Chiusi gli occhi e feci una riflessione sul significato della parola solitudine. Venivo lasciata in casa sola quasi tutti i giorni. Eppure, benché sola, non avevo mai sentito il peso della solitudine. Passavo il tempo a sonnecchiare sul divano oppure, se era una bella giornata, andavo sul balcone, guardavo il viavai delle persone e aspettavo. «Ecco, sta arrivando la mamma», dicevo quando la vedevo spuntare all’angolo, e subito correvo alla porta. Tradizione voleva che lei mi salutasse con un paio di biscottini, ma naturalmente sarei corsa lo stesso alla porta, pure se non me li avesse dati. Insomma ero felice di aspettare, perché sapevo che anche loro, i miei genitori, erano impazienti di rivedermi e di premiarmi per l’attesa. Quella sera dell’arrivo di Sofia non ero sola, i miei genitori erano tutti e due in casa, a pochi metri da me, eppure per la prima volta capii il significato della parola solitudine. Non mi restò che appoggiare il muso su una zampa e chiudere gli occhi.

Invece poco più tardi, mentre ero ancora immersa nelle mie riflessioni, papà arrivò, si chinò su di me, appoggiò una mano sulla mia spalla e la fece scorrere sul mio corpo, massaggiandomi teneramente. Lo lasciai fare, perché era quello che desideravo e che, a quell’ora di sera, più tarda del solito, non mi aspettavo più. Il mio rancore si sciolse come neve al sole. Dopo una breve resistenza, mi girai pancia all’aria, allargai le zampe e mi lasciai accarezzare tutta quanta. Mio padre si chinò allora fino ad appoggiare la sua guancia sulla mia e mi sussurrò nell’orecchio: «Asia mia, Asia mia, che brutto scherzo ti ho fatto. Perdonami. Tra di noi non cambierà niente, te lo prometto, tu rimarrai sempre la numero uno.»

Era meglio se stava zitto, ma la sua visita inaspettata mi fece piacere. E naturalmente lo perdonai.


(continua la settimana prossima)

 

Immagine di copertina: Febbraio 2010. Raffaele, Asia e Rita – Paolo Carlini Ph.

 

 

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