L’eredità di Asia [3]



di Raffaele Laurenzi


Capitolo V

Sabato alle 18.30 suonò la chiamata della pappa. Sofia scattò in piedi e salì le due rampe di scale rimbalzando sul pianerottolo come la pallina del flipper. Io mossi pochi passi e mi fermai davanti al primo gradino. Mi resi conto che non ce l’avrei fatta. Papà mi prese in braccio e mi portò su. Mi avvicinai alla ciotola, ma mi accorsi che non mi andava di mangiare, solo di riposare. Uscii dalla cucina e andai a buttarmi sulla mia cuccia in camera, seguita dallo sguardo preoccupato dei miei genitori. In effetti, se consideriamo che in vita mia non ho mai saltato un pasto, il rifiuto del cibo non era un buon segno.

Tutti mi vennero a salutare: mamma, papà e persino Sofia, che per me aveva adesso un grande rispetto. Più tardi, i miei genitori andarono a cena. Sentivo che parlavano di me.

Era previsto che il veterinario mi vedesse lunedì, ma il fatto che di nuovo non fossi stata in grado di salire pochi gradini e non avessi mangiato li convinse che non era il caso di aspettare fino a lunedì.

«Ci riceverà?» domandò mia madre «di sabato, alle 9 di sera?». Papà prese il telefono e chiamò il veterinario. Gli spiegò la situazione e quello gli chiese qualcosa. Allora venne da me, mi sollevò le labbra e riferì: «Sì, le gengive sono pallide, molto pallide.» Poi si rivolse a mia madre: «Il veterinario ci aspetta nel suo studio, perché sarà necessario un esame radiologico.» E commentò: «Magari fosse così anche per gli umani: dove trovi un dottore che apre lo studio, o viene a visitarti a casa, di sabato alle 9 di sera?»

Mi fidavo di papà. Molte volte mi difese dalle aggressioni di certi cagnacci. Se non c’era lui, per me sarebbe finita male, perché non sono mai stata in grado di difendermi. Avevo denti da lupo e la forza fisica di un Corso, ma ero una Golden, non avevo istinto aggressivo e combattivo. Purtroppo ci sono cani che invece, dobbiamo ammetterlo, sviluppano quell’istinto indipendentemente dall’educazione che hanno ricevuto. Di loro non c’è da fidarsi. E a volte non ti puoi fidare neppure dei padroni.

La prima aggressione la subii a Milano, avevo sette o otto mesi. Era una domenica mattina, c’erano tanti cani nei giardini vicino casa. Io e papà passeggiavamo tranquilli: annusavo, facevo qualche capriola sull’erba, socializzavo con i miei simili. Una signora che ci conosceva gridò «Attenti, attenti, sta arrivando!». Arrivando chi? Una strana Labrador con gli occhi a mandorla, senza guinzaglio, ben nota nella zona per essere un’attaccabrighe: non con tutti, solo con le femmine che le erano antipatiche.

Si vede che io le ero cordialmente antipatica: due secondi dopo l’avevo addosso. Papà la teneva a bada con i piedi, ma lei incassava i calci e tornava all’attacco, finché mio padre non cadde e allora dovette usare le mani. Si rialzò, riuscì ad afferrare il collare di quel satanasso, lo sollevò con le zampe anteriori a penzoloni e lo riconsegnò al padrone. Il quale, durante tutto il tempo, era rimasto a guardare, come paralizzato. La sola cosa che seppe dire a mio padre fu: «Non si preoccupi, sono assicurato.»

La seconda brutta aggressione fu durante le vacanze al mare. Ero ancora cucciola, avevo poco più di un anno, passeggiavo con papà nella pineta. Incontrammo una signora con un Bull Terrier al guinzaglio. Noi cani ci annusammo, lui con me sembrava carino, io feci un po’ la stupidella, come fanno i cuccioli, poi ci salutammo e ci avviammo verso casa. D’un tratto mi trovai a terra, con un orecchio e mezza testa nella bocca del Bull Terrier, che era sfuggito di mano alla sua padrona. Lanciai un guaito, papà si buttò sul Terrier, gli strizzò i testicoli come si fa con i limoni e alla fine riuscì a liberarmi da quella morsa. Subito corremmo a casa. La mamma, quando ci vide, tutti e due sporchi e insanguinati, si mise le mani nei capelli: «Dio mio, che cosa vi è successo?»

In realtà era successo meno di quello che a tutti era sembrato in un primo momento: le ferite erano superficiali, ma lo spavento era stato grande. Ancora non mi spiego il perché di quell’aggressione. Io non sapevo neppure che tra un maschio e una femmina potesse accadere una cosa del genere.

In seguito dovetti farci l’abitudine, perché di cani con me ringhiosi e aggressivi ne incontrai diversi. Forse ero io, il mio odore, forse il mio passo che non piacevano. Lo spavento più grande lo presi però da adulta, quattro o cinque anni, in un grande parco di Milano. Passeggiavo con papà e mamma, in mezzo a loro, quando una cagnetta malefica si mise ad abbaiare contro di me. Quell’abbaio era un ordine alla sua compagna di vita, una Rottweiler di quasi quaranta chili: «Attacca, attacca!», sembrava dirle. E quella attaccò: fece una lunga galoppata e mi saltò sul collo. Mio padre saltò a sua volta sulla Rottweiler, che per fortuna era aggressiva con le sue simili, non con gli umani. Quando si gettò a terra, infatti, mio padre si trovò faccia a faccia con la Rottweiler, che avrebbe potuto facilmente azzannarlo, ma non lo fece, anche perché aveva già affondato i denti sul mio collo e non mi voleva mollare. Papà la girò dolcemente a pancia all’aria e a quel punto lei mollò la presa. Accorse il padrone della Rottweiler (e dell’altra cagnetta malefica, la mente dell’attacco) e come nel caso della Labrador rimase paralizzato, incapace di agire. Tornammo a casa spaventatissimi: mia mamma sotto shock, papà zoppicando, perché aveva sbattuto un piede contro il cordolo dell’aiola, io con tutti i canini della Rottweiler stampati sul collo.

Papà era diventato il mio bodyguard, riponevo in lui tutta la mia fiducia: se riteneva opportuno portarmi dal veterinario a quell’ora di sera, quando sarei rimasta volentieri nella mia cuccia, voleva dire che era necessario per il mio bene. Pazienza allora, avrei fatto ancora uno sforzo, sebbene avessi seri dubbi sull’utilità di quella visita. Papà invece era ottimista: in quei giorni, a chi gli chiedeva notizie sulla mia salute, raccontava che sarei stata sottoposta all’intervento di asportazione della milza, che ogni problema sarebbe stato risolto in pochi giorni, che mi sarei rimessa «in formissima, che così aveva detto il veterinario». La mamma, intanto, taceva.

Papà mi caricò in macchina, mia madre sedette accanto a me. Era una sera di mezza estate; attraverso il finestrino vidi per un istante una stella cadente; espressi allora un desiderio: rivedere il mare l’indomani assieme ai miei genitori e a Sofia, accoccolarmi sulla sabbia, godermi l’aria frizzante del mattino ancora una volta – il momento più bello della giornata – e conservare quell’immagine fino all’ultimo.

Percorremmo la Statale Romea in silenzio. Ci fermammo davanti allo studio del veterinario e restammo ad aspettare. Cinque minuti più tardi lui arrivò e ci fece parcheggiare all’interno del cortile, perché papà mi avrebbe poi dovuto trasportare in braccio e sebbene nelle ultime settimane fossi dimagrita, ero pur sempre una trentina di chili.

Invece fui in grado di camminare verso lo studio, senza fretta, come chi deve. Il veterinario espose le mie radiografie sul visore e con linguaggio asciutto e chiaro espose la situazione: la zona della milza era invasa di sangue, l’esame del sangue indicava un livello di piastrine molto basso ma non allarmante. In quanto all’intervento, in un primo tempo fissato per il martedì, si vedrà. Dipenderà dai risultati degli esami che faremo il giorno prima, lunedì, quando in studio ci sarà anche il collega ecografo e capiremo meglio la natura di quella macchia sui polmoni, vicino al cuore.

C’era poco da capire. I miei genitori dovevano prendere atto della realtà: avevo un tumore alla milza che galoppava, le emorragie mi indebolivano, il cuore batteva forte, l’intervento chirurgico «che sistema tutto» era un’illusione di mio padre, che al solito era l’ultimo a capire come stessero realmente le cose: potrebbe essere questione di giorni, forse di ore, nessuno poteva sapere quando si sarebbe verificata un’altra emorragia. Perciò meglio non perdere tempo: ho ancora tante cose da dire. Ce n’è una in particolare che mi sono tenuta dentro tutti questi anni e adesso, cari genitori, ve la devo dire, perché i segreti pesano e io invece voglio andarmene serena e leggera.

Non prendete come un rimprovero ciò che sto per dirvi, non voglio che vi portiate dentro un rimorso. So bene che non potevate fare diversamente, però, insomma, un rimpianto ce l’ho: non mi avete permesso di diventare mamma. Neanche una cucciolata.

Voi non potete capire quale consolazione sarebbe stata per me, in quest’ultima parte della mia vita, sapere di aver dato continuità alla mia specie. Non potete capirlo perché voi umani avete perso l’istinto di conservazione della specie. Ripeto, a voi non ne faccio una colpa. Del resto, non ve ne avevo mai parlato prima. Neppure io, da giovane, immaginavo che avrei presto maturato il desiderio di portare avanti una gravidanza, di partorire, allattare e accudire i miei cuccioli fino a che non fossero divezzati. Però i segnali c’erano: vi ricordate quando, dopo il primo calore, radunavo tutti i miei peluche e li stringevo al petto come se dovessi allattarli?

Peccato, avrei fatto cuccioli bellissimi e qualcosa di me sarebbe rimasto. Per voi sarebbe stato un grosso impegno, ma soltanto per tre o quattro mesi e in seguito vi sareste trovati ad affrontare il momento del distacco perché non potevate certo tenere tutta la cucciolata.

Ma quegli otto, dieci, forse dodici cuccioli che cercano il mio latte e lottano per raggiungere le mie mammelle gonfie, avrebbero dato un senso alla mia vita. Diamine, non sono una donna in carriera, sono un cane. E sono una femmina. Che altra soddisfazione avrei potuto avere grande come la maternità? Non solo per me, anche per voi e per i nostri nipoti, che avrebbero assistito allo spettacolo meraviglioso della vita che nasce. Invece conosceranno presto soltanto il brutto spettacolo della vita che finisce. È andata così, pazienza. Ho avuto voi, ho avuto Valeria, Sofia, quattro nipoti. E oggi ho la fortuna di non affrontare da sola questa brutta malattia. Non potevo desiderare di più.

Il veterinario mi fece un’altra iniezione di cortisone e mi rimise in piedi. Disse che ci aspettava lunedì. Quella sera mi buttai sulla cuccia e chiusi gli occhi, feci appena in tempo a sentire mio padre che era venuto a darmi la buonanotte con una carezza, perché presi subito sonno, un sonno difficile, attraversato da un incubo, che mi svegliò in piena notte. Il sogno fu questo: stiamo viaggiando in auto, papà, mamma e io; percorriamo strade strette di montagna, tra forre, strapiombi e pareti rocciose. Alcuni amici ci seguono a bordo delle loro automobili. Non li vedo in faccia, non so chi siano. Ecco un paesino, la strada in salita lo divide in due, ci fermiamo, si fermano tutti, perché non possiamo proseguire, non so il motivo. La mamma scende dall’auto, cammina verso gli amici, che pure sono scesi dall’auto. Papà le dice che avrebbe aspettato con me in macchina. Ma l’attesa diventa troppo lunga. Papà scende dalla macchina, io con lui. La mamma, gli amici e le loro macchine non ci sono più, il paese ha un aspetto spettrale, le poche automobili lungo la strada sono rottami arrugginiti, alcuni ragazzi dall’aria losca entrano ed escono da un portone, ci avviamo a ritroso lungo la strada per cercare la mamma e gli amici, ma non li vediamo: dove sono finiti? Senza dire niente? Dall’altra parte della strada, quei ragazzi visti prima escono dal portone trascinando un cane: lo caricano su un’automobile che subito si allontana.

Io e mio padre abbandoniamo la ricerca e torniamo alla nostra automobile, facciamo inversione e prendiamo una strada a destra: lasciamo il paese e arriviamo in un altro centro abitato, mi accorgo che papà non c’è, sono disorientata, sono sola e ho paura. Vago per il paese, giungo in una piazza affollata, ho il cuore che va a mille. Un uomo si avvicina a me. Qualcuno dice: quella Golden è stata fortunata, ha ritrovato il suo padrone. In effetti l’uomo assomiglia a mio padre, ha i suoi vestiti, ma non è lui. Forse qualcuno ha voluto ingannarmi. Mi guardo intorno in cerca della mamma, provo ad abbaiare ma non ci riesco. Provo, riprovo, dentro di me impreco contro i miei genitori che mi hanno abbandonata. Ma ecco, in una strada in discesa con poche case vedo la mamma, è lontana, un po’ piegata su un fianco perché sostiene il telefono all’orecchio con la spalla, intanto gesticola, cerco di abbaiare per richiamare la sua attenzione, ma ancora una volta resto muta. Mi avvicino, scodinzolo, la tocco insistentemente con una zampa: lei mi fa cenno di stare seduta e si volta per riprendere la conversazione al telefono, che deve essere importante. Poi si allontana, entra in una villa, la seguo. Lei si volta, ma di nuovo si allontana, scompare dietro una porta. Mi sveglio, mi guardo intorno, vedo i miei genitori che si preparano per andare a letto. No, non mi hanno abbandonato. Non ancora.


Capitolo VI

La domenica mattina rimasi a casa con mio padre. Non me la sentivo di andare in spiaggia a rivedere il mare, che era il mio desiderio più grande. Mi resi conto che non avevo molto tempo per sistemare certe cosette che andavano sistemate, per la mia serenità e per dare compimento alla mia vita. Perciò decisi di lasciare una lettera a chi mi ha voluto bene. Non era necessario che la scrivessi sulla carta o sul tablet (d’altra parte, come è facile immaginare, non ne sarei stata capace): mio padre e mia madre sono perfettamente in grado di leggere le lettere che io scrivo col pensiero, con gli sguardi, con il linguaggio del corpo.

La prima cosa che devo dirvi, cari genitori, non vi farà piacere, del resto non è un segreto che a volte mi avete deluso. Quando perdevate la pazienza e alzavate la voce io ci restavo male. E dato che tu, papà, alzavi la voce più di tutti, rivolgo in particolare a te il mio appello: non farlo davanti a Sofia.

Sappi che io ne soffrivo anche per la mamma, perché tra me e lei, lo sai bene, non c’è soltanto affetto, c’è quella solidarietà tutta femminile che ci permette di stabilire un’intesa e una comunione di sentimenti che voi maschi non potete capire.

Purtroppo io appartengo a quel genere di femmine che sono portate ad amare più intensamente gli uomini che le fanno soffrire, pur sapendo che farebbero meglio a mandarli al diavolo. Per questo ho avuto con te un legame tanto sofferto e al tempo stesso tanto stretto. Pendevo dalle tue labbra e mi bastava una lieve alterazione della tua voce per provare un profondo malessere. Per questo quando ti sapevo arrabbiato e ti ritiravi in camera, osavo violare il tuo isolamento e ti venivo a trovare: per calmarti, per dirti che ti volevo bene, per cercare le tue carezze, per me tanto necessarie. Alla fine, erano bei momenti di intimità, che mi ricompensavano della fatica di amarti.

Se dico queste cose è perché la natura mi ha dotato, mio malgrado, di grande sensibilità, «dote» che fa soffrire chi ama di più. L’avrei volentieri rimpiazzata con una più concreta e materialistica soddisfazione di pancia. Ma non è stato così e d’altra parte credo che voi mi abbiate voluto bene proprio per la mia sensibilità, che mi faceva diversa dagli altri cani.

Ve ne rendeste conto quando tu papà – eravamo al mare – portasti a casa quel leprotto ferito. Ricordi? Dicesti che forse era stato attaccato da un rapace perché, povera creatura, aveva un occhio e mezzo musetto maciullati. Tu chiamasti tutti i veterinari della zona, nessuno volle riceverci: era tardi, era solo un animale selvatico e, dato che non aveva un padrone, i veterinari supposero che nessuno avrebbe pagato le cure, anche se tu ti offristi di farlo.

Non valeva la pena di insistere oltre, perché era chiaro che la vita del leprotto finiva quel giorno, ma non ve la sentiste di abbandonarlo: solo, senza la mamma, senza un’ultima carezza. Mia sorella Valeria lo tenne in braccio tutto il tempo e le stavo vicino; annusavo il leprotto e gli alitavo sul musetto, pensando così di dargli sollievo.

Si fece tardi, l’adagiaste in una scatola di cartone imbottita di panni e andaste a cena.

Vidi Valeria angosciata, non voleva staccarsi da quella bestiolina, e allora, per rassicurarla e per consentirle di sedersi a tavola, mi accucciai io vicino al leprotto e rimasi lì tutto il tempo della cena e anche dopo, finché la mamma e Valeria non si accorsero che il leprotto non respirava più. Tu papà prendesti la scatola e la chiudesti: fu quella la sua piccola bara. Poi la mettesti nel cestino della bicicletta, prendesti la pala e ti avviasti verso la spiaggia e io ti seguii fino al cancello.

Raccontasti poi che avevi scavato una piccola fossa sul fianco di una duna di fronte al mare, per restituirlo alla natura. Quella sera andammo tutti a letto turbati, eppure fu una bella serata, che ci tenne tutti uniti dalla speranza, benché vana, di vedere il leprotto riprendersi.

Era quella la mia indole: ogni creatura era mia amica. Ma da giovane non mi rendevo ancora conto della differenza tra gioco e rispetto per gli animali. Capitò così che all’Idroscalo di Milano stavo per farla grossa. Avevo scoperto un buco nel terreno, ci infilai il naso e fui attratta da un odore selvatico e irresistibile come un profumo francese.

Dovevo scoprirne la fonte, a tutti i costi. Perciò cominciai a scavare e non capivo perché mio padre mi tirasse per il collo e volesse allontanarmi da quella promettente galleria che si perdeva nel terreno. Scava scava, trovai un animaletto impacciato e mezzo addormentato: una talpa. La estrassi delicatamente dalla sua tana, la posai a terra, l’annusai perbenino e lasciai che tornasse faticosamente, ma illesa, nella sua tana. Se avessi potuto, le avrei chiesto scusa del disturbo che le avevo arrecato: ero giovane, non sapevo, non avevo mai visto una talpa prima di allora.

Qualche anno più tardi divenni amica di un suo lontano parente, un coniglietto conosciuto durante le vacanze estive. Il coniglietto abitava vicino a noi: quando passavo davanti al suo cancello, mi fermavo col muso appiccicato alla rete e lo aspettavo. Lui si faceva annunciare dal tintinnio del campanello che aveva al collo e dopo un po’ eccolo dall’altra parte del cancello. Restavamo ad annusarci naso contro naso, finché non arrivava la sua padroncina che apriva il cancello e lasciava che il coniglietto venisse a saltellare addosso a me, che me ne stavo lì, distesa a terra per essere alla stessa altezza del mio amico.

Questa ero io. Potete immaginare come fossi inorridita quando ai giardini ascoltavo certe storie… Mi è rimasto impresso ciò che capitò alla mia amica Doberman, che abitava vicino a noi e che ora non c’è più: sul dorso il suo mantello marrone scuro presentava una serie di «buchi»: ognuno il segno della sigaretta che il suo primo padrone le aveva spento addosso. Io sono stata fortunata, non ho mai incontrato uomini crudeli. Stupidi sì. Una volta ero seduta al semaforo in attesa di attraversare la strada e un tizio che arrivò alle mie spalle in bicicletta si fermò con la ruota anteriore sulla mia coda. Un’altra volta, mentre passeggiavo con papà per guardare le vetrine di Natale, qualcuno gettò dalla finestra un petardo che scoppiò in aria, proprio sopra la mia testa. Credo purtroppo che le persone stupide siano più pericolose di quelle crudeli. Infatti la stupidità è congenita, non c’è rimedio. La crudeltà, invece, spesso ha origine dall’educazione e dall’ignoranza: qualcosa si può fare.


Capitolo VII

Io non scordo, e ti prego papà non scordarli neppure tu, i nostri momenti di serenità: i pomeriggi che passavamo insieme, tu ed io da soli, quando la mamma era impegnata con i nipoti. E questo avveniva anche dopo l’arrivo di Sofia, che aveva le sue esigenze legate alla sua esuberanza incontenibile. Perciò tu l’accompagnavi all’asilo dei cani vicino casa, dove lei poteva giocare con i cuccioli della sua età, poi venivi a prendermi e per un’ora e mezzo ce ne andavamo a zonzo, senza fretta, senza guinzaglio, sgranocchiando strada facendo manciate di croccantini («Tanto la mamma non vede», dicevi ogni volta). Finivamo quasi sempre al parco, lasciavi che mi rotolassi felice sull’erba e andavi a sederti su un muretto, all’ombra di un abete, il nostro rifugio, dove nessuno veniva a disturbarci. Io mi distendevo davanti a te sul prato di trifogli e mi godevo quella pace bucolica, mentre tu zappettavi silenziosamente sulla tastiera del tablet. Ogni tanto sospendevi il tuo lavoro, puntavi il tablet e mi scattavi una fotografia da mandare alla mamma, per dirle che stavamo bene. Avrei voluto restare lì con te fino a tarda sera, perciò facevo resistenza quando dovevi portami via per andare a riprendere Sofia all’asilo. Ma il mio ostruzionismo era solo un gioco: volevo venderti cara la mia sottomissione, costringendoti a regalarmi una dose straordinaria di croccantini. «Tanto mamma non vede».

Sai che cosa ho apprezzato di te? Che non mi hai fatto pesare la vecchiaia. Tenevi il mio passo tardo e lento e quando ti chiedevano quanti anni avevo, rispondevi: «Abbiamo la stessa età». Con quelle parole legavi il tuo destino al mio e mi esprimevi la tua solidarietà. Sì, io e te stavamo bene insieme, come stavamo bene io e la mamma ai tempi in cui tu eri al lavoro. Però, quando uscivamo noi tre, tu, mamma ed io, era un’altra cosa: il branco era completo. È difficile spiegare a un umano il forte desiderio che proviamo noi cani di riunire il nostro branco. In natura il branco è necessario alla sopravvivenza, perché singolarmente valiamo poco; uniti invece facciamo squadra e possiamo affrontare ogni pericolo.
Perciò è naturale che vi volessi tutti vicino, uniti nella buona e nella cattiva sorte, e tu mamma cara non puoi immaginare come mi sentissi quando dicevi a papà: «Se ci separiamo, Asia viene con me». Tu magari scherzavi, ma a me, quando dicevi queste cose, mancava la terra sotto i piedi, mi sentivo precipitare nel vuoto e correvo a raggomitolarmi sul divano con la testa tra le zampe: mi proteggevo così quando avevo paura.

Eravamo noi tre quando, ancora cucciola di pochi mesi, mi esibii in una monellata che vi fece tanto divertire. Ci trovavamo a passeggiare in un viale pieno di piccioni, che mi sbattevano le ali davanti al muso in modo fastidioso, una provocazione. Non so che mi prese: scattai in alto e afferrai con i denti la coda di un piccione in decollo. Le conseguenze furono comiche: il povero piccione sbatté forte le ali e riprese il volo, io rimasi a guardarlo con un ciuffo di piume che mi pendevano dalle labbra. Fu l’unica volta che tentai di cacciare un piccione; non solo, fu l’unica volta che rischiai di fare del male a un essere appartenente al regno animale. Ma parlare di «caccia» non è esatto: il mio tentativo di afferrare il piccione era semplicemente un gioco, come quando afferravo al volo la pallina che mi lanciava papà.

Ed eravamo noi tre quando vi feci lo scherzo del praticello… Quanto avrò avuto? Venti mesi? Eravamo al mare, ricordate? Stavamo rientrando dopo il giretto serale, era buio, le strade erano deserte, mi avevate lasciato senza guinzaglio ed eravate orgogliosi del mio comportamento responsabile ed equilibrato. Fui attratta da un praticello e voi aspettaste pazientemente che io completassi la mia esplorazione e magari facessi una pipì. Infatti esplorai, annusai molto, e mi rotolai di gusto, serpeggiando a zampe all’aria sul quel prato dall’aroma inebriante e poi su un fianco e poi sull’altro per catturare tutto quel profumo di natura selvatica che non avevo mai provato prima così intenso, ma che tuttavia avevo riconosciuto, perché bene impresso nei miei ricordi ancestrali. Finalmente sazia, tornai da voi zampettando allegramente.

Ricordo bene le vostre facce disgustate, le imprecazioni, i tentativi di tenermi lontana… Mi resi conto allora che i gusti di noi cani non sempre coincidono con i vostri, che l’essenza di stallatico fresco in cui avevo inzuppato il mio mantello biondo non suscitava in voi umani la stessa attrazione di un Opium o di un Givenchy.
Diceste che in quelle condizioni non potevo entrare in casa. Alle ore dieci di sera mi toccò subire in cortile due trattamenti di shampoo, perché uno non bastò, con l’acqua fredda dell’innaffiatoio. Tra frizioni e fon, andammo a letto a mezzanotte. Credo che mi odiaste. Ma oggi che l’arrabbiatura è dimenticata possiamo riderci sopra, non è vero?

Eravamo sempre noi tre quando, una sera sì e una no, andavamo a mangiare quella pizza che ci piaceva tanto. Mi bastava udire la parola, «pizza», per partire al trotto dritta alla meta. Adoravo la pizza. Mi mettevo seduta tra di voi, composta come una collegiale, e ogni tanto voi me ne allungavate un ritaglio, caldo e croccante.

Ricordate quella sera che esclamaste «Oddio, dov’è Asia?». Già, non ero più al mio posto, accanto a voi, ero sparita, in silenzio come un gatto. Papà scattò in piedi, piantò il tovagliolo sulla sedia e girò lo sguardo nel locale a 360 gradi: «Eccola dov’è!» esclamò puntandomi addosso il dito mentre trangugiavo un pezzo di pizza.

Non ero scappata (perché avrei dovuto?), stavo solo aggirandomi tra i tavoli per fare la questua come un frate cercatore e stavo ottenendo un successo senza precedenti. La tecnica era la stessa che avevo collaudato in altre occasioni: mi sedevo di fronte alla mia «vittima», la guardavo fisso negli occhi e con piccoli colpi di zampa sollecitavo un contributo. Che arrivava regolarmente. Ero bravissima. Ti ricordi papà che cosa dicesti? Che quando saresti andato in pensione, io e te avremmo passato le giornate in una stazione della linea Rossa della metropolitana, dietro a un piattino per le monete e a un cartello di canneté: «SONO UN PENSIONATO E HO UN CANE DA MANTENERE». Dicevi che i miei occhi avrebbero convinto perfino Arpagone a cavare una moneta dalla scarsella e che i soldi guadagnati in quel modo valevano il doppio, perché erano tutti in nero.

Sì, insieme facevamo una bella squadra. E qualche volta siete anche stati miei complici di marachella. Fu di papà, per esempio, l’idea delle stragi di palloni. Capitava che dopo una giornata di tempo brutto, si arrivasse in spiaggia alle sette del mattino e si trovassero palloni e materassini spinti lontano, fin sulle dune, dal vento forte. Papà si divertiva a tirare calci a quei palloni e io mi divertivo a rincorrerli e a bucarli. Una mattina ne facemmo fuori quattro o cinque.

Ero brava anche a rubare le merendine. Ricordi mamma quante volte ti toccò ricomprare gelati e focaccine che io avevo sfilato dalle mani dei bambini al parco? Il «furto» più audace lo feci quando ci trovammo a passare davanti a una scuola elementare mentre uscivano gli studenti. C’era una tale ressa di bambini e di genitori che si faceva fatica a passare.

Ci accodammo a una mamma che prese una focaccina dal sacchetto di carta e la porse al bambino. Io, che gli stavo dietro, seguii da vicino la scia profumata di quella merendina, che pendeva come un’esca dalla mano del bimbo. Allungai il collo, gliela sfilai con delicatezza e la feci sparire nella mia bocca, che è molto capiente. Il bambino probabilmente era distratto, o forse era assorto nei suoi pensieri, e non si accorse di nulla: si guardò la mano e si rese conto che la focaccina non c’era più. E la mamma: «Sei il solito stupido, non ti compro più niente se tutti i giorni fai cadere la merenda in terra.» Arrivati all’incrocio, mamma e bambino proseguirono dritti, noi svoltammo prontamente a destra e quatti quatti ci defilammo. Quando fummo al sicuro, sgranocchiai svelta la focaccia. Commento di papà: «Furto con destrezza, c’è l’aggravante!».

Ma nella mia vita di cane-sempre-affamato ci fu anche un episodio di «furto con dolcezza». Eravamo qui al mare, incontrammo una giovane mamma con un bambino nel passeggino. «Guarda il bau, guarda il bau com’è bello, si può fargli una carezza?» disse la mamma. Il mio aspetto era così rassicurante che capitava spesso che un bambino volesse accarezzarmi. Perciò ci fermammo. Mentre la mamma conversava con voi, io mi avvicinai garbatamente al bimbo e gli sfilai il ciuccio dalla bocca. Tentai di masticarlo, ma mi resi conto che non era un biscotto croccante, perciò lo lasciai cadere a terra.

Povero papà, rimanesti senza parole; tu mamma balbettasti qualcosa per scusarti; la mamma del bimbo sorprese tutti quanti: raccolse il ciuccio, lo strofinò svelta sulla maglietta del figlio e glielo rimise tranquillamente in bocca: una mamma straordinaria. Se ripenso invece a quell’altra di Milano, che voleva che a suo figlio ricomprassimo la fetta di pane e Nutella che io gli avevo mangiato… Dove trovi pane e Nutella quando sei per strada? Bei tempi.
A parte questi episodi e pochi altri, che non vale la pena ricordare, dovete ammettere che non vi ho creato problemi. E anche per quanto riguarda la mia salute, fino a questa «macchia» scoperta una settimana fa, non ho mai avuto niente di serio, sono sempre stata bene. Il merito è anche tuo, mamma, che mi hai curato come una figlia. Scrivevi sul calendario le date dei vaccini e degli antiparassitari e non ne hai mai dimenticato uno. Se fosse dipeso da mio padre, incapace di ricordare anche le sue medicine, sarei stata fresca!

Eri tu mamma che mi pettinavi, che mi tagliavi le unghie, che mi somministravi le gocce nelle orecchie e negli occhi quando erano infiammati. Eri tu che mi toglievi le zecche, che prendevo regolarmente quando andavamo al mare in primavera. Però chi le trovava era sempre papà, perché era lui che mi pasticciava e mi faceva i grattini più di tutti, era lui che notava per primo se camminavo bene o se scuotevo la testa. Lui mi controllava sempre. Una volta si accorse che avevo una strana cosa sul naso, una escrescenza estesa e bitorsoluta, che assomiglia a un nevo, ma che a differenza del nevo era sanguinolenta e umidiccia di siero. Non sapevate che fare: non capivate le ragioni e l’origine di quella piaga ma resistevate all’idea di portarmi dal veterinario, perché c’eravamo stati pochi giorni prima e temevate di apparire apprensivi per ogni minuzia. Decideste di aspettare il giorno dopo per vedere se la piaga si estendeva o tendeva a guarire. Mio padre la misurò, 2,3 per 2,1 centimetri, la fotografò, la esaminò persino con la lente d’ingrandimento: ciò non aiutò a capire l’origine della piaga e se questa tendeva a estendersi o a ridursi. Io però ero tranquilla, perché stavo bene, ma ricordai che due giorni prima qualcosa era successo e avevo sentito un gran male, che però era passato in fretta. Nel pomeriggio, durante la passeggiata, ci capitò di incontrare il veterinario. «Guarda per favore il naso di Asia, che cos’è questa strana macchia?». Lui dette un’occhiata, fece un’espressione accigliata e disse: «Vieni in studio domani che ci guardiamo meglio. Potrebbe trattarsi di…» Disse una parola difficile, che non ricordo, ma dal tono e dalla complessità del nome capii che si trattava di una cosa molto seria.

Invece la visita non fu necessaria: mio padre svelò il mistero della piaga la mattina seguente alle 5, orario che la mamma dimostrò di non gradire: «Prima il caffè, poi mi racconti» disse. Papà si era ricordato che io avevo ficcato il naso sotto uno scooter e mi ero subito ritratta con un guaito sommesso: «Asia si è ustionata il naso toccando una marmitta rovente» disse. E concluse: «Perciò non pensiamo a malattie misteriose: quella piaga è soltanto una scottatura, spero che il pelo le ricresca.» La ferita si rimarginò in una dozzina di giorni, il pelo ricrebbe e da allora mi guardai bene dal ficcare il naso dove si respira odore di morchia e di combustibili.

È curioso che proprio adesso che il tempo stringe io lo sprechi a ripassare questi episodi insignificanti della mia vita. Forse farei meglio a sistemare le cose in sospeso: non voglio lasciare questa incombenza ai miei genitori. Oddio, non è che abbia granché da sistemare: non ho ori, non ho contratti in corso, non ho neppure una pagina Facebook da chiudere. Però sì, alcune cosette le vorrei sistemare: piccole, ma importanti per me. Poi me ne andrò serena.

(continua la settimana prossima)

 

Gamy Moore
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