L’eredità di Asia [2]


di Raffaele Laurenzi


Capitolo III

Ci fu un momento di silenzio che sembrò eterno, dopodiché il veterinario puntò il dito sul monitor e pronunciò il suo verdetto: «C’è stata un’emorragia, vedete quest’ombra com’è estesa?».

«Che cosa si può fare?» chiese mia madre con voce controllata.
«Bisogna asportare la milza.» Ma aggiunse una condizione: «Se ci sono metastasi, l’intervento è inutile. In genere le metastasi si sviluppano nei polmoni.»

Un intervento, dunque? Se fosse stato risolutivo, mi stava anche bene. Ne avevo già fatto uno, quello di sterilizzazione, quando avevo un anno e mezzo. Non provai dolore, ma quando mi svegliai ero come ubriaca, cercavo di alzarmi e ricadevo giù. Quando fui a casa, la mamma mi aiutò a salire sulla penisola del divano e lì mi addormentai. Al mio risveglio, poche ore più tardi, gli effetti dell’anestesia erano svaniti. Tutto sommato fu una passeggiata, ma stavolta, a quanto potevo capire, sarebbe stato più complicato. Pazienza, avrei affrontato anche questo. Peccato però, proprio durante le vacanze al mare e nel pieno della calura estiva.

Il veterinario prese la siringa, mi sollevò un lembo del coppino e affondò l’ago: «È cortisone» disse. «La farà stare meglio.» Aveva ragione, mi sentii subito meglio, ma per salire in macchina fu ugualmente necessario l’aiuto di papà. A casa mangiai con appetito, feci la pipì e mi stesi sulla cuccia, senza dormire. Sofia mi venne vicino e mi annusò: avevo addosso l’odore dello studio veterinario, che anche lei conosceva bene. A modo suo, mi dimostrò la sua vicinanza. Capii, forse troppo tardi, che lei non era mai stata una rivale, ma una sorella più piccola, una giuggiolona destinata a restare tale tutta la vita. In fondo era questo che la rendeva simpatica, sicuramente più simpatica di me, che sono sempre stata poco confidenziale, sia con i cani, sia con le persone che non erano della famiglia. Le fui grata dell’attenzione e provai un po’ di rimorso per come l’avevo accolta all’inizio.

D’altra parte lei era invadente davvero, ficcava il naso dappertutto e i miei genitori, che poi erano anche i suoi, non erano capaci di insegnarle la disciplina e il rispetto. Lo feci io, e non fui affatto gentile. La prima volta che osò prendere il mio panda di peluche, ghignai divertita: «Ora ti sistemo io». Mi finsi addormentata e aspettai che affondasse i suoi dentini aguzzi nel peluche. A quel punto scattai come una molla verso di lei e le feci una ringhiata rabbiosa a due dita dal muso. Sofia rotolò all’indietro sulla schiena, si rialzò e fuggì in cucina, tra le gambe della mamma, dopo aver fatto il giro largo del soggiorno per evitarmi. Per un po’ non si fece vedere.

Mi meravigliai del risultato, superiore alle mie aspettative. Ma passata la paura, Sofia tornò imperterrita a fare i suoi comodi, a impadronirsi di tutto, a occupare i miei spazi. Sembrava alimentata da una carica inesauribile di energia, che io non potevo fronteggiare, perché una sfuriata, come quella descritta, dovete credermi, costa fatica, richiede concentrazione, tempismo e soprattutto una dose di aggressività che non è nella mia indole, perciò impiegavo un certo tempo ad accumularne in quantità sufficiente per una nuova sfuriata… Insomma, non potevo ringhiare in quel modo tutto il giorno.

Però la lezione un po’ era servita. In seguito, quando lei esagerava, mi bastava far vibrare il labbro e scoprire due centimetri dei miei canini, bianchi e affilati, per tenerla lontano dalle mie cose e dal mio territorio, a cominciare dal divano.
Ero invidiosa della sua esuberanza e della sua giovinezza. Aveva dieci anni meno di me, mi faceva concorrenza sleale: io non potevo più fare certi giochi, non ne avevo voglia; lei invece sequestrava mio padre per intere mezzore, più volte al giorno. Era una usurpatrice, me lo aveva portato via, mi aveva rubato le sue attenzioni. E io, dispettosa, le mostravo i canini per cacciarla via: doveva capire chi comandava.

Forse avrei dovuto essere più tollerante. Quando si diventa anziani si dimentica come eravamo. Sofia era una cucciola, aveva i suoi diritti, e nei miei confronti, a parte la querelle intorno al divano e ai peluche, era sempre stata rispettosa. E poi le ringhiate a brutto muso a che servivano? Il tempo non giocava a mio favore e alla fine avrebbe lo stesso vinto lei: era un torrente in piena e io non potevo arginarne l’impeto. Non a lungo. Lei aveva tutto da conquistare, io tutto da perdere, a cominciare dal mio divano.

Ho detto «divano» non a caso, perché la «penisola», la mia «penisola panottica», l’avevo già persa diversi anni prima. Vennero due uomini, smontarono il divano a giro e lo portarono via. Assistetti a quelle manovre con preoccupazione, cercai un motivo, mi interrogai se tutto ciò stesse avvenendo per causa mia. Sì, è vero, dove io mi appoggiavo la pelle chiara del divano mostrava un’impronta che in effetti poteva sembrare la mia. Ogni tanto la mamma cercava di cancellarla passandoci sopra una crema detergente, ma in effetti qualche traccia di grigio restava sempre. Possibile che i miei genitori volessero sbarazzarsi del divano a giro, il mio divano, per così poco?

Alcuni minuti più tardi, al posto del divano a giro c’erano due divani, disposti tra loro ad angolo retto, e una poltrona: due divani grigi, senza impronte, senza il mio odore, che mi erano del tutto estranei. Non sapevo dove stare, alla fine mi adattai a sdraiarmi sul tappeto, vicino al divano nuovo che aveva preso il posto della penisola, ma senza che vi fosse contatto tra me e il tessuto in microfibra di quell’intruso.

Un giorno mio padre mi lanciò un biscotto sopra il divano. Non ci pensai due volte, saltai su e lo trangugiai. Mio padre rifece quel gioco il giorno dopo e quando fui lì sopra per afferrare il biscotto, lui prese a massaggiarmi e a pasticciarmi e io lo lasciai fare abbandonandomi, senza rendermene conto, su quei cuscini in microfibra che disprezzavo. Mio padre ripeté altre volte il gioco e alla fine mi convinse a sospendere lo sciopero del divano, che durava da sette giorni. Del resto, la mia protesta non avrebbe avuto alcuna prospettiva di successo, neppure se fosse andata avanti per un mese.

Dovetti poi riconoscere che ne avevo fatto unicamente una questione di principio, perché su quel divano grigio stavo meglio di prima. La presenza del bracciolo e dello schienale gli conferivano un «effetto cuccia» assai piacevole che la vecchia «penisola» non aveva. Imparai anche ad apprezzare la comodità dei cuscini morbidi che mia madre aveva appoggiato ai braccioli.

Dopo le passeggiate, mi immergevo tra quei cuscini e dormivo profondamente; se un rumore mi svegliava, per esempio se qualcuno suonava il campanello, mi bastava alzare la testa sul bracciolo, in posizione periscopio, per controllare la situazione. Insomma, in poche settimane, quello era diventato il «mio» divano. Sull’altro, dove si sedevano i miei genitori per guardare la tivù, non volli mai salire. Mio padre provò in tutti i modi a convincermi che il secondo divano poteva rappresentare un’alternativa, ma inutilmente: ne avevo già uno, mi bastava.
Invece quella sfacciata di Sofia saltava dappertutto: sui letti, sui divani, sulla poltrona di mio padre, persino sulle sue ginocchia. Una volta saltò sulla sedia e dalla sedia sul tavolo, dove la mamma aveva appoggiato il piatto con l’arrosto già affettato. Ne rimase poco di arrosto e poiché c’erano ospiti a cena, i miei genitori dissero, per farlo bastare, che preferivano la crescenza. Arrivava dappertutto Sofia, ma non aveva ancora conquistato il mio divano. Ci riuscì la prima volta approfittando di una mia distrazione. Per quanto fossi presente, non potevo esserlo sempre. E quella furbetta ci saltò sopra. Perché non le bastavano i letti, le poltrone, le cucce, i tappeti: macché, voleva pure il mio divano; anzi il divano era diventato il suo principale obiettivo, l’ultima rocca da espugnare…

Non mi volli arrendere, dovevo resistere, resistere, resistere, perciò continuai a fare la guardia. Ogni volta che la sorprendevo lì sopra, mi avvicinavo a un palmo dal suo naso e la guardavo fisso negli occhi: immediatamente lei sloggiava. Ma alla mia prima distrazione, ci saltava sopra. Era una squatter instancabile. Ed io, dieci anni di più, alla fine mi arresi. Arrivai alla conclusione che insegnare a Sofia le buone maniere era tempo perso, perciò, dopo un paio settimane di vana resistenza, adottai la politica della desistenza: se trovavo il divano occupato abusivamente, andavo a sdraiarmi da un’altra parte. Tanto per me era lo stesso.

L’iniezione di cortisone mi aveva fatto bene. La mattina seguente, presto come al solito, andammo in spiaggia a passo lento. Io mi scavai una buca sotto l’ombrellone per stare più fresca e tentai di riposare, ché ne avevo bisogno. Ogni tanto aprivo un occhio e da lontano guardavo Sofia che correva dentro e fuori dall’acqua e saltellava su due zampe per raggiungere il bastone di plastica che papà le agitava in alto e poi lanciava in mare. C’erano i cavalloni e lei ci si buttava dentro come se volesse domarli. Ogni volta si guadagnava un «brava!», quella sbruffona. L’invidiavo ma anche l’ammiravo per la sua esuberanza. Io erano due anni che non facevo bagni in mare. Non ne avevo più voglia, l’acqua non mi attirava come una volta. Anzi, non sono mai stata fanatica del bagno in mare. Da cucciola avevo addirittura paura delle onde. La superai perché fui spinta a tuffarmi dalla foga del gioco con gli altri cani. Perché anche io, ai bei tempi, andavo a giocare sulla spiaggia con i miei amici alle sette del mattino. Eravamo in tanti, grandi e piccoli, maschi e femmine, meticci e di razza. Allora non si poteva fare il bagno. Anzi, a noi cani era proibito perfino l’accesso in spiaggia, ma a quell’ora non c’era nessuno, neppure la polizia municipale. Avevo stretto amicizia con una Labrador color cioccolato che continuava a fare dentro e fuori dall’acqua per prendere il bastone lanciato dal suo padrone. Alla fine mi tuffai anch’io: vinsi così la ritrosia che avevo per l’acqua. Nuotavo con grande sicurezza, ma non ero come certi miei amici, che non appena vedevano l’acqua ci si buttavano dentro. A me ci voleva una ragione per farlo: il bastone lanciato in acqua da mio padre per esempio, oppure i miei genitori che andavano a fare il bagno tenendosi per mano, lasciandomi a guardare sulla battigia. Lo facevano apposta, per provocarmi: sapevano che non tolleravo di restare esclusa, che loro si potessero godere quel momento senza di me. Perciò abbaiavo forte perché tornassero indietro, ma poiché loro mi ignoravano, mi gettavo in mare come una furia, li raggiungevo e mi infilavo tra di loro per separarli. Insomma ero pigra ma, quando volevo, nuotavo meglio di un Labrador.

A volte sulla spiaggia libera si formavano gruppi di sei o sette cani, tutti amici e tutti pronti a contendersi in una gara di nuoto i bastoni lanciati in acqua. Ma dopo un po’ di quel gioco io mi stufavo: c’era sempre qualcuno che partiva da una posizione di vantaggio e logicamente arrivava prima. Perciò rinunciavo alla competizione: restavo con le quattro zampe ben piantate sulla battigia, rivolta verso il mare, e lasciavo che gli altri corressero a prendere il legno. Quando uno di loro mi veniva a tiro, mi lanciavo in acqua, gli saltavo davanti e gli abbaiavo forte sul muso: quello si spaventava, mollava in acqua il bastone e io me ne impossessavo. Con poca fatica.

Naturalmente facevo solo rumore, non ho mai morso nessuno in vita mia, e se un cane non si lasciava spaventare, pazienza, aspettavo che ne arrivasse un altro più impressionabile.

Una fitta al fianco mi ricordò che avevo un problemino alla milza. Non immaginavo che questo organo, a cui avevo sempre attribuito poca importanza, potesse causare guai tanto seri. Sapevo del cuore, del fegato, organi nobili, ma la milza proprio non me l’aspettavo. E poi in pieno luglio, per rovinarmi le vacanze. Perché io ci stavo bene al mare. A ogni apertura di stagione, in genere a Pasqua, quando c’era poca gente, la mia entrée in spiaggia era spettacolare. Non appena mettevo le zampe sulla sabbia, papà sganciava il guinzaglio e io correvo come una pazza verso la battigia.

Papà mi gridava: «Capriola, vogliamo la capriola!», e io subito mi esibivo in una serie di ruzzoloni, ebbra di libertà e di spazio. Finalmente, dopo tanti mesi, vedevo l’orizzonte infinito, tutto il cielo che il mio campo visivo poteva abbracciare; finalmente venivo liberata da quel fastidioso laccio al collo. Sì, al mare ero felice. La mattina presto, due o tre ore in spiaggia non me le toglieva nessuno, neppure la pioggia.

Se non era troppo caldo, i miei genitori mi portavano in spiaggia anche il pomeriggio, sul tardi, ma mi piaceva di meno: c’erano ancora troppi bambini a quell’ora. Intendiamoci, volevo bene ai bambini, anzi da cucciola li cercavo perché con loro giocavo volentieri, ma a una certa età, dopo aver tirato su quattro nipoti, si ha il diritto di stare in pace. Invece li avevo tutti addosso. Del resto, pagavo il prezzo della popolarità: frequentavo la stessa spiaggia da quando ero cucciola, mi conoscevano tutti. Quando facevo la passerella tra gli ombrelloni c’era sempre un bambino che gridava: «È arrivata Asia, è arrivata Asia!» e poi veniva a trovarmi sotto l’ombrellone: «Posso accarezzarla?». Naturalmente i miei genitori acconsentivano, anzi incoraggiavano i bambini a farlo, convinti di farmi piacere: «È buonissima» dicevano, e subito arrivavano altri bambini.

Li avevo tutti intorno: otto, dieci mani che volteggiavano davanti al mio naso e sulla mia testa. Con quel caldo! Quando non ne potevo più, mi alzavo e mi trasferivo sotto un altro ombrellone, ma con calma e naturalezza, per non offendere, per non sembrare scontrosa. Con i bambini sapevo essere materna: non ho mai perso la pazienza, mai ringhiato, mai fatto scatti d’insofferenza.

Credo che la virtù della pazienza mi verrà riconosciuta, ma, sia chiaro, non lo pretendo e alla fine non me ne importa un fico secco perché, come è facile capire, non me ne verrà alcun vantaggio. In questo momento la penso così, perché sono arrabbiata col destino e vorrei nascondere la verità, che è molto diversa: il timore di essere troppo presto dimenticata.

Sì, mi piaceva la vita di spiaggia. Io che non sono mai salita volentieri in automobile, quando si trattava di andare al mare sopportavo il sacrificio di buon grado. Che si stesse avvicinando il giorno della partenza lo capivo principalmente da due indizi: dai discorsi dei miei genitori, dove la parola «mare» era ricorrente, e dal disordine in casa, con tanta roba in giro e le mie pappe allineate in corridoio, pronte per essere caricate in macchina. E due indizi, come è noto, fanno una prova.

La conferma definitiva della partenza imminente arrivava quando mio padre prendeva la scala e tirava giù le valigie dal soppalco: «Evviva,» dicevo, «domani si va al mare!».

Partivamo la mattina tardi. Prima andavamo a fare il solito giretto in cerca di uno spazio verde… Insomma, ci siamo capiti. Al ritorno mangiavo la pappa e assistevo alle complesse manovre per chiudere la casa: tapparelle, acqua, luce, chiavi… Io viaggiavo sul divano posteriore, dove papà aveva preparato la mia cuccia: una vasca che occupava tutta la larghezza della macchina e tutta la distanza disponibile tra gli schienali posteriori e anteriori dei sedili, compreso lo spazio per le gambe dei passeggeri.

Ci stavo comoda, come sul divano di casa, almeno fino a quando non arrivò quella guastafeste di Sofia, che non stava mai ferma e a volte mi vomitava addosso tutto quello che aveva nello stomaco. Per fortuna la mamma era sempre organizzata: teneva stracci e rotoli di carta a portata di mano per ogni evenienza. Si voltava, si allungava e asciugava. Pensavo: ora che sta male di stomaco, Sofia mi lascerà in pace… Macché, rompermi le scatole e invadere il mio spazio era per lei una missione imprescindibile.

A questo proposito, mi piace pensare che i miei genitori mi ricorderanno anche per il poco disturbo che ho dato in viaggio. Non ho mai vomitato, non ho mai chiesto di fare una fermata straordinaria per mia necessità; anche se non ero entusiasta di viaggiare, saltavo a bordo senza aiuto, almeno finché le zampe me lo hanno permesso.

Verso mezzogiorno il profumo di prosciutto e mortadella invadeva l’abitacolo: «Evviva, si mangia» dicevo. A quell’ora infatti la mamma tirava fuori i panini, così non dovevamo fermarci all’Autogrill. Ne dava uno al papà e il suo lo divideva con me.

Quando papà lavorava, io e la mamma si pranzava così, col panino, anche nella nostra casa di Milano. Eravamo io e lei da soli, non valeva la pena di apparecchiare la tavola. La mamma metteva i sandwich sul piatto e si accucciava vicino a me, davanti alla tivù. Era un bel momento, dividevamo tutto. Ogni tanto mi diceva: «Mi dai la zampina?» e io zac, gliel’appoggiavo sulle gambe. Poi diceva: «Bacino!». E io la baciavo garbatamente sulle labbra.

Mamma mia quanto tempo abbiamo passato insieme e quanta serenità. Mi hai dato tanto e questo sarà un guaio, perché ti mancherò altrettanto e adesso mi chiedo se non ho esagerato a prendermi tanto del tuo tempo: lascerò un vuoto, immagino le conseguenze. Mi rattrista pensare che un giorno, temo molto presto, tu possa soffrire per me. D’altra parte, mi consola sapere che ho avuto un ruolo importante nella tua vita.

 

Capitolo IV

L’intervento era fissato per martedì. Avrei voluto che fosse già arrivato quel giorno, perché la fatica dell’attesa si aggiungeva a quella di vivere.

Durante le mie brevi uscite sotto casa, mi trascinavo stancamente dietro i miei genitori, che mi lasciavano senza guinzaglio e mi avevano anzi esonerato da ogni obbligo, come quello di mettermi seduta prima di prendere un biscotto o di cedere il passo nei passaggi stretti. A tavola, i bocconi più ricchi erano per me e quando veniva versata l’acqua, il primo sorso era il mio. Mi venivano riconosciuti i diritti dell’età, sebbene io non li pretendessi. Intendiamoci, apprezzavo gli sforzi dei miei genitori, ma tendevo a dare poca importanza a queste piccole gratificazioni. Il mondo contemporaneo mi interessava sempre di meno, perché mi mancavano gli strumenti per gustarlo: il vigore fisico, la curiosità di nuove scoperte, soprattutto l’entusiasmo per cose che adesso consideravo trascurabili.
Durante le lunghe ore passate nella mia cuccia, a riposare di fatiche che non avevo fatto, ricordavo volentieri la mia età beata, ma col dovuto distacco, senza struggermi nella nostalgia, che è fatica sprecata, e mi chiedevo come fosse stato possibile, in un tempo volato così in fretta, che io fossi passata, per dirne una, dall’eccitazione, che provavo quando mia madre prendeva il guinzaglio, alla quasi totale indifferenza.

Mia madre lo faceva tutti i giorni di portarmi fuori e io sapevo ciò che mi aspettava: solite strade, soliti amici, eppure ero felice e non mi stancavo di quella routine: il parchetto, qualche corsetta, un caffè, poi a casa, la pappa (che non era mai abbastanza) e finalmente potevo farmi una dormita sul divano. Spesso la mamma usciva per le commissioni e io, che avevo l’orologio incorporato, dopo mezzogiorno andavo vicino alla porta o sul balcone ad aspettarla; quando mi portava con sé, anche una passeggiata per vetrine, mi dava sempre piacere. Nella borsa lei teneva una buona scorta di croccantini e ogni tanto me ne allungava uno. Con quel piccolo gesto, mi diceva che mi pensava, che ero importante per lei e non mi avrebbe mai abbandonato. Un cane non avrebbe potuto desiderare di più. Tutti i giorni era così, a eccezione del venerdì. Il venerdì infatti era speciale: era giorno di mercato. Oltre al guinzaglio, mia madre prendeva anche il carrello della spesa e quello era la conferma di ciò che avevo atteso tutta la settimana. Ci avviavamo a passo lesto; la mamma teneva in una mano il guinzaglio, nell’altra il carrello. La nostra meta era il camion-negozio di Sonia e Maurizio, miei grandi benefattori.

I profumi che venivano da quelle vetrine stracolme di formaggi, prosciutti e salami, troppo alte per me, li annusavo con avidità, me ne inebriavo fino a farmi girare la testa. Una volta Maurizio mi passò vicino brandeggiando una grassa mortadella: mancò poco che svenissi. Nonostante ciò, seppi sempre mantenere il mio self control. Non mi alzavo mai sulle zampe posteriori: restavo seduta accanto alla mamma in modo composto e attento, come una collegiale.

Purtroppo, senza volerlo, mi cadevano dalla bocca grosse gocce di bavetta che non riuscivo a controllare. Per fortuna Maurizio mi veniva in aiuto: interrompeva il suo lavoro e mi lanciava dal banco una palla di ritagli di prosciutto cotto, che s’infilavano direttamente nel mio stomaco. Bastava questo per placare l’acquolina.

Finita la spesa, Maurizio prendeva con le sue grandi mani un’altra manciata di ritagli di prosciutto, bresaola e altre meraviglie, le avvolgeva nella stagnola e le passava a mia madre: «Questo è per Asia» diceva. Sulla strada del ritorno, ci fermavamo ai giardinetti e facevamo picnic.

Capito perché il venerdì era un giorno speciale? Lo era anche per te, vero mamma?, che ti gonfiavi di orgoglio quando i passanti si fermavano a guardare la scenetta, con me seduta che ti davo la zampina, tu che mi infilavi il prosciutto in bocca e io che alla fine ti ringraziavo con un bacio. E poco importava se a volte, naturalmente per errore, i miei canini afferravano anche le tue dita…

Il nostro tran tran quotidiano cambiò il giorno in cui mio padre andò in pensione. Nel senso che facevamo le stesse cose di prima, ma le facevamo in tre. Invece il sabato e la domenica spesso ero tutta del papà, così la mamma poteva sistemare la casa o dedicarsi ai nipoti. A questo riguardo, devo ammettere che io davo un piccolo contributo al suo lavoro. Batuffoli dei miei peli biondi percorrevano leggeri il corridoio a ogni refolo di vento e si fermavano sui tappeti e negli angoli remoti della casa.

La mamma si lamentava perché trovava miei peli anche sul divano, sul letto, sul pavimento della cucina; matassine bionde avvolgevano i piedini delle sedie, si nascondevano dietro le porte, si appiccicavano alle ciabatte, agli abiti di pile, agli oggetti di plastica carica di energia elettrostatica. Se dovrò lasciarvi, avrete meno da faticare, ma i miei peli mi sopravviveranno ancora per qualche giorno in qualche angolo della casa, finché il vento, il tempo e l’aspirapolvere non avranno eliminato ogni mia traccia fisica.

Ciò non basterà, cari genitori, a liberarvi di me: per quello, ci vorrebbe l’«aspiraricordi», che purtroppo per voi non è stato ancora inventato. Troppe cose sono successe durante questi dodici anni per pensare che io possa essere riposta in un angolo remoto della vostra memoria. Naturalmente, non dico questo per darmi importanza. Che soddisfazione potrei trarne in questa fase della vita? È perché sono consapevole, e anche voi lo siete, che il distacco sarà doloroso. Perciò sarà bene non scacciare i ricordi, ma affrontarli a uno a uno, fino a trasformare il dolore in piacere, fino ad addolcire le lacrime.
E poi, che diamine, proprio io devo rammentarvi che sono soltanto un cane? Non vi sembra esagerato, con tutti i problemi che ci sono al mondo, preoccuparsi di un inutile cane?

Credo che «inutile» sia, nel mio caso, un aggettivo appropriato. Sono una Golden Retriever, razza definita «da lavoro». In realtà non ho mai «lavorato», non sono stato uno di quei cani-eroe che scavano nella neve per individuare gli sciatori sepolti dalle valanghe, non ho mai cercato segni di vita tra le macerie di un terremoto e non ho neppure mai salvato bagnanti in procinto di affogare, anche se una volta ci ho provato, ti ricordi mamma?

Ti eri buttata in acqua e mi avevi lasciato ad aspettare sulla battigia. Mi sedetti e ti seguii con lo sguardo, finché non ti vidi più: vedevo soltanto sbuffi d’acqua che mi allarmarono, perché credetti che stessi annaspando. Perciò corsi a salvarti. Con quattro zampate ti raggiunsi e ti presi per il copino… Che ne sapevo che stavi soltanto nuotando con la testa sott’acqua? Fu la conferma che come cane da lavoro non valevo una cicca.

Però mi dovete riconoscere che come baby sitter ci sapevo fare: vi ho aiutato a tirar su tre nipoti maschi, che si appigliavano con le loro tenere manine sporche di pappa al mio mantello per muovere i primi passi e mi adoperavano come cuscino per guardare i cartoni animati comodamente distesi sul tappeto.

                           

Purtroppo la nipotina è arrivata tardi, quando avevo quasi undici anni: di lei mi sono occupata poco, ma Sofia, che è giovane ed è tanto un buon cane, potrà prendere il mio posto. È giusto che anche lei si renda utile. Non sono qui a tessere le lodi di me stessa. Sono qui solo per il piacere di ricordare e ricercare nella memoria le cose che hanno dato un senso alla mia vita. Perciò, senza rivendicare un merito mio personale, che appartiene invece a tutta la specie «canis lupus familiaris», chiedo ai miei genitori di controllare la loro rubrica telefonica e di selezionare gli amici che sono tali per davvero, non semplici conoscenze.

Parlo di quelle persone con cui condividiamo i nostri sentimenti senza vergogna; che abbracciamo e consoliamo se ci raccontano che hanno perso un affetto. Fatelo questo esperimento, fatelo tutti: scoprirete che i vostri migliori amici sono quelli che hanno un animale e spesso li avete conosciuti nelle aree di sgambamento o ai giardini che frequentate abitualmente col vostro cane. Passateli in rassegna: a parte qualche eccezione (ce ne sono sempre), sono tutte persone gentili e disponibili, pronte ad ascoltarvi e a darvi una mano. Quello che una volta succedeva negli scompartimenti dei vagoni, dove tra Napoli e Milano sei sconosciuti raccontavano la loro vita, i loro problemi, delusioni e speranze, oggi accade nelle «aree cani».

Naturalmente non potevo partecipare alle vostre conversazioni, mi esprimevo soltanto con i pochi gesti e i pochi suoni di cui sono capace, eppure ogni volta che uscivamo vi davo l’opportunità di incontrare gente e di scambiare qualche parola. Mi pare che si dica «socializzare»: credo che nella vostra società umana ce ne sia bisogno. Chi è solo, lo tenga presente: per trovare il compagno o la compagna della sua vita, non è sempre necessario fare una crociera ai Caraibi o sperare che durante la pausa pranzo una persona che ci interessa appoggi il vassoio accanto al nostro. Spesso basta un cane.

Ecco dunque il mio lavoro, in realtà una missione: dare un reale contributo alla socializzazione. In questo ruolo riuscivo bene, perché ero favorita dalla popolarità di cui godevo nel quartiere, soprattutto tra i bambini, i miei migliori follower.
Naturalmente la popolarità ha un prezzo. Quando non ci sarò più – perché prima o poi dovrà accadere – vi fermeranno per la strada decine di persone, vi chiederanno di me, vorranno sapere. Voi dovrete dare delle risposte e ogni volta si rinnoverà la commozione, come avvenne per Lucky, che morì sotto i vostri occhi in quel laghetto del Forlanini. Ne parlarono anche i giornali e riceveste decine di telefonate, anche da parte di proprietari di cani che conoscevate appena. Fateci caso, la solidarietà sincera, quella che sa consolare, viene dalle persone che sanno, per averlo provato, che cosa vuol dire avere un cane.

(continua la settimana prossima)

 

Gamy Moore
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